Memorie di un rivoluzionario irregolare
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Andrea Caffi è uno degli intellettuali europei più affascinanti quanto sconosciuti del Novecento, uomo di pensiero e di azione, infaticabile intessitore di reti e relazioni rivoluzionarie, paragonabile, seppur con un carattere più schivo, a Victor Serge. Figlio di immigrati italiani in Russia, a sedici anni fu tra gli organizzatori del primo sindacato dei tipografi di Pietroburgo. Socialista libertario, radicale e pacifista, ha subito le carceri zariste (per aver partecipato, a 18 anni, alle cospirazioni rivoluzionarie del 1905), bolsceviche (arrestato per le sue posizioni libertarie dalla Čeka, la polizia politica creata da Lenin) e naziste (arrestato e torturato dalla Gestapo per la sua attività nella resistenza europea). Allievo di Georg Simmel, conobbe Kropotkin (che considerava “lo spirito più puro del movimento rivoluzionario russo”), era appassionato di arte e capace di leggere e scrivere in italiano, francese, inglese, tedesco e russo, si ritrovò esule antifascista in Francia, dove dapprima si legò al movimento di “Giustizia e Libertà” e poi se ne allontanò, insieme a Nicola Chiaromonte, in polemica con Rosselli. Fu amico di Camus e per suo tramite divenne, insieme allo stesso Chiaromonte, Paul Goodman, Hannah Arendt, Mary McCarthy e a diversi altri intellettuali esuli o dissidenti della sinistra americana uno dei collaboratori di politics, la rivista diretta da Dwight Mcdonald.
Chiaromonte, che si considerava suo allievo oltre che intimo amico, pubblicò nel 1966 una raccolta di suoi testi, tra i più limpidi e appassionati del pacifismo europeo a cavallo della Seconda guerra mondiale, con il titolo Critica della violenza. È possibile leggere molti suoi scritti dall’emeroteca digitale della benemerita Biblioteca Gino Bianco.
Alberto Castelli, che in Italia è uno dei suoi principali studiosi e divulgatori, poco più di un anno fa ha curato e introdotto un suo scritto inedito, La dottrina fascista, o il fascismo nella storia superiore del pensiero, edito da Biblion di cui ha selezionato e introdotto per la nostra rivista alcune pagine. (Gli asini)
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È difficile trovare un autore tanto acuto e tanto misconosciuto quanto Andrea Caffi (San Pietroburgo 1887 – Parigi 1955). Le ragioni della sua sfortuna sono certamente da ricercarsi nel suo carattere mite e refrattario a tutte le manifestazioni della vanità intellettuale; ma anche e soprattutto nella sua ostinata eterodossia, nel suo differenziarsi da tutte le “scuole” e da tutti partiti costituiti. Caffi è stato socialista avversario dei bolscevichi nella Russia rivoluzionaria; soldato volontario «disposto a morire non ad uccidere» nella Prima Guerra Mondiale (come scrive il suo amico Antonio Banfi); collaboratore del movimento antifascista Giustizia e Libertà in disaccordo con la linea politica di Carlo Rosselli nella Parigi degli anni ’30; nemico dei totalitarismi nazista e comunista, ma anche critico radicale dei regimi liberali. Non può sorprendere che un uomo con una simile complessa e coraggiosa personalità sia stato apprezzato solo dai pochi in grado di seguirlo, sia quando era in vita sia successivamente.
Non che la figura di Caffi e il suo pensiero siano stati del tutto dimenticati: per citare solo qualche esempio, il suo grande amico e allievo Nicola Chiaromonte ne ha pubblicato a più riprese gli scritti più tardi (Critica della violenza 1966); nel 1970 Gino Bianco ha pubblicato i suoi Scritti politici e, nel 1977, ha scritto un primo saggio biografico su di lui (Un socialista “irregolare”); nel 1993 si è tenuto a Bologna un importante convegno, i cui atti sono raccolti in Andrea Caffi un socialista libertario a cura di Gianpiero Landi (1996).
