Migranti: epidemia e burocrazia
Appeso con nastro adesivo al cancello dell’ufficio immigrazione c’è un foglio di carta. Annuncia la chiusura della questura per le tre settimane successive. Dietro il cancello, alcuni funzionari verbalizzano e comunicano con gesti quanto scritto sul cartello. Davanti alla questura c’è qualche decina di persone. Si fermano poco, dopo alcuni minuti se ne sono andati tutti.
È la mattina di martedì 9 marzo, sono i giorni delle emanazioni dei decreti del presidente del consiglio dei ministri in cui si annunciano le misure per contrastare l’espandersi dell’epidemia del virus Sars-Covid-19.
Il primo colloquio in cui ho sentito nominare il corona virus si è svolto nel mese di gennaio. Ho incontrato un titolare di permesso per Casi Speciali – regime transitorio (ex protezione umanitaria) prossimo alla scadenza. Come per le altre e gli altri titolari di tale tipologia di permesso, causa la non possibilità di rinnovo del titolo in seguito all’emanazione del primo decreto sicurezza, stavamo parlando in merito alla fattibilità di convertirlo in permesso per lavoro subordinato, procedura per la quale il possedere un contratto di assunzione regolare è mandatorio. La persona che avevo davanti mi diceva però che con l’inizio dell’anno aveva perso il lavoro. L’azienda per cui lavorava aveva licenziato numerosi dipendenti in quanto dalla Cina, a causa del lockdown imposto per contenere l’epidemia, non arrivavano alcune componenti fondamentali per la produzione.
Il “virus cinese” iniziava a insinuarsi tra le sclerotiche dinamiche dei permessi di soggiorno, in questo caso dell’annoso legame tra regolarità sul territorio e lavoro. Da lì a poche settimane, con il conclamarsi dell’emergenza epidemiologica, sarebbe avvenuta la sospensione di tutto ciò che riguarda l’iter legale di coloro la cui permanenza in Italia è legata a un permesso di soggiorno.
In seguito all’emanazione dei decreti legge numero 9/2020 e 18/2020, la validità di tutti i permessi di soggiorno con scadenza tra il 31 gennaio e il 15 aprile è stata prorogata fino al 15 giugno; fino al 15 aprile sono sospesi i termini per la conclusione dei procedimenti relativi ai permessi di soggiorno, quali rilascio dei titoli, rinnovi, e così via; è sospeso dal 9 marzo al 15 aprile il decorso dei termini per i procedimenti relativi ai ricorsi avverso gli esiti negativi delle richieste di protezione internazionale. Sono inoltre sospese le audizioni delle e dei richiedenti asilo presso le commissioni territoriali, sospese le udienze presso i tribunali ordinari fino al 15 aprile. Ottusamente, tra i procedimenti esclusi dalla sospensione dei termini troviamo i procedimenti di espulsione, trattenimento e allontanamento.
Il ritmo inesorabile delle scadenze e delle conversioni dei titoli, o del pagamento dei bollettini postali e delle marche da bollo, che segna la precarietà giuridica, materiale e esistenziale di coloro la cui regolarità sul territorio è legata al permesso di soggiorno, si interrompe. Per quel che riguarda i procedimenti di richiesta asilo ancora pendenti, tutto ciò non cambia lo stato di sospensione, anche questa giuridica, materiale e esistenziale, vissuto da chi attende l’esito della procedura da due, tre, e ancora più anni. La pandemia in corso accentua le perversioni di questo sistema, come scrivono su questo numero degli Asini Luigi Monti e Fausto Stocco. La Covid-19 deve portare a ripensare strutturalmente le politiche in materia di immigrazione e a istituire un permesso di soggiorno che permetta alla popolazione migrante di poter risiedere e lavorare regolarmente in Italia. Se per la tenuta di una comunità si sta dimostrando necessario l’accesso a un welfare universale e non gerarchizzato, lo stesso deve essere per il diritto di soggiorno che, oltre alla cura e al lavoro, è anche un diritto alla mobilità.
Processi di individualizzazione,
processi di astrazione
Fin dall’inizio dell’emergenza epidemiologica, parallelamente alle prime misure di chiusura e quarantena di determinati territori, abbiamo assistito alla richiesta da parte dell’autorità governativa e sanitaria di auto-isolamento preventivo nelle proprie abitazioni. La modalità di contenere il contagio, la causalità della sua diffusione, fino ad arrivare all’affaticamento del sistema sanitario e al numero delle vittime giornaliere, sono elementi che fin dall’inizio dell’emergenza sono stati ricondotti, nel discorso pubblico, alla responsabilità e al comportamento individuale, discorso che non ha tardato a dotarsi di strumenti attuativi. Con il Dpcm del 8 marzo 2020 si adottano le misure di contenimento del contagio, tra cui quella che prevede l’evitare ogni spostamento delle persone fisiche anche all’interno dello stesso comune solo per determinati motivi, misure poi estese, con il Dpcm emanato solo il giorno dopo, a tutto il territorio nazionale. All’articolo 4 del Dpcm si individua lo strumento sanzionatorio per chi non rispetta la misura, ovvero la denuncia per violazione dell’articolo 650 del codice penale disposto per chiunque non osserva un provvedimento dato dall’autorità. Tale misura verrà poi abrogata con il Dl 19/2020, in cui il reato diventa sanzione amministrativa, disposizione con effetto retroattivo sulle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del decreto.
