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Malattia mentale e resistenza in un’isola dell’Egeo

1 Giugno 2022
Velania A. Mesay

All’ombra del doppio filo spinato, i poliziotti in tenuta antisommossa sorvegliano l’ingresso del campo profughi di Lesbo. Alcuni con le teste chine sui telefoni, altri addormentati sui sedili del blindato. Altri due, invece, sono impegnati a gestire la fila dei rifugiati che devono far ritorno ai loro alloggi. Tra di loro ci sono Rasha e suo figlio Amir di 7 anni. “Perché non venite a casa nostra?” ci chiede lui prima di congedarci. La madre gli dà in dari la risposta che noi non volevamo dargli: “Loro non possono entrare, lo sai”. Ma Amir non si scoraggia: “Se passate un altro giorno ci trovate al 522. Vi aspetto’”. 522 è il numero della tenda dove la famiglia di Rasha vive da settembre del 2020, dopo che l’incendio all’ex campo profughi di Moria distrusse anche il loro alloggio. Attraversiamo la strada per osservare la lunga coda che nel frattempo si è formata. Una poliziotta controlla con il metal detector il corpo di Rasha, le passa la banda metallica sotto le ascelle, sulle gambe, poi la fa girare per ripetere l’operazione anche sul lato posteriore del corpo. Amir si appoggia al passeggino carico di buste. Osserva la poliziotta mentre controlla il corpo della madre, finché bruscamente il passeggino gli viene tolto per vagliare il contenuto dei sacchi di plastica. Sono solo verdure. Possono varcare l’ingresso. Prima di entrare si voltano e con la mano ci volgono un ultimo saluto. Per loro sono le ultime settimane nel campo. Dopo tre anni finalmente la loro richiesta d’asilo è stata accettata. Quando chiediamo a Rasha se è contenta, non sfoggia particolari sorrisi né sembra esserne molto entusiasta. “Siamo qui dal 2019. Io nel frattempo mi sono ammalata, mio marito e il mio primogenito quattordicenne anche”, ci confida indicando la propria tempia, suggerendoci che il malessere non sia di natura fisica. “L’ultimo inverno l’ho passato chiusa in tenda, non avevo più nemmeno la forza di uscire.” Le uniche uscite erano diventate quelle per andare dalla psicologa. E se lei, dopo la notizia che finalmente potranno lasciare l’isola prigione, adesso sembra stare un po’ meglio (ha ricominciato a uscire e a lavorare come sarta all’interno del campo), suo figlio più grande è ancora intrappolato nelle maglie della depressione. “Mamma, dopo tre anni di sofferenze, che me ne importa ora che andiamo in Germania? Dimenticherò mai le ingiustizie subite, il tempo perduto e la collera repressa?” Rasha ci riporta preoccupata le domande del figlio. Nel 2019, appena sbarcato, Mohamed era un bambino, ora ha 14 anni e si appresta a diventare un adulto. L’interminabile attesa, che ha divorato gli anni a cavallo tra la sua fanciullezza e la sua adolescenza, ha lasciato un segno indelebile che sarebbe sciocco pensare possa essere cancellato facilmente. Qui nessuno potrà mai dimenticare le inumane condizioni nelle quali la loro vita si è protratta, consumata come la cera di una candela. Nessuno potrà mai dimenticare gli abusi dei poliziotti, il loro autoritarismo spietato. Emily, insegnante di inglese per i rifugiati da sei anni nell’isola, mi racconta che la scorsa settimana un suo studente è stato schiaffeggiato da un poliziotto. È arrivato a lezione in stato di shock, non sapeva spiegarsi l’accaduto. Uno schiaffo, forte a cinque dita, senza ragione. “Gli avevo detto che uscivo dal campo per venire a lezione, così come faccio tutti i giorni. Lui mi ha accusato di mentire e poi lo schiocco sonoro delle sue dita sulle mie guance” dirà all’insegnante.

Qui nessuno potrà mai dimenticare le inumane condizioni nelle quali la loro vita si è protratta, consumata come la cera di una candela. Nessuno potrà mai dimenticare gli abusi dei poliziotti, il loro autoritarismo spietato.

