Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti
  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti

Male vite tra macerie e frontiere

31 Marzo 2021
Gianfranco Bettin


Pubblichiamo la prefazione di Gianfranco Bettin a Le male vite. Storie di contrabbando e di multinazionali di Alessandro Leogrande, in uscita per Feltrinelli (collana UE), per gentile concessione dell’editore.

“I libri di Alessandro sono qualcosa di più che delle inchieste, sono buona letteratura,” ha scritto Goffredo Fofi introducendo il volume che Leogrande ha dedicato a Taranto, la sua città: Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale (Feltrinelli, 2018).

Scrivere bene, scegliere le parole esatte, architettare con mano elegante e sicura la struttura del libro, saperlo recare al lettore, suscitandone l’attenzione e l’emozione, erano per Alessandro un modo di portare rispetto alla materia che stava trattando. Qualunque fosse il legame che aveva con essa, naturalmente stringente in questo libro introdotto da Fofi in cui storia, indagine sul campo e autobiografia si intrecciano.

Nel suo libro più noto, forse anche il suo più bello, La frontiera (Feltrinelli, 2015), l’autore si misura con le storie dei migranti, oggetto e soggetto principali del libro. Ma è la stessa figura centrale della frontiera, luogo e metafora insieme, a produrre ugualmente quel profondo coinvolgimento che ispira la tensione narrativa, lo scavo nei percorsi e nelle vite incontrate insieme alla ricerca delle costanti socioeconomiche e geopolitiche che muovono e spiegano sommovimenti e destini.

Leogrande sceglie il racconto del reale come strumento per descrivere e interpretare il nostro paese, nel contesto mediterraneo in particolare (ma come luogo in cui convergono dorsali continentali). A questo racconto dedica un lavoro senza risparmio, esigente, rigoroso, che fonde dati strutturali, statistiche, demografia ed economia, referti dell’intelligence e scrutinio della legislazione, elementi di colore umano e sociale e perlustrazioni degli strati profondi delle mentalità e delle consuetudini, l’ascolto delle voci, di quello che dicono al momento e di ciò che contengono, che echeggiano da esperienze più remote. È questo che fa dei suoi libri “buona letteratura” oltre che preziosi, necessari documenti per saperne di più su fenomeni cruciali della nostra epoca.

Le male vite è uno di questi libri. Leogrande lo pubblica per la prima volta nel 2003, con l’editore l’ancora del mediterraneo (Fandango lo ripubblicherà arricchito e aggiornato nel 2010). Non è al suo esordio (avvenuto già nel 2000, per lo stesso editore, con Un mare nascosto, un’indagine su Taranto), ma ha solo poco più di venticinque anni. Si è trasferito a Roma, pur senza perdere il legame con Taranto. Lavora già, da tempo, a reportage radiofonici (le sue cronache per Rai Radio 3 dal G8 di Genova del 2001 sono straordinarie, in parte riversate poi nel libro Nel paese dei viceré. L’Italia tra pace e guerra, l’ancora del mediterraneo, 2006), scrive saggi brevi e articoli, è attivo in rete, è redattore fra i più impegnati di riviste come “Lo Straniero”, di cui è vicedirettore (molti testi, di estrema lucidità, sono ora raccolti in Gli anni dello Straniero. Italia 1998-2017, a cura di Nicola Villa, Edizioni dell’asino), collabora con il mensile “Gli Asini”, di cui è fondatore, con “Nuovi Argomenti”, con il “Corriere del Mezzogiorno”. Scrive molto, utilizzando sia la misura breve e media di quotidiani e riviste sia quella lunga del libro.

Le male vite ha già tutte le qualità che emergeranno più nitidamente nelle opere successive. Costruito su solidi dati, li intreccia a storie di vita, mentre lo sfondo storico e le scene della cronaca si richiamano di continuo. Di lì a poco Roberto Saviano, amico di Alessandro, pubblicherà Gomorra, offrendo ai lettori e all’opinione pubblica un’intensità di racconto eccezionale, in cui soggettività, autobiografia, esplorazione oggettiva del contesto e dei microcosmi, sequenza dei dati e trama delle storie concorrono a definire – anzi a ri-definire – l’indagine e la rappresentazione della realtà.

Le male vite è già su questa via, come lo sarà il libro che Leogrande pubblicherà nel 2008, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud (Mondadori Strade Blu; poi Feltrinelli, 2016). Se quest’ultimo è un’inchiesta su come un lavoro che sarebbe di per sé legale cade in mano al crimine organizzato che ne esaspera i meccanismi di sfruttamento fino a riprodurre forme di schiavitù, Le male vite racconta come un’attività illegale genera reddito e lavoro insinuandosi nella vita reale, nella normalità “legale”, fino a confondervisi.

