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Madri e figlie

"Come il desiderio sessuale, la memoria non si ferma mai. Appaia i morti ai vivi, gli esseri reali a quelli immaginati, il sogno alla storia”, scrive Annie Ernaux ne Gli anni (L'orma, 2015).
11 Marzo 2020
Roberta Mazzanti

“Come il desiderio sessuale, la memoria non si ferma mai. Appaia i morti ai vivi, gli esseri reali a quelli immaginati, il sogno alla storia”, scrive Annie Ernaux ne Gli anni (L’orma, 2015). Astuta e seducente trappola quella operata dalla memoria, che popola la nostra esistenza di fantasmi accanto agli esseri in carne e ossa, li sovrappone gli uni agli altri e carica gli oggetti più banali di una potenza incomprensibile a chi non sia coinvolto in quel circuito affettivo.

In Una donna (L’orma, 2018), il libro in cui Annie Ernaux viene a patti con la vita e la morte di sua madre, uno degli oggetti così circonfusi di memoria e desiderio è un “piccolo spazzacamino savoiardo, souvenir di Annecy”; è una delle poche cose, raccolte in un sacchetto di plastica, che le sopravvivono nel reparto di lunga degenza dove finisce i suoi giorni e ci raccontano di un gusto, di una provenienza sociale.

Ernaux ha sempre la capacità di illuminare il dettaglio pregnante e di evocare, per mezzo di materialità banali e al tempo stesso intensamente personali, il carattere e la storia di una persona. Sua madre, la vediamo e la comprendiamo anche per i colori e le fogge dei vestiti che porta dall’infanzia fino alla vecchiaia, per i gesti “semplici e precisi” che compie sul corpo del marito morto, ben diversi dai gesti confusi, inutili e strazianti per la figlia che la osserva – “voleva cucire a ogni costo, attaccando tra loro foulard e fazzoletti con punti sbilenchi” – che tenta quando perde la memoria. La demenza senile la svia e la svuota, trasformandola in un essere “che non aveva più niente di suo”, tanto diversa dalla persona ambiziosa e fiera, forte sino alla violenza, che era stata fino a pochi anni prima. Sgomenta, la figlia vede che la donna bella, esuberante e sgargiante che l’aveva messa al mondo sta sul letto di morte come “una piccola mummia”; non prova sollievo pensando che “era meglio che fosse morta”, anzi le è insopportabile, pochi giorni dopo, il pensiero che l’assale: “Non sarà mai più in nessun luogo al mondo”.

La perdita della madre la ossessiona, non soltanto perché si lacera la trama della loro complessa relazione, ma perché la sua scomparsa spezza un legame con l’origine contadina e proletaria dalla quale Annie, figlia intellettuale e scrittrice, si era già allontanata ma che non aveva mai del tutto rinnegato: “Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e di camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo”. Dopo tre settimane di vuoto e di orrore, giunge la – relativa – salvezza della scrittura, quando traccia su una pagina bianca l’inizio schietto e secco della storia che leggeremo: “Mia madre è morta lunedì 7 aprile”. Non è capace di fare altro che raccontare di lei ma al tempo stesso è cosciente di quanto l’impresa sia difficile, visto che si propone di andare al di là del proprio “immaginario”, dei sogni in cui sua madre torna viva e vibrante “in un’atmosfera simile a quella dei film dell’orrore”.

Vuole oltrepassare la soglia delle proprie proiezioni per cogliere “la donna reale (…) all’intersezione tra famigliare e sociale, tra mito e storia”. Dichiara di impegnarsi in un progetto “di natura letteraria” ma spera “di restare al di sotto della letteratura” – e in questo proposito ritroviamo un nodo sul quale Ernaux si è impegnata in tutte le sue opere: il nodo stilistico ed etico che la rende esemplare di una tendenza molto frequentata da letteratura a cavallo fra Ventesimo e Ventunesimo secolo, quello di tentare un’autobiografia che sia al tempo stesso storia individuale e collettiva, immersione nella soggettività e testimonianza di verità storica, un “autoritratto di gruppo”, come esplicitava il titolo che Luisa Passerini (non per caso coetanea di Ernaux) aveva scelto per il suo innovativo scritto che muoveva tra autobiografia letteraria e ricerca storica, pubblicato da Giunti nel 1988.