No, qui la gente non dimenticherà, non potrà mai farlo. Non potrà dimenticare le proteste per la libertà, dopo l’incendio di Moria, represse con manganellate e gas lacrimogeni lanciati indistintamente su strada dove donne incinte, bambini e anziani giacevano nella speranza di essere ricollocati altrove. Stupidamente immaginavamo i salti di gioia di coloro che avevamo conosciuto in attesa di una risposta positiva e invece, quando questa è arrivata, li abbiamo trovati al limite delle loro forze. Supponiamo che tutti noi abbiamo un’asticella di sopportazione fisica e mentale che non dovremmo mai superare. Questi migranti, per le condizioni che gli sono state inflitte una volta approdati, trattati alla stregua di criminali indipendentemente dalla loro età, dalla loro vulnerabilità e dal bagaglio di sofferenze che spesso già il viaggio rischioso gli riserba, rischiano costantemente che questa asticella venga raggiunta. E se Rasha, seppur vicina, non è mai arrivata a toccarla, c’è invece chi quest’asticella l’ha già di gran lunga superata. In Europa, quando riusciranno ad arrivare nell’Europa da loro agognata (nella maggior parte dei casi, specialmente per gli afgani, corrisponde alla Germania), magari qualcuno per strada li additerà per dire: “guarda quel matto”. Li sfiderei a non diventare matti dopo qualche mese in quest’isola nelle condizioni nelle quali i rifugiati sono costretti a vivere.
Fawad è uno di quei ragazzi che quest’asticella, purtroppo, l’ha superata. È uno di quelli che è da più tempo qui a Lesbo: cinque anni. Ha gli occhi verdi con delle sfumature color ocra nell’area intorno alla pupilla e un sorriso stampato sulle labbra che sembra essere scolpito nel marmo. Il suo sorriso non accenna mai a diminuire. Fawad sorride a tutto e a tutti. Sorride mostrando i denti anche quando cammina da solo. Riesce a sorridere anche mentre mangia, anche mentre beve. Quando ci parli, dopo qualche frase, si scorda di cosa stava dicendo. Si scusa. La sua memoria a breve termine non funziona più. È questa una delle tragiche conseguenze che un ragazzo di ventotto anni si trova a dover affrontare da solo. Qui a Lesbo ha l’aiuto degli psicologi volontari, in “Europa”, invece, chi gli verrà in ausilio? Chi si prenderà cura della salute mentale di queste persone una volta che arriveranno nelle destinazioni finali? A Berlino, a Francoforte, a Parigi o Milano, chi seguirà il percorso psicologico di coloro che hanno smarrito l’equilibrio psichico? Chi si occuperà delle conseguenze causate da questa politica di deterrenza volta solo a disincentivare l’arrivo di nuovi migranti?

Dorot ha 19 anni. Viene da un paesino etiope al confine con la Somalia. È venuta qui da sola per sfuggire al secondo matrimonio forzato. Al primo aveva solo sedici anni. “Sono stata respinta sei volte ma conosco persone che non sono ancora riuscite ad arrivare e che sono al tredicesimo tentativo” mi dice sussurrando. Ha paura di poter essere ascoltata e deportata in Turchia, crede che qualcuno la possa spiare, nonostante i documenti lei li abbia già presi e la sua richiesta d’asilo sia stata recentemente accettata. Ma il timore è più forte della razionalità quando si è subìto tanto. “Le prime due volte che sono sbarcata a Lesbo la polizia mi ha sequestrato tutto: denaro e telefonino, quelli erano i miei unici beni. Gli uomini che erano nella mia stessa imbarcazione sono stati picchiati a calci e manganellate su fianchi e gambe prima di essere riportati tutti in Turchia”. Dorot è una delle tante vittime dei pushbacks illegali della guardia costiera ellenica nel mar Egeo, un fenomeno in costante crescita. Dall’inizio dell’anno sono quasi diecimila i migranti che hanno salpato il mare dalla Turchia per far richiesta d’asilo nelle isole greche e che sono stati respinti indietro. Solo pochi giorni fa, il 22 aprile, 57 persone hanno provato ad arrivare a Lesbo. Già in acque greche con il motore in avaria, sono stati fermati dalla guardia costiera ellenica e trascinati indietro in acque turche. Tra loro c’erano 27 bambini. La nazionalità prevalente a bordo era quella afgana. Ebbene, se siamo stati capaci di commuoverci per le immagini degli afgani che tentavano la fuga dal Paese lo scorso agosto a seguito della ripresa del potere da parte dei talebani, come possiamo rimanere indifferenti di fronte agli abusi che la polizia di uno stato europeo compie tutti i giorni verso quelle stesse persone? Come possiamo impietosirci per quelli che hanno tentato di scappare aggrappandosi alle ali degli aerei a Kabul, se poi quelli che tentano di arrivare qui in una maniera più sicura – e comunque sempre estremamente pericolosa – poi li respingiamo in mare privandoli di un diritto sancito nella convenzione di Ginevra?