Male vite e non malavita: Leogrande dichiara subito la sua chiave di lettura. Non è, questo, un libro di sociologia criminale, né un’inchiesta giornalistica (ancorché di questa abbia la leggibilità e la tempestività, e della prima abbia la capacità classificatoria e analitica). È, piuttosto, un convincente affresco storico e antropologico. Prende le mosse da un tema preciso, circostanziato, ma collega tale vicenda – il contrabbando di sigarette in Puglia – non solo alla realtà regionale ma alla società italiana nel suo insieme e, anzi, a quella europeo-balcanico-mediterranea a cavallo tra lo scorso e il nostro secolo.

“Il crimine è uno specchio straordinario delle trasformazioni sociali”: così si apre il libro, riprendendo la più feconda e perspicace, e la meno ipocrita, delle scuole di analisi del crimine, organizzato e no (qui organizzatissimo, e pervasivo, diffuso anche fuori dei suoi circuiti specifici e, proprio per questo, più insidioso e potente). Riprendendo e anzi rivisitando, a partire da questo dato, una delle metafore più fortunate utilizzate per interpretare e descrivere la realtà italiana degli ultimi decenni, quella del pasoliniano Palazzo e del suo rapporto con quanto avviene fuori di esso: “Oggi non possiamo più parlare di Palazzo. È una metafora consolatoria, il potere è disperso in ogni angolo della società globalizzata, i suoi punti di forza sono delocalizzati. Attraversano i luoghi della politica, ma non si concentrano in questi. Pertanto anche il rapporto crimine-politica-economia si delocalizza, si disperde nel tessuto sociale e nella creazione di nuovi poteri”.

E più oltre: “La mafia non è mai un cancro distaccato dalla società in cui sorge. Il suo farsi globale è del tutto speculare al dipanarsi di una società globale, ai mezzi che essa consente e alle distorsioni che produce e che finiscono per essere il brodo di coltura delle attività illecite”.

La storia della Sacra corona unita, l’ultima mafia ad affermarsi in Italia in ordine di tempo, che Leogrande ricostruisce in modo impeccabile, lo dimostra. Nasce nella Puglia degli anni ottanta, dal coalizzarsi di preesistenti gruppi criminali, a volte di più antico radicamento, che decidono di emanciparsi dalla storica subalternità alle grandi organizzazioni tradizionali: mafia, camorra e ’ndrangheta (dalla quale, soprattutto, mutua il modello organizzativo, poco verticistico, strutturato in clan autonomi). Il grande business, in quell’area, in quel tempo, è il contrabbando di sigarette. I nuovi clan lo capiscono e, con la peculiare struttura che si sono dati, riescono a prenderne facilmente il controllo.

“A cavallo tra il XX e il XXI secolo,” scrive Leogrande nella prefazione all’edizione Fandango 2010, “il contrabbando di sigarette ha fornito una delle più macroscopiche manifestazioni della forza delle nuove mafie. Non le mafie novecentesche, che fanno derivare unicamente il proprio potere dal controllo decennale del territorio; ma quei compositi network criminal-imprenditoriali in grado di aggirare gli ostacoli posti dagli stati nazionali. Ancora oggi, quando parliamo di contrabbando non dobbiamo guardare solo alla Puglia, o al Sud Italia, ma continuare ad allargare lo sguardo.”

Mentre l’attenzione generale è concentrata sui contrabbandieri campani, sullo sfondo del Vesuvio, è invece sulle coste pugliesi che soprattutto si sviluppano i nuovi traffici, i più redditizi. Si chiamano sempre “bionde”, ma chi le tratta è un nuovo soggetto. Efficiente, spregiudicato, armato fino ai denti. Anche se, naturalmente, per avere successo non basta usare le armi. La forza militare di cui la Sacra corona dispone – certo indispensabile, come sempre alle mafie – è affiancata dalla capacità di mediare, di stringere accordi, di spartire i ricchi profitti. Ai clan albanesi, per esempio, viene accortamente lasciato il monopolio dell’immigrazione clandestina, altro grande business dell’epoca.

