Memoria e giustizia. Su un libro necessario
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Nei giorni in cui si fa di nuovo memoria degli orrori che da ottant’anni noi europei ci portiamo addosso senza riuscire ad affrontarli davvero – in parte per la loro natura abnorme, in parte per un cattivo spirito di conservazione che spinge all’oblio, in parte per una carenza dei mezzi stessi culturali con cui comprenderli e giudicarli –, mi capita di leggere il libro di Linda Kinstler, giovane giornalista e scrittrice lettone di origine ebraica, che ha ai miei occhi il grande merito di guidare il lettore entro i meandri storici e giudiziari del genocidio ebraico sulla scia del proprio lento, contrastato, sofferto procedere nella ricostruzione di una vicenda specifica che riguardava anche la sua famiglia.
Ne è venuto il racconto di una indagine complicata condotta inizialmente a titolo personale, ma che presto si allarga a molti altri, a loro volta impegnati a vario titolo nella ricerca dell’accertamento dei fatti che condussero al massacro della comunità ebraica lettone e delle colpe di cui si erano macchiati i componenti di un gruppo di collaborazionisti. Dunque, un racconto con molte voci: sopravvissuti, avvocati, giudici, poliziotti, giornalisti, scrittori, archivisti, parenti delle vittime e dei carnefici, tutti intenti ad affondare lo sguardo negli abissi del passato a vario titolo e proposito. Ma senza che venga mai meno la determinazione dell’autrice a comprendere la natura di fatti che ad ogni passo aprono «sull’immensità dell’ignoto», annunciato già nel titolo del libro che in inglese suona drammaticamente: Come to this court and cry , mutato in italiano in un più discorsivo: Il contrario dell’oblio. L’olocausto tra memoria e giustizia (Einaudi 2023).
La storia da cui muove l’indagine si svolge dunque in Lettonia, in particolare a Riga, tra il 1940 e il 1945, gli anni in cui il paese passò dall’occupazione dell’Unione Sovietica a quella della Germania per tornare infine sotto il dominio sovietico alla fine della guerra. Vi si susseguirono uccisioni e deportazioni della popolazione ebraica in Siberia, compresi parenti dell’autrice; poi lo sterminio nazista, organizzato con la complicità di buona parte della popolazione lettone e l’attiva partecipazione in veste di esecutori agli ordini delle SS dei membri di un Commando speciale, in cui erano confluiti membri di quella che era stata una confraternita studentesca, nata alla fine dell’Ottocento con intenti marcatamente nazionalisti e antiebraici. È nelle sue file che troviamo i protagonisti di una vicenda che è ancora un episodio di collaborazionismo, grazie al quale il nazismo poté condurre a termine l’intento genocida nell’Europa occupata.
C’è Viktors Arājs, promotore e capo del Comando; c’è Herberts Cukurs, aviatore di fama internazionale negli anni trenta, una sorta di eroe nazionale, passato prima al servizio dell’occupante russo, poi di quello tedesco. Infine, in un cono d’ombra quasi impenetrabile, Boris Kinstler, nonno della scrittrice, già membro della confraternita dal 1938, misteriosamente sparito al termine della guerra. Ad accomunarli è l’accusa di partecipazione alle azioni di rastrellamento e sterminio della popolazione ebraica, puntualmente documentate nel primo caso, discusse nel secondo, impossibile da documentare nel terzo, che fu forse un infiltrato nel Commando dai servizi segreti russi.
Ma qui siamo già condotti in un’altra storia, quella della ricostruzione dei fatti e dell’accertamento giudiziario delle responsabilità nel dopoguerra e ancora fino ad anni recenti; fatti di cui la giovane scrittrice tenta ostinatamente di venire a capo, consapevole che ci sono «eredità a cui non ci si può sottrarre». Emblematica è al riguardo la vicenda postbellica dell’aviatore, che raddoppia come in uno specchio oscuro quella di addetto alla pulizia etnica. Cukurs, a differenza di Arājs – che fu tardivamente processato e condannato seppure «soltanto» per circa un terzo dei 36.000 omicidi accertati a suo carico – fuggito per tempo in Sudamerica fu ricercato da agenti dei servizi segreti israeliani, ritracciato e assassinato.