La scrittura di Una donna terminava più o meno nello stesso periodo, nel febbraio ’87 e il libro era pubblicato in Francia in quell’anno sebbene esca solo adesso in Italia nella sempre impeccabile traduzione di Lorenzo Flabbi. Se ricostruiamo il percorso delle opere di Ernaux nell’ordine originario di apparizione francese, mi pare significativo che Una donna preceda Gli anni (apparso in Francia nel 2008): forse sono anche il lutto e lo sradicamento dal terreno nativo denunciati ne Il posto (dedicato al padre, pubblicato in Francia nel 1983) e in Una donna, che la spingono una decina d’anni più tardi a pubblicare con Gli anni quella “autobiografia impersonale” che è il tentativo di non sprofondare nel silenzio quando le proprie stesse parole – e quella della generazione a cui lei appartiene – saranno scordate a loro volta, per sempre. Quando anche lei/noi diventeremo “soltanto un nome, sempre più senza volto, finché scompariremo nella massa anonima di una generazione sempre più lontana”. Federica Lucchesini ha scritto per “gli Asini” nr. 35-36 una coinvolgente riflessione su come Ernaux “distilla il pathos del sé nell’esercizio del noi (…) sostenendo questo straordinario noi, una prosa fluidissima con un pronome e una dimensione quasi intrattabili (…) con un effetto, tra l’altro, di umiltà e di distacco, di sforzo di conoscenza spogliato di presunzione o titanismo”.

Ernaux appartiene a una generazione che ha provato a rinascere come un noi attraverso forme di cultura e di politica che tentavano di esplorare a fondo l’io per valorizzarlo in una prospettiva plurale, a fondare “famiglie di affini” che avrebbero dovuto e potuto sostituirsi a quelle biologiche, ripudiate o allontanate perché vissute come troppo estranee o patogene. Eppure i suoi libri più belli e riusciti sono a mio parere proprio i due in cui le figure dei genitori campeggiano più imponenti e ingombranti, perché in entrambi il nucleo scottante, che resta caldissimo pur nello stile scarno, è quel salto di classe che la porta dalla povera bottega di paese dei genitori all’università, dal semi-analfabetismo del padre alla cattedra di insegnante di Lettere e scrittrice, passando per i romanzi d’appendice su cui la madre si appassiona ma che sempre nasconde all’entrata delle clienti nella bottega.

Un salto di classe che è produttivo di un avanzamento sociale e culturale apparentemente riuscito in pieno, ed è soprattutto la madre a spingerla con tutte le sue forze oltre il proprio mondo: “vendeva patate e latte da mattina a sera per permettermi di stare seduta in un’aula universitaria a sentir parlare di Platone”. E ancora prima, con una delle notazioni più delicate e commoventi di tutto il libro, la figlia rivela che per quella donna brusca e vorace, che faceva tutto “con frastuono” e sembrava gettare gli oggetti, non appoggiarli, “i libri erano gli unici oggetti che trattava con cautela. Prima di toccarli si lavava le mani”.

Ma al tempo stesso, l’uscita dal paese e dalla bottega verso la città e le aule di studio è portatrice di disagio e nostalgia, due sentimenti che travalicheranno gli argini del suo ben costruito ordine intellettuale soltanto sulla spinta violenta della morte e del lutto: “Era necessario che mia madre, nata tra i dominati di un ambiente dal quale è voluta uscire, diventasse storia perché io mi sentissi meno sola e fasulla nel mondo dominante delle parole e delle idee in cui, secondo i suoi desideri, sono entrata”.