Un altro versante ben coltivato è quello delle relazioni internazionali, non solo con il mondo criminale ma anche con i centri di riciclaggio dei capitali e con i nuovi poteri, con le nuove entità statali sorte dopo l’89 all’Est e, dopo le guerre balcaniche, negli anni novanta, con i regimi tempestosamente scaturiti dall’esplosione dell’ex Jugoslavia. È proprio della crisi balcanica che i nuovi clan pugliesi riescono ad approfittare, giocando un ruolo autonomo nel contrabbando e in altri lucrosi business che si aprono o che guadagnano nuove prospettive (il narcotraffico in primis).

L’asse sul quale i nuovi clan giocano la loro innovativa e spericolata partita è doppio, o triplo. Corre dalle coste pugliesi ai Balcani (Albania e Montenegro in particolare), da un lato. Dall’altro lato, risale fino ai segretissimi e loschi (ma all’esterno, sulla scena pubblica, immacolati) forzieri svizzeri. Un terzo asse, riservatissimo, chiude il triangolo: tra la Svizzera, e ogni altro “paradiso finanziario” o centrale di riciclaggio, e le nuove entità statali balcaniche (e i singoli nuovi gerarchi e/o tycoon, impegnati gli uni e gli altri in una frenetica e feroce “accumulazione originaria” e, in seguito, a reinvestire questi grandi capitali “sporchi” nei circuiti legali dell’economia, della finanza e dell’impresa).

Male vite di stato, dunque (dei nuovi stati e  di quelli vecchi, complici o incapaci di darsi regole all’altezza). Male vite dell’alta finanza, anche. Ma, oltre a questo, male vite diffuse e “normali”. Vite dedite all’arricchimento in quanto coerenti interpreti degli input principali del nostro tempo, quasi dei mantra: arricchitevi, non importa come, perché è il solo modo per essere qualcuno, per essere vivi. Vite che il bisogno e l’abbandono lasciano senza punti di riferimento, alla mercé dei soli soggetti in grado, sul territorio, di offrire protezione e opportunità. Vite del Sud, certamente, di un Sud segnato sia da perduranti bisogni e carenze irrisolte che rinviano ad antiche arretratezze, sia, e sempre di più, dalle distorsioni e dalle aberrazioni della crescita, della ricchezza che infine si è diffusa, spesso proprio per queste vie illecite, anche lì, come pure dell’assistenzialismo (uno strumento che, in tempo di pandemia, con i suoi drammatici effetti socioeconomici, il crimine organizzato, la mafia capace di dispensare “sussistenza”, a fronte dei vuoti lasciati dalle istituzioni, usa in modo ancora più temibile).

Male vite del Sud, tuttavia, che ricordano sempre più frequentemente altre vite gemelle del Nord, spregiudicate quanto basta per arrotondare gli effetti economici di una produttività legale con innesti assai più oscuri del pur redditizio e diffusissimo ricorso al lavoro nero e all’autosfruttamento (il normale e tolleratissimo “contrabbando” di lavoro che distingue il ricco e produttivo Nord, e specialmente il Nord-Est).

Questa capacità di leggere la complessità strutturale del nuovo crimine e la modernità delle sue attuali forme e radici rappresenta il contributo principale del libro di Leogrande, insieme alla capacità di sintesi che chiude spesso, in folgoranti considerazioni riassuntive, molte pagine trascorse a scavare, a perlustrare e riferire fatti e dati e testimonianze: “In fondo il contrabbando è stato (salvo gli eccessi) un buon esempio di new economy del bacino Adriatico…”.

Questa attenzione alla complessità non si misura soltanto con la natura attuale del crimine (e dei suoi labirintici legami politico-istituzionali-finanziari), ma anche con l’evoluzione più generale del mondo presente mentre presta un’attenzione speciale ai fenomeni migratori. Sul Mare Adriatico non passano, infatti, soltanto le “bionde”, passano donne e uomini in carne e ossa, a volte affrontando e subendo tragedie come quella della Katër i Radës, un piccolo dragamine partito dall’isolotto di Saseno (Sazan, in albanese), di fronte alla baia di Valona, nel Canale d’Otranto, con centoquindici persone a bordo e speronato e affondato da una corvetta della Marina italiana, la Sibilla, il 28 marzo 1997. Almeno ottantuno persone morirono quella notte. A questa tragedia, che è anche un crimine, Leogrande ha dedicato uno dei suoi libri migliori, Il naufragio. Morte nel Mediterraneo (Feltrinelli, 2011, da cui è stata tratta l’opera teatrale Katër i Radës). Quell’“incidente” rappresenta, per Leogrande, “il momento più buio del governo dell’Ulivo, un eccidio agghiacciante, dopo il quale molti sono riusciti a liberarsi delle proprie responsabilità”. Un frutto diretto dell’assimilazione che anche i governi dell’Ulivo (1996-2001) hanno compiuto tra immigrazione e criminalità sul piano della legislazione prodotta e delle politiche concrete perseguite. Immigrato clandestino e carico clandestino di sigarette (o di droga), nell’immaginario politico dell’Italia a cavallo tra i due secoli, sono stati spesso ridotti alla medesima cosa, al medesimo pericolo.

