“Mank”e il fantasma di Orson Welles
Ammettiamolo: un fantasma si aggira ancora per Hollywood, meno rivoluzionario di quello che percorreva l’Europa ottocentesca ma altrettanto irriducibile. È il fantasma di Orson Welles, il cui spirito iconoclasta e la cui voglia di rompere gli schemi dell’industria cinematografica evidentemente fanno ancora paura se anche David Fincher ha accettato di entrare nella schiera di chi cerca di mettere in discussione il suo lascito e le sue idee. E il fatto è ancora più curioso perché a produrre il Mank di Fincher è quella stessa Netflix che ha investito un bel po’ di milioni di dollari nel ricostruire The Other Side of the Wind, il film che Welles aveva lasciato incompiuto e che per molti rappresenta una specie di pamphlet-testamento. Mentre invece Mank (sempre Netflix: diventata cerchiobottista) cerca in tutti i modi di sminuire, se non addirittura di distruggere, lo statuto d’autore di Welles, attaccandolo proprio sulla realizzazione del suo film più celebre e osannato, Citizen Kane, in italiano Quarto potere. Tanto per parlare chiaro e correre il rischio di sverlare “come va a finire”, il senso dell’operazione di Fincher sembra quello di dire che il merito del film più celebre e osannato di tutta la storia del cinema non è del regista ma del suo (co)sceneggiatore, privilegiando la scrittura alla messa in scena. Il che, da parte di un regista ormai ampiamente consacrato come autore (Fight Club, Zodiac, Il curioso caso di Benjamin Button, The Social Network), è doppiamente curioso…
Il film inizia nel 1940 quando, bloccato dall’ingessatura a una gamba, Mank – così si faceva chiamare da tutti Herbert J. Mankiewicz, fratello del regista Joseph L., interpretato da un camaleontico Gary Oldman – viene “recluso” in una villetta lontano da Hollywood perché si concentri sulla sceneggiatura che gli ha commissionato Orson Welles, da poco sbarcato nel mondo del cinema. A controllarlo, una segretaria, una fisioterapista e, ogni tanto, John Houseman, socio di Welles nel Mercury Theatre e con lui arrivato alla Rko. A vivificare quella che sarebbe stata una storia non particolarmente spettacolare (il massimo della suspense è Mank che cerca di procurarsi l’amato whiskey) ci sono tutta una serie di flashback che raccontano il suo rapporto con il mondo del cinema e la sua amicizia col magnate della stampa William Randolph Hearst (l’uomo che tutti videro dietro il personaggio di Charles Foster Kane, protagonista di Quarto potere) e la sua amante, l’attrice Marion Davies.
Commediografo, apprezzato membro della Algonquin Round Table (Dorothy Parker la più famosa del gruppo), Mank aveva lasciato New York per Los Angeles a metà degli anni venti e il suo spirito caustico e irriverente lo aveva imposto come uno degli sceneggiatori più ricercati, a volte anche produttore (per esempio per i fratelli Marx). Nel film lo vediamo ubriacarsi, giocare, scusarsi per le sbronze con la moglie Sarah ma anche conquistare con il suo cinismo autolesionista l’amicizia di Hearst e il rispetto professionale di Louis B. Mayer, il boss della Mgm. E perché non si pensi che fosse solo un battutista superficiale, ecco che viene rievocata la simpatia che dimostrò a Upton Sinclair, lo scrittore radical che nel 1934 contese al conservatore Frank Merriam il governo della California e le cui idee spaventarono talmente l’establishment hollywoodiano da spingere Mayer a produrre falsi cinegiornali per screditare il candidato “comunista”.
Così, flashback dopo flashback, dettatura dopo dettatura (perché la rievocazione del passato inframmezza le scene in cui procede la scrittura della sceneggiatura) ecco che il film rivela il suo vero obiettivo, che non è quello di raccontare la vita di uno dei protagonisti della Hollywood classica ma dimostrare che le idee per lo script che Herman Mankiewicz sta scrivendo venivano tutte dalla sua vita. Il che potrebbe essere ancora di scarsissimo interesse se il film che uscì da quel lavoro non fosse stato Quarto potere, per molti il più bello di tutta la storia del cinema, quello su cui Welles costruì il suo mito, minimizzando però i contributi dei suoi collaboratori, Mank in testa.
Un’ipotesi che la regia di Fincher vuole ribadire fino all’ostentazione, non solo costruendo il suo film come era quello di Welles, con tanti flashback che approfondiscono o spiegano certe situazioni, ma addirittura citando esplicitamente il film. Come nella scena in cui una bottiglietta di whiskey, che in realtà conteneva Seconal (uno stratagemma di Welles per evitare le sbronze del suo collaboratore) scivola giù dalla mano di Mank, esattamente speculare a quella della palla di neve che scivola dalla mano di Kane morente, mentre nella porta in controluce si staglia la figura della segretaria che si affaccia alla camera, così come in Quarto potere si vede l’infermiere che apre la porta per entrare nella stanza.
E questo gioco di specchi e di rimandi prende ancora più senso per chi sa che nel 1971 la temibile critica del “New Yorker” Pauline Kael scrisse un saggio (Raising Kane) in cui attribuiva tutto il merito del film solo alla sceneggiatura di Mankiewicz. Per lei Citizen Kane era l’ultima commedia degli anni trenta, l’epilogo di un lungo elenco di film dove l’intelligenza della scrittura vinceva sull’invenzione della messa in scena, secondo una tesi che però fu presto smentita non solo dal lavoro sui testi (la sceneggiatura di Mankiewicz, intitolata American, non proponeva alcuna lettura politica del protagonista, cosa che invece il film di Welles fa fin dalle primissime scene, e costruiva il ritratto di un personaggio sostanzialmente malvagio, capace di restare a galla di fronte a una serie di scandali giornalistici, invece che quello di un capitalista travolto dalla sua avidità, come si vede nel film) ma soprattutto dal lavoro di messa in scena che rivoluzionò nel profondo lo stile di Hollywood (profondità di campo, evidenza dei soffitti, distruzione del punto di fuoco centrale dell’immagine, nuovi criteri di illuminazione. E si potrebbe proseguire).
E così si torna alla domanda sottintesa a tutto il film: come mai un regista che si è conquistato da anni uno statuto d’autore dirige un film il cui unico scopo sembra quello di distruggere proprio la nozione d’autore cinematografico, attribuendo tutti i meriti del film allo sceneggiatore e non al regista? Perché al di là del fatto che la sceneggiatura di questo Mank fosse stata scritta dal padre di Fincher e lasciata in un cassetto per vent’anni, tutto il film sembra trovare la sua ragion d’essere nella (tardiva) difesa di un saggio di cui sono stati già dimostrati i tanti limiti storiografici e nella messa in discussione di un film che invece resiste da ottant’anni a ogni tipo di esame? Domande a cui è impossibile trovare una risposta logica se non la superficialità di chi oggi si crede un “autore”, visto che nemmeno l’elegante bianco e nero che Erik Messerschmidt ha usato per Mank può rivaleggiare con la “profondità di campo” che Welles chiese a Gregg Toland per Quarto potere. La cui visione sarebbe il prologo ideale per ridimensionare meglio le ambizioni (e le provocazioni) di Fincher.
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