Negli ultimi vent’anni, c’è stata un’ulteriore “riscoperta” di Caffi, grazie sia alla ripubblicazione di alcuni suoi saggi (per esempio in politics e il nuovo socialismo e in Cosa sperare? entrambi del 2012); sia agli studi di Marco Bresciani che ne ha scritto una biografia ben documentata (La rivoluzione perduta, 2009). Oggi quest’opera di “riscoperta” compie un ulteriore passo in avanti con la pubblicazione di La dottrina fascista. Ovvero il fascismo nella storia superiore del pensiero: un manoscritto inedito, redatto da Caffi a Parigi nel 1932, che avrebbe dovuto contribuire a contrastare la propaganda fascista in Europa.
L’occasione che spinge Caffi a scrivere queste pagine è la richiesta fattagli da Gaetano Salvemini di collaborare ai suoi studi sul fascismo. Salvemini, per la verità, aveva commissionato a Caffi un contributo sulla condizione delle minoranze nazionali sotto Mussolini, ma si vede consegnare un lungo saggio sulla dottrina del fascismo. Si trova traccia di questa vicenda in una lettera di Salvemini a Giorgio La Piana, del 27 luglio 1932, in cui si legge: «Figurati che Caffi dopo avermi portato 300 – diconsi 300 cartelle sulla dottrina del fascismo – mi avvisò che il diluvio non era finito; mi avrebbe presto portato il resto; ma finora non ha più dato segni di vita» (G. Salvemini, Lettere americane 1927-1949, a cura di R. Camurri, presentazione di P. Marzotto, Roma, Donzelli, 2015, p. 73). Il lavoro di Caffi sulla dottrina del fascismo non è poi utilizzato da Salvemini e il manoscritto sarà depositato nelle carte di Angelo Tasca, rimanendo nell’archivio della Fondazione Feltrinelli fino a oggi.
Si tratta di un testo ironico (fin dal titolo) ma anche profondo, che ha nel regime di Mussolini il suo chiarissimo obiettivo polemico, ma che non concede niente a facili parole d’ordine e non rinuncia allo sguardo analitico che permette di comprendere a fondo gli avvenimenti. In estrema sintesi, Caffi riconduce la «dominazione di barbari» che si è instaurata in Italia nel 1922 a tre fattori. Il primo è la crisi morale e sociale causata dalla guerra: il fascismo nasce «non da recondite profondità ma dal tumulto di confuse aspirazioni che [agitano] le schiere, dalle quali Mussolini [vuole] farsi obbedire». Si tratta di «schiere» abituate alla violenza, all’obbedienza cieca in fabbrica e sotto le armi, alla demagogia più volgare, e alla fede nella possibilità di risolvere problemi complessi con azioni improvvise e definitive. Il secondo fattore è la disillusione causata da due grandi tradimenti: quello delle élites liberali e democratiche, che hanno spesso finito per usare i loro ideali per mascherare le loro mire di dominio oligarchico; e quello dei capi bolscevichi che, lungi dal rompere le catene dell’oppressione, hanno insegnato ai popoli ad abbandonare ogni speranza di un assetto sociale equo. Il terzo fattore, infine, è rappresentato dalle condizioni generali di vita nelle società industrializzate di massa, che produce effetti distruttivi sulle relazioni sociali e su tutto ciò che rende umana la vita degli individui. L’esito di questi fattori è la dittatura: la completa irreggimentazione della società, l’estensione del militarismo a tutti i rami dell’amministrazione e dell’organizzazione sociale, la soppressione spregiudicata delle più elementari libertà. Tutto questo non viene solo imposto con la forza, ma anche preparato e difeso (per esempio da intellettuali come Alfredo Rocco o Giovanni Gentile) con argomenti in apparenza coerenti ma che, per Caffi, nascondono una profonda miseria culturale e malafede. (Alberto Castelli)