Una sorta di replica del caso Eichmann, ma per Cukurs, osserva Kinstler, «la vendetta arrivò a scapito della giustizia» con l’effetto di oscurarne i crimini e di «ridargli vita», generando una lunga scia di cospirazione e revisionismo. Quando nel 2016 Kinstler iniziò a occuparsene, il caso giuridicamente era ancora aperto e la stampa lettone si era data da fare per riabilitare l’antico eroe, con il sostegno di una mostra documentaria, di film, persino di un musical a lui dedicati, e l’approvazione della maggioranza dei cittadini lettoni; a cui fece seguito il proscioglimento post mortem da parte della pretura di Riga per carenza di prove decisive. Quanto al nonno, qualunque cosa abbia fatto, resta la foto in cui è ritratto in un’impeccabile divisa nazista.
Il libro si legge come una storia avvincente dalla prima all’ultima pagina, ma la sua eccellenza sta nella capacità di tenerne insieme i fili intricati e di dipanarne quanti più possibile, in modo da disporre i fatti in una costellazione leggibile come un tutto carico di significato per il lettore che voglia comprendere la natura stessa di quei fatti, piuttosto che arrestarsi alla loro lacunosa o controversa ricostruzione storica o giudiziaria. Ma soprattutto, è grazie a questa volontà di comprendere che qualcosa di decisivo si è rivelato a Kinstler perseguendo la verità di una vicenda marginale nel grande orrore del Novecento. Ha capito quanto di equivoco c’è nell’appello onnipresente a non dimenticare, perché «la memoria si è dimostrata uno strumento rozzo e non sufficientemente ampio. La memoria può intrappolare i suoi seguaci in un circolo vizioso. Scatena a sua volta una logica omicida». D’altra parte la storia di Kukurs e dei lunghi strascichi del suo assassinio le parla di una giustizia incompiuta, così come il tribunale di Norimberga che, da parte sua, «partorì una parvenza di giustizia che non fu sufficiente a vendicare tutte le persone scomparse, né a ricostruire il continente europeo, né a ristabilire le leggi». Il fatto è che i giudici non riescono a far tornare i conti «provando, in base a determinate regole, che x ha fatto y ». E «i discendenti degli storici che hanno dedicato la vita a preservare le logore verità dell’Olocausto, vedono i fatti della storia scivolargli via da sotto i piedi, trascinati dalla spumeggiante marea del revisionismo, dell’ultranazionalismo e del negazionismo».
E dunque? La risposta dell’autrice la trovo implicita nella frase di Simone Weil posta in esergo all’ultimo capitolo; è tratta dal suo commento all’Iliade in cui si dice del potere annichilente della forza. Ora, è un fatto che da un secolo la nostra cultura si nutre della fede nella forza, che ha ispirato e seguita a ispirare sopraffazione e vendetta, spinte fino al limite estremo del genocidio, che di suo, ci ricorda Linda Kinstler, ha la proprietà di «non essere un fatto perché consiste nella distruzione stessa del fatto, della nozione di fatto, della realtà del fatto. Il genocidio non è solo l’assassinio di un popolo o di una nazione. Il genocida distrugge la prova dei suoi crimini mentre li commette. Confuta le parole, mette a tacere i testimoni».
Di qui l’intuizione che l’opposto dell’oblio non sia la memoria, bensì la giustizia o, meglio, il grido di giustizia levato davanti alla legge oltre le sue impotenze, e contro la volontà di vendetta che genera altro male. Una grande lezione; credo l’unica che, se fosse accolta, potrebbe cominciare a guarirci da un male che ci infesta e rende debole, incoerente ogni nostro tentativo di trovare pace e di mostrarci credibili al resto del mondo, che oramai sembra tutto propenso a rotolare per una china che noi abbiamo già disastrosamente disceso, al punto che neppure la catastrofe israelo-palestinese a parti invertite appare in grado di arrestare la deriva.