Le male vite non racconta, però, solo la storia di una nuova mafia e del suo “contesto”. È anche il resoconto di una, quantomeno parziale, vittoria dello stato contro di essa. L’Operazione Primavera, che proprio il governo di centrosinistra realizza all’indomani di un odioso attacco da parte di contrabbandieri a un posto di blocco delle forze dell’ordine (il 23 febbraio del 2000), esempio insieme di prepotenza e di sfacciata esibizione di forza (l’attacco avvenne con i gipponi blindati usati per trasportare ogni notte i carichi di sigarette), si conclude con un successo dello stato e con la ritirata della Sacra corona unita, duramente colpita e per certi versi disarticolata, con la cattura di importanti boss.

Un indubbio successo militare e politico, dunque, preparato da accordi internazionali anticrimine, resi possibili dall’inizio di stabilizzazione nei Balcani e dalla volontà (che confliggeva ma a volte ambiguamente conviveva con il lato oscuro di quell’instaurarsi di nuovi regimi) di capi di stato e nuovi establishment, usciti dai terribili anni novanta delle guerre, delle secessioni e dello stabilirsi violento di nuove gerarchie, di legittimarsi di fronte alle istituzioni e all’opinione pubblica internazionali: è il caso,  ben  documentato nel libro, del Montenegro, oltre che dell’Albania.

Un successo che però sembra aver insegnato a chi lo ha conseguito soltanto una lezione parziale. Forse la malavita organizzata può ricevere colpi pesanti da una strategia tutta incentrata sugli aspetti repressivi, specie se integrati dallo sviluppo di nuove regole sulla scena europea. Ma ci vuole anche altro, su piani diversi, per avere un esito più completo. Vale sempre, ovunque, e tanto più nel Mezzogiorno, ciò che Leogrande scrive a proposito del nesso tra mutamenti politici e trasformazioni sociali, introducendo la raccolta da lui curata degli scritti di Carlo Pisacane (L’altro Risorgimento, Edizioni dell’asino, 2017): “La loro rivoluzione doveva essere sociale, non solo politica. Anzi, sarebbe stata politica, solo se fosse stata allo stesso tempo sociale. Non c’era alternativa: o si creava un’unione stabile tra quei giovani [i rivoluzionari di Pisacane, N.d.R.] e quelle ‘masse’ [meridionali, N.d.R.]; o quei giovani sarebbero rimasti isolati, e presto stritolati tra lo sconforto e la repressione, e quelle ‘masse’ consegnate alla reazione”. O, fino a oggi, alla rassegnazione allo status quo, al clientelismo, al crimine organizzato che organizza anche la quotidianità, la sussistenza appunto, nel vuoto della politica. Un vuoto che depotenzia il conflitto, anche quando comunque si accende, stentando o fallendo nel tentativo, quando avviene, di farsi più duraturo, capace di progetto, di alternativa. Certo le male vite, a una tale politica depotenziata e debole, o efficace soprattutto come strumento di manipolazione in mano ai “viceré”, e a disposizione del crimine organizzato, hanno poco da chiedere: mafie, business e potere se ne serviranno senza scrupoli, spesso ricevendone complicità e rassegnata adesione, tenendole dentro i ranghi stretti della propria storia criminale, tra le “macerie” e ai bordi della storia possibile. Laddove cerchino, invece, un più pulito riscatto, un’altra vita e un’altra storia finalmente, dovranno guardare altrove. I libri, il lavoro di Alessandro, la sua figura stessa di ragazzo, di giovane uomo, di intellettuale e di attivista civile e politico, non isolato, dentro reti ostinate e resistenti, partecipe intelligente e “persuaso” di minoranze consapevoli e strenue, hanno mostrato e mostrano – anche in questo libro prezioso – verso dove bisogna guardare, verso dove bisognerebbe andare.

info@gliasini.it

Centro di Documentazione di Pistoia

p.iva 01271720474 | codice destinatario KRRH6B9

Privacy Policy – Cookie Policy - Powered by botiq.it