Salire di status, provare vergogna di fronte alla rozza vitalità materna quando la misurava con gli ambienti borghesi in cui si stava inserendo nella sua ascesa di brillante studentessa e futura moglie, le suscitava senso di colpa. E presto la madre avrebbe avuto “in sua figlia, di fronte a lei, un nemico di classe”.

“Scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito”: non a caso, in una recensione ad Annie Ernaux uscita sul Domenicale del “Sole 24 Ore” nel 2016, Goffredo Fofi citava questa frase di Jean Genet da lei scelta come esergo per Il posto. Ma se il tradimento verso il mondo del padre viene narrato – ed espiato – in quel bel libro, più drammatico suona il tradimento verso la madre, perché più magnetica, più desiderata e più temuta è stata l’identificazione con lei: “Credevo che crescendo sarei diventata come lei”.

Costretta ancora una volta dall’impellenza della propria scrittura a esplorare la contraddizione, confessa: “mi pare di andare in direzione della verità, mi aiuta a uscire dalla solitudine e dall’oscurità del ricordo individuale…”; ma nello stesso tempo, la tormenta ciò che sempre si annida nel profondo di chi scrive e decide di esibire le pieghe del vissuto più intimo: “Ma sento che qualcosa in me oppone resistenza, vorrei conservare di mia madre delle immagini puramente affettive, il calore o le lacrime, senza dar loro un senso”.

Mi sono chiesta se la scelta di non nominarla mai con il suo nome proprio, di definirla sempre e solo mia madre, non derivi soltanto dalla volontà di scrivere “nella maniera più neutra possibile”, ma anche da un gesto di protezione, per celare almeno un frammento di intimità in un libro così esplicito e tanto ricco di sofferte contraddizioni da meritare l’esergo da Hegel, C’è chi dice che la contraddizione non si può pensare: ma essa nel dolore del vivente è piuttosto una esistenza reale.

Legami feroci

Perché i confronti e i dilemmi tra madre e figlia esibiti in narrativa e in poesia da altre figlie scrittrici (e da poche madri, finora) sono tutti fondati sullo sforzo creativo di mettere sulla pagina la contraddizione, o meglio l’ambivalenza di questo rapporto; fra le tante, solo restando nella prosa italiana e nel periodo fra metà Novecento e oggi – a partire da Elsa Morante, Alba De Céspedes, Fabrizia Ramondino, Francesca Vitale, per arrivare alle più contemporanee come Letizia Muratori, Rosella Postorino, Viola Di Grado, Donatella Di Pietrantonio, Elena Stancanelli, Giulia Caminito –, mi limito a citare qualche spunto da due autrici che mi sono sembrate affini a Ernaux, sebbene abbiano scritto in modo più romanzesco che autobiografico: Elena Ferrante e Rosa Matteucci.

Anche per loro, sottesa alla problematica esplorazione-elaborazione letteraria del dolore per la morte della madre è tramata l’autocoscienza scritta di una donna nella cui “parabola di vita (…) un evento è più decisivo presente trascinante di altri e si tratta della presa di coscienza e del movimento femminista”, ed è proprio la “possibilità delle donne di vivere altrimenti” (cito ancora Lucchesini su Ernaux), ad avere innescato l’urgenza del tema. Sono scritture sui “legami feroci”, come li racconta anche Vivian Gornick nell’intenso memoir così intitolato, dove la figlia intellettuale e giornalista alterna gli armistizi alla rabbia bollente, “quasi erotica” verso l’ingombrante e fierissima matriarca che la cresce nei quartieri dei proletari ebrei newyorchesi (Legami feroci, Bompiani 2017).