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La guerra del 1915-1918 ha posto dinanzi alle coscienze con chiarezza così inesorabile il dilemma fra stato d’autorità e stato di libertà, fra l’ideale guerriero che preconizza la perenne rivalità di imperialismi insaziabili, e l’ideale d’un assetto per sempre pacifico dell’umanità, che più non possono reggersi conciliazioni, temperamenti, confusioni delle due tendenze. Prima della grande guerra l’aggressivo patriottismo trovava modo di combinarsi con esplicite dichiarazioni di riverenza per i supremi interessi della civiltà e persino per il progresso della libertà e della democrazia. Adesso, quando nessun velo può più nascondere le conseguenze inevitabili d’ogni ricorso alle armi e l’essenza d’ogni militarismo, non è più permesso di evitare la scelta fra pacifismo e bellicismo, ed è necessario accettare dell’uno o dell’altro le estreme conseguenze. Un solo ceto mostra di non avere capito o di mancare a tal punto di probità da non osar contemplare l’imperiosa urgenza del dilemma: intendiamo la maggior parte di quel personale dirigente nei diversi stati d’Europa e d’America che già porta la responsabilità della guerra e del modo in cui fu combattuta. Ma mentre venti anni fa l’opportunismo di questi uomini di governo, che equivocavano sulla guerra e la pace, sull’espansione imperialista e la difesa di sacri diritti ‒ era più o meno in consonanza con una certa linea media della pubblica opinione; oggi gli espedienti e i sotterfugi a cui essi ricorrono appaiono idioti o nefandi anche all’uomo della strada. Intanto la selezione, operata sia dalla strage in cui è perita la parte migliore d’una generazione, sia dalle perturbazioni morali e dall’avvilimento dei valori intellettuali che la stessa guerra determinò, ha avuto per conseguenza che soltanto una minoranza si è con tutto l’animo (e con i necessari requisiti d’intelligenza) convertita al programma di pace, la realizzazione del quale è infinitamente più ardua, più complessa, meno “gloriosa” di quel che possa essere l’inerte perseverare nelle tradizioni militariste. Senonché, come abbiamo detto, l’idea tranquillante di poter semplicemente continuare il gioco che sempre s’è fatto è sorpassata pur nel senso che oggi chi accetta la prospettiva di nuove guerre, lo deve fare non con rassegnazione ma con fanatico entusiasmo e subordinare ogni altro vitale interesse alla preparazione di eroiche stragi. Tale è infatti il positivo insegnamento della grande guerra, accolto e predicato da un nuovo tipo di venturieri, acclamato da numerose schiere, nelle quali la povertà delle facoltà mentali è compensata da una balda predisposizione all’azione diretta.
Il fatto che i fascisti non esitano a sviluppare ‒ nelle loro teoriche affermazioni e nella loro opera di governo le conseguenze estreme del militarismo, conferisce loro una indubbia superiorità (in fatto di coerenza logica ed anche in fatto di ascendente morale) sugli involuti, tentennanti, ipocriti programmi con i quali cercano di mantenersi a galla i governi detti liberali o democratici. Questi per giunta, facendo uso abbondante di formole pacifiste ed umanitarie ‒ con l’inveterata convinzione che simili ossequi alla virtù non impegnano a nulla ‒ compromettono l’azione dei sinceri artigiani della pace e della solidarietà umana, i quali per la forzata somiglianza dei concetti da essi profferiti con quelli che adornano le logomachie ufficiali, possono facilmente essere sospettati della medesima malafede o ipocrisia.
L’impulso dato dalla guerra costituisce pressoché tutta la riserva di energie che si manifesta nel dinamismo fascista. L’esaltazione degli istinti guerrieri, dell’imminente battaglia delle nazioni che è l’unica giustificazione del militarismo integrale, è la vera “dottrina” con cui si mantiene desto lo spirito fascista. Ogni tentativo di surrogarvi una politica ed una ideologia che avessero per premessa la conservazione della pace, segnerebbe l’irrimediabile decadenza del fascismo.
Fra i fascisti del 1919-1921 non sembra che alcuno avesse il sospetto di doversi mai preoccupare di problemi teologici; della religione cristiana e cattolica si ricordavano soltanto per chiedere la svaticanizzazione dell’Italia e per ripetere le invettive del più sguaiato anticlericalismo.
Invece i nazionalisti sapevano da tempo che al popolo occorre conservare la religione affinché l’autorità spirituale possa santificare e rafforzare l’oppressione del braccio secolare.