L’attenzione sui comportamenti singoli e la responsabilizzazione degli individui è stata soverchiante, non lasciando spazio a uno sguardo che colga l’impatto della diffusione del virus a livello di popolazione e territorio e delle differenze in essi contenuti, sviando peraltro la responsabilità di quanto sta accadendo dal piano delle scelte politiche e amministrative, soprattutto rispetto al sistema sanitario. Al netto delle ragioni sanitarie delle disposizioni di distanziamento sociale, tale processo astrae la persona dal suo contesto sociale, fatto di reddito, status giuridico, conoscenza della lingua italiana, disponibilità abitativa, e così via. L’essere sanzionato dalle forze dell’ordine per esser fuori dal proprio domicilio (se posseduto) esponeva la o il migrante alla arbitrarietà delle questure nel considerare il procedimento penale instaurato, o l’eventuale condanna, come causa di rifiuto per l’emissione, il rinnovo o la conversione del permesso di soggiorno. La capacità di aggiornamento delle disposizioni di contenimento dell’emergenza epidemiologica e degli strumenti adottati, come ad esempio i moduli di autocertificazione, è subordinata a una capacità linguistica e accesso ai mezzi di informazione non sempre riscontrabile nella popolazione migrante. L’esigenza sanitaria di isolamento e distanziamento sociale, diversamente dal virus, non coglie tutti allo stesso modo.
Processi di concentrazione,
processi di contagio
I tagli dei finanziamenti al sistema di accoglienza riscontrabili nei capitolati emessi a partire dal decreto legge 113/2018, l’abolizione del progetto Sprar a favore del progetto Siproimi, caratterizzato da maglie di accesso ben più strette, sono processi che hanno portato sconvolgimenti strutturali nel sistema d’accoglienza. Allo stesso tempo, i tagli ai finanziamenti del sistema d’accoglienza riscontrabili nei bandi in netto ribasso emessi in seguito all’emanazione del decreto, hanno intensificato la tendenza degli enti gestori a praticare economie di scala e dunque la concentrazione degli e delle ospiti in macro-strutture, causando ridemensionamenti della forza lavoro e dei servizi. Un processo, questo, che con lo sviluppo della crisi epidemiologica ha mostrato tutti i suoi limiti per l’esposizione al contagio di chi è ospite delle strutture e di chi vi lavora, con il conseguente rischio di aumento dei contagi nella popolazione. Sono diverse le associazioni, i collettivi, le sigle sindacali che hanno denunciato come i macro-centri d’accoglienza di vecchia e nuova generazione risultino incompatibili con le misure di distanziamento sociale e isolamento dei malati richieste per contenere la crisi epidemiologica. E molte sono le denunce che riguardano la pesante inadeguatezza dei presidi sanitari in dotazione al personale dell’accoglienza, costretto a continuare a lavorare in forte esposizione di essere contagiato e di contagiare.
Certo, non è l’emergenza epidemiologica a mostrare i limiti di un sistema d’accoglienza basato sui grandi centri. Come per il sistema sanitario nazionale, ciò che stiamo vivendo ne esaspera e accelera criticità strutturali. L’attuale emergenza epidemiologica, nel suo incontro con il sistema d’accoglienza, va a rapportarsi con un sistema progettato e definito nel e dall’emergenza, in cui la concentrazione di importanti numeri di persone in grandi centri di accoglienza/detenzione (vedasi il sistema hotspot) soddisfaceva, e soddisfa, l’esigenza di controllo di flussi definiti e narrati come ingenti e la selezione/filtraggio degli accessi sul territorio europeo. Una struttura basata sui grandi numeri oggi incompatibile con la tutela della salute individuale e della popolazione messa a rischio dal diffondersi di una grave malattia infettiva.