Gli hotspot delle isole greche sono una palestra di allenamento al malcontento, alla crescita di disturbi psichici, alla perdita della sanità mentale e fisica. Tra il 2019 e il 2020 Medici Senza Frontiere si è presa cura dei problemi mentali che i rifugiati hanno contratto nelle isole di Chios, Lesbo e Samos. Si tratta di quasi 1400 pazienti. 180 di questi si erano autolesionati o avevano provato a suicidarsi. Due terzi di loro era costituito da bambini, il più piccolo aveva solo sei anni. E i segni di questi tentativi rimangono visibili: è comune qui a Lesbo conoscere adolescenti o giovani ragazzi con le braccia piene di cicatrici profonde, larghe, che d’estate risaltano per il contrasto dell’abbronzatura sulla loro pelle. E allora nei mesi più caldi, quando si esce a maniche corte, molti, forse pentiti o imbarazzati, nascondono queste cicatrici sotto delle fascette che coprono dal polso al gomito la visibilità dell’avambraccio.

Uno dei gesti più estremi fu quello del 2021, quando una donna afgana di 26 anni, all’ultimo mese di gravidanza, aveva provato a darsi fuoco. Dopo essere sfuggita all’incendio di Moria con suo marito e i loro tre bambini, finalmente la sua richiesta d’asilo era stata approvata. I cinque dovevano essere trasferiti in Germania, ma, poco prima del loro volo, gli venne comunicato che non sarebbero potuti partire. Nessuno spiegò loro il motivo, ovvero che la gravidanza della donna era in uno stadio troppo avanzato per permetterle di viaggiare, e lei cadde nella disperazione. Mentre suo marito era fuori dal campo, accompagnò i figli fuori dalla tenda, per poi farvi rientro da sola e appiccare un rogo alla porta. Si sedette dentro, aspettando che il fuoco la inghiottisse. Quando i suoi vicini videro le fiamme corsero a salvarla, la trovarono priva di sensi e gravemente ustionata. Contro ogni aspettativa, sia lei che il bambino che portava in grembo sono riusciti a salvarsi. Mentre giaceva in agonia nel letto d’ospedale, gli ispettori dei vigili del fuoco e poi la polizia andarono ad interrogarla. Ancora in cura per le ustioni di terzo grado, fu accusata di incendio doloso per aver messo in pericolo la vita dei residenti del campo. Verrà processata a giugno.

È sempre l’insegnante Emily, che ha accesso al campo quotidianamente, che mi narra di altre ingiustizie alle quali lei stessa ha assistito. “Durante lo scorso inverno erano ancora in vigore le regole che obbligavano i rifugiati a indossare la mascherina in qualsiasi punto dell’hotspot per evitare i contagi da Covid19. L’unico luogo nel quale la potevano togliere erano le proprie tende. Ricordo che un giorno una donna incinta agli ultimi mesi della gravidanza si affacciò dalla sua tenda perché aveva difficoltà a respirare. Appena sull’uscio, con suo marito che la teneva per mano, iniziò a fare grandi sospiri. Due minuti dopo la polizia si presentò lì davanti e multò entrambi per aver violato le regole sulle mascherine. 200 euro totali e lei costretta a tornare nello spazio angusto della tenda”. Alle autorità non valsero le proteste, le spiegazioni della coppia che in lacrime tentò di giustificarsi.

Questi episodi sono solo alcuni esempi della tragedia di cui sono vittime questi migranti quotidianamente.

Ode a loro, ai loro coraggiosi sorrisi e alla loro Resistenza.

Al fine di proteggere l’identità di queste persone, l’autrice ha ritenuto necessario sostituire i loro nomi anagrafici con nomi di fantasia.


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