«Noi nazionalisti siamo tutti persuasi che una fede politica implichi una fede religiosa. Noi possiamo, in nome della nostra fede religiosa, affermare la necessità della diseguaglianza nella società». E questa fede religiosa «non può ridursi al riconoscimento di un mistero o di una volontà trascendente» come sembra pensare Corradini, il quale si direbbe un cattolico che creda così poco nel suo cattolicesimo da accettare virilmente una strana e cattiva legge incomprensibile. Non si può pretendere che gli uomini accettino con tranquilla rassegnazione una legge di diseguaglianza, imposta alla vita sociale da una volontà avvolta in un inaccessibile mistero. Perciò la divinità che sola può giustificare la fede nazionalista, non è la volontà misteriosa di Corradini, ma «la divinità dell’idealismo del Croce e del Gentile» (B. Giuliano, Il Fascismo e l’avvenire della coltura, pp. 198-199).
Divenuto capo del governo con il programma di reazione chiamato ufficialmente rivoluzionario, Mussolini adottò il punto di vista dei nazionalisti; ma senza troppo capirne i necessari sviluppi (che conducevano all’intesa con il Vaticano) e sulle prime lasciò fare il suo ministro della Pubblica Istruzione.
Giovanni Gentile colla sua maschia e originale filosofia aveva dato una soluzione inaspettata al problema delle relazioni fra Stato e Chiesa. Nei suoi celebri Discorsi di religione con nitore e profondità aveva dimostrato la religiosità e l’eticità dello Stato e posto con risolutezza la soluzione del problema fra Stato e Chiesa sostenendo questo audacissimo concetto che: lo Stato deve guardare alla Chiesa come a propria alleata, non per ciò che essa ha di particolare come una chiesa tra le altre; ma per ciò in cui tutte le chiese s’accordano e procedono di conserva nella persecuzione di un comune ideale (G. Saitta, Religione e Fascismo, in La civiltà fascista, p. 161).
In che cosa s’accordano tutte le chiese sarebbe arduo ricercare se si trattasse della fede religiosa; ma evidentemente il ministro di Mussolini non considerava che il servizio politico quale ogni Chiesa può rendere allo stato, purché il “comune ideale” sia la rassegnazione del suddito, l’obbedienza sua ai superiori, l’orrore per il peccato di ribellione…
Questo modo (che potrebbe dirsi cinico) di utilizzare la religione figurava pure nella pedagogia gentiliana secondo i suoi programmi; agli alunni delle scuole medie bisognerà «far sentire l’altissima idealità e la poesia umana della religione ed anche la sua efficacia politica» (U. Renda, Scuola e Fascismo, in La civiltà fascista, p. 487).
Per chi non conosce le illimitate risorse del pensiero gentiliano potrà parere strano come vi riuscissero a conciliarsi una qualche riverenza per il cristianesimo con l’evidente ammirazione per la morale spietata dei dominatori.
«L’uomo moderno nasce quasi con un istintivo programma: aut Caesar aut nihil. Servire o morire, vivere è dominare, affermare sé stesso e poiché egli ha natura sconfinata non s’arretra o arresta dinanzi ad impedimento di sorta. Tutto fa suo, con l’intelletto e con le mani; con l’amore e con la forza, con le leggi e con la guerra» (Che cos’è il Fascismo, p. 76).
Il che logicamente si completa con le seguenti massime morali:
Pity, gentleness, charity, must not merely not be practised, they must be branded as crimes against the social order; the practical lessons in brutality which will form the main part of military training must be reinforced by preaching, teaching, and example at every stage of life; and for the cult of humanity which has increasingly prevailed in democratic societies we must substitute the Nietzschean formula be hard (G. Lowes Dickinson, The Choice before us, p. 14).
Questa era la ragionata “etica” dei nazionalisti; ed era pure l’istintiva morale di quelle «canaglie a cui la storia avvenire costruisce dei monumenti» secondo il signor Pellizzi che si compiace di averle avute per compagni nelle prime squadre fasciste. Era ‒ nel campo degli accomodamenti con la religione ‒ uno dei diffusi stati d’animo che rendevano vani i furbi raggiri d’invenzione hegeliana.
Andrea Caffi, La dottrina fascista. Ovvero il fascismo nella storia superiore del pensiero,
a cura di Alberto Castelli, Milano, Biblion, 2022, pp. 69-72.