Metamaus: storia e fumetto
Il perché di Maus, Art Spiegelman, deve essere stato costretto a chiederselo più volte. Lo avrà probabilmente fatto nel corso del lavoro, lungo e doloroso processo di scavo interiore e incessante sperimentazione sulla forma, lo ha certamente dovuto fare dopo la pubblicazione dei primi capitoli, sotto la grandine delle domande di lettori, critici, storici e giornalisti che si trovavano di fronte a un oggetto così nuovo. “Perché l’Olocausto? Perché i topi? Perché il fumetto?”, le domande che risuonavano nella seconda parte di Maus sono diventate i capitoli che scandiscono Metamaus, che potremmo definire saggio, confessione e catalogo, oppure archivio, analisi e riflessione attorno a un libro che, toccando il fondo dell’orrore, non rinuncia ai doveri del pensiero.
Pubblicato tra il 1980 e il 1992, Maus ha toccato folle di lettori senza che, tuttavia, esistessero gli strumenti per decifrarne la portata. Strumenti che anzi, questo memoir a fumetti ha contribuito a creare, riorientando in maniera decisiva lo sviluppo del fumetto e della sua posizione culturale, ponendo le basi per una autonoma comprensione del disegno narrativo, interrogando incessantemente il confine instabile tra racconto e testimonianza. Spiegelman si confrontava con l’eredità della propria famiglia – quell’offesa incancellabile che non cessa di operare nei sopravvissuti e che viene trasmessa ai figli – quando raccontare la Shoah era ancora la messa alla prova della responsabilità di un autore, una pericolosa vertigine tra l’imperativo e il tabù, e non, come in seguito, un genere, quasi una moda.
All’origine ci sono i ricordi del padre dell’autore, Vladek, sopravvissuto ad Auschwitz, e la necessità da parte di Art, ebreo americano di seconda generazione, di fare i conti con se stesso, con il peso della Storia e con il suicidio della madre Anja, anch’essa sopravvissuta ai campi di sterminio. Le fondamenta dell’opera poggiano dunque su una distanza da colmare, per quanto possibile, su uno sforzo di comprensione e su un senso di colpa da sanare. Il rigore e la complessità sono i principi che governano una materia tanto intima e al contempo soverchiante nelle proporzioni, perché attraversata da un dolore che non può essere soltanto privato. In Maus, l’articolazione di ogni pagina, l’elaborazione di ogni ricordo, ogni brandello di Storia riportato pongono problemi che riguardano la rappresentazione e il rappresentabile, interrogano le facoltà espressive del fumetto, presuppongono scelte via via più vincolanti con l’aumentare della consapevolezza di quello che si sta trasformando in racconto. Spiegelman parte da se stesso, da quello che ha bisogno di trovare, ma non scrive e non disegna per se stesso. La complessità è dunque distillata nella ricerca della massima efficacia comunicativa, si irradia dall’intreccio inestricabile di commozione e pensiero che accompagna tutta la narrazione, cerca il lettore, vuole raggiungerlo, senza trucchi.
È questa stratificazione che rende Maus una scoperta a ogni rilettura e che giustifica un’operazione come Metamaus, dove l’autore, insieme alla studiosa Hilary Chute, apre i suoi archivi, analizza la genesi e la composizione delle tavole, riflette sul significato e sui limiti della memoria. Nelle trecento pagine e nel dvd allegato al volume ci sono la trascrizione dei ricordi di Vladek e la sua voce, centinaia di disegni, una selezione molto ampia di foto e documenti, testimonianze diverse e un’esuberanza di stimoli visivi che mostra anche quanto laborioso sia stato il processo che ha portato alla rigorosa sintesi finale. Nella lunga intervista attorno alla quale si sviluppa il libro, Spiegelman rende esplicito come la ricerca formale è in Maus, a ogni passo, la misura e la modalità di una ricerca di senso. A cominciare dalla decisione – presa fin dal 1972, quando viene pubblicato un primo breve racconto che leggiamo oggi come il prototipo del romanzo a venire – di rappresentare gli ebrei come topi, i tedeschi come gatti, i polacchi come maiali e così via. Superficialmente potrebbe sembrare una semplificazione, è invece attraverso questa metafora visiva, tutta interna alla tradizione del fumetto, che Spiegelman ha aperto una nuova strada al realismo disegnato, perché nessuna rappresentazione mimetica avrebbe mai potuto raggiungere quell’effetto di umanità. Ed è nell’ambito aperto da questa stessa metafora che ha potuto portare alle sue estreme conseguenze il suo discorso sui ruoli e l’identità, che dalla disumanizzazione organizzata dei lager raggiunge il presente l’operazione di decostruzione/ricostruzione che l’autore compie su se stesso: “Maus è il libro che mi ha creato”, scrive nella nota introduttiva. In questo senso, il fumetto, fondato sulla compresenza di passato e presente, arte diacronica e sincronica insieme, era la forma perfetta perché Art Spiegelman potesse trovare quello che cercava. Così come il romanzo offriva la misura indispensabile per contenere un percorso al quale Metamaus aggiunge un ulteriore livello di evidenza.
Questa elaborazione virtualmente interminabile del passato – e l’egualmente incessante messa in discussione di noi stessi che ne deriva – sono forse la principale ragione per cui Maus continua e deve continuare a essere letto. In campo non c’è solo la volontà di preservare la memoria dell’orrore subito, ma la constatazione della sua persistenza sommersa e la necessità di portarlo in superficie per non esserne corrosi.