Confini della cura, politiche di controllo
In linea con questa analisi che vede nel virus un intensificatore di processi già ben presenti e operanti nel tessuto amministrativo, legale e burocratico della nostra società si iscrive anche l’aspetto riguardante la cura, che le istituzioni a vario livello prevedono per la popolazione migrante e, nello specifico, per i rifugiati. Di fatto, con l’aggravarsi della situazione epidemiologica e la conseguente azione governativa portata avanti tramite decreti d’emergenza, è stato reso ancor più manifesto il carattere discriminatorio, se non razziale, dello strumento legislativo che ha guardato al corpo del migrante non come soggetto di cura ma come oggetto di controllo, contenimento e, in alcune occasioni, vera e propria richiesta di contenzione. Ancora una volta non stupisce come il trattamento legislativo emergenziale riservato alla popolazione migrante anticipi e mostri una tendenza che vede nel governo securitario una modalità di gestione diffusa, riservata all’intera popolazione avente diritto di cittadinanza. Può risultare a questo punto superato l’appello a rivendicare per la popolazione migrante gli stessi diritti riservati ai cittadini e alle cittadine se, in tempi di pandemia, anch’essi si trovano in uno stato di isolamento obbligato, contro cui niente sembra esser possibile se non una disarmata obbedienza. Ma se a questi ultimi rimane un pur residuo diritto alle cure, l’approccio avuto dalle istituzioni a livello locale sancisce in modo chiaro e senza alcun velo la priorità di gestione della mobilità dei rifugiati sui territori, volendoli letteralmente confinare nei luoghi di abitazione anche con strumenti punitivi al limite della legalità. Il contrasto con gli ultimi decreti in materia di misure di prevenzione dal contagio da Covid-19 diventa ancor più evidente quando questi luoghi non sono appartamenti, già sovraffollati rispetto alla norma, ma centri di medie e grandi dimensioni dove, come detto, sono costrette a convivere tra le 60 e le 200 persone. Ribadiamo che questa forma di accoglienza è stata fortemente voluta dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini che ha alacremente lavorato per smantellare il sistema d’accoglienza diffusa e integrata nei territori in favore di un ritorno ai grandi centri, a grandi numeri e alcuna tutela. E così diventa del tutto coerente privilegiare lo strumento del controllo e della punizione invece che della cura e della tutela, la contenzione forzata dei rifugiati invece che la prevenzione. In questo senso, le proteste scoppiate nelle carceri italiane sono state il primo, doloroso segnale d’allarme.
Geografie delle pandemie
Affrontare questa serie di problemi dalla prospettiva del welfare può forse aiutarci, nel momento in cui questo è messo sotto pressione nel suo aspetto sanitario, economico e abitativo. Come detto, pur nella momentanea sospensione della precarietà giuridica, la maggior vulnerabilità e ricattabilità legate all’ottenimento di un permesso di soggiorno persiste. Se pensiamo ai servizi essenziali, a partire dal lavoro di cura svolto nelle abitazioni o nelle case di riposo, al lavoro nel settore alimentare o nella logistica per l’approvvigionamento dei supermercati, una parte consistente dei lavoratori e delle lavoratrici è immigrata. Tra queste, molte sono le persone tuttora accolte nel sistema di accoglienza che non hanno raggiunto una stabilizzazione giuridica. Per tutte queste il ricatto tra cura e lavoro pende in favore di quest’ultimo, nella maggior parte dei casi non potendo beneficiare di alcun sussidio, avendo contratti a chiamata, occasionali, se non tirocini o, come nelle campagne, lavorando in nero. Oltre a ciò, come detto, c’è il limite di accesso alle informazioni necessarie per poter beneficiarie di questi sussidi, limite che gioca da filtro per l’accesso a un welfare che conferma di essere segmentato, differenziale e difficilmente accessibile. Lo stesso vale per il diritto alla salute, dove la lontananza delle strutture d’accoglienza dai centri cittadini, e la precarietà giuridica, resa ancora più pesante dagli ultimi decreti sicurezza, fanno da filtro, se non proprio da impedimento, all’accesso alle cure da parte della popolazione migrante e rifugiata.
Tra le persone di provenienza africana, tra cui alcune con cui lavoriamo quotidianamente, sono circolate voci che raccontano di un virus che non contagia gli africani, “quelli che hanno la pelle nera”, e che colpisce solo i bianchi. Quel che di queste voci colpisce profondamente è l’interpretazione che è stata data al virus non come rischio soggettivo ma quasi come alleato contro i vecchi e nuovi colonizzatori bianchi, europei, occidentali. Un’interpretazione che suona come una reazione, che lambisce le soglie del magico, ma che rimette in sesto gli assi della storia e ribalta, nella sua immaginazione utopistica, secoli di dominazione, incluso quello presente.
Rispetto a un’interpretazione della Covid-19 come evento eccezionale, una ragazza della Nigeria mi ha detto, con rabbia “cosa? L’ebola in Africa lo avete dimenticato?” Ciò che per noi europei, pacificati da lungo tempo, sembra essere una crisi epocale non lo è per lei, la cui voce sembra riscrivere una nuova geografia delle pandemie e, forse, afferma una capacità di resistenza a noi sconosciuta.