In una lunga lettera-intervista del 2003, Elena Ferrante scriveva a proposito della tormentata vicenda tra Delia e la madre Amalia in L’amore molesto: “Volevo che il passato non fosse superato, ma riscattato proprio in quanto deposito di sofferenze, modi rifiutati d’essere” (La frantumaglia, edizioni e/o 2003-2007). Come non avvicinare questa intenzione al libro con cui Ernaux rende giustizia a sua madre, riscattando lei e se stessa da quel “senso di indegnità”, da quei rifiuti giovanili che erano stati veri e propri rinnegamenti: “Mi vergognavo della sua maniera brusca di parlare e di comportarsi, tanto più profondamente quanto più mi accorgevo di somigliarle. Le rimproveravo di essere ciò che io, in procinto di emigrare in un ambiente diverso, cercavo di non sembrare più” (Una donna).

Vergogna e rabbia che prova anche Luce, protagonista con la vecchia madre Ada di un sulfureo breve romanzo di Rosa Matteucci dal titolo sarcastico di Cuore di mamma (Adelphi 2006): agli occhi di Luce, figlia unica esasperata dalla propria incipiente mezza età, Ada è una megera “indocile e selvatica” – selvatica diventa anche la madre di Ernaux quando smette di lottare contro l’Alzheimer e si lascia andare – che la schiavizza con i suoi capricciosi bisogni di vecchia impoverita. Per sfuggire a colei “che ogni settimana l’attendeva nel suo antro come una grossa pianta carnivora pronta a inghiottirla”, Luce escogita un piano per affidarla a una capace badante ucraina, affrontando piena di timori di quella che si profila come “una resa dei conti, il giudizio universale dei vincoli di sangue”. Ho sempre trovato fantastiche le pirotecniche ma dolentissime pagine dedicate agli “allunaggi” di Luce nell’antro materno, le sue frustranti corvée contro le sciatterie e i dispetti materni, i paragoni umilianti con il lindore deodorato della famiglia Trottini in cui Luce vorrebbe entrare seducendo il rampollo Gianluca. Esemplare è la parabola emotiva che Rosa Matteucci imprime alla storia di Luce e Ada: dal disgusto esasperato e aggressivo che entrambe manifestano stando ai poli opposti del conflitto, passando per l’apoteosi grottesca della festa natalizia nel “pollaio metafisico” del centro anziani, al finale catartico e stralunato in cui la vulnerabilità della madre – “un povero corpo vecchio, rattrappito, logorato dagli anni, squassato dal male (…) coperto da miseri indumenti stazzonati e impataccati” – echeggia in Luce: “Mai si era sentita tanto inerme, fragile, confusa e incredula come di fronte alla visione di sua madre svenuta”, oppressa dal “peso della vergogna che prova per non aver saputo amare abbastanza”.

In tutte e tre le scrittrici, le figlie cercano la separazione a ogni costo e tuttavia il senso di colpa è inestricabile dal sollievo di non ricadere nell’impronta materna. Nella giovinezza, sono capaci di strappi inesorabili, ma più in là negli anni la scoperta della fragilità del corpo materno invecchiato e insultato dai malanni ma ancora sessualmente carico, allusivo, risospinge la figlia nella prossimità della matrice, riapre lo spazio franoso tra repulsione e desiderio in cui si radica la relazione con la madre e con il proprio corpo femminile. La fusione con “quel nido di voci e di carne” di cui scrive Ernaux appare oscena in maniera proporzionale al desiderio erotico infantile che quel corpo ha suscitato, con la visione della pelle nuda, dei capelli fiammanti o nerissimi, della schiena sensuale, degli abiti, dei profumi, del rossetto sulle labbra materne…

Riconoscere la comune vulnerabilità permette infine un flusso d’amore adulto: la madre non è più soltanto fonte e destinataria di un “amore molesto”. Il nodo della differenza e della comunanza qui si fa strettissimo, e irresistibile la tentazione di ribaltare le posizioni con una madre matriarca che è stata di ostacolo sul cammino della propria libertà, anche sessuale. Quando la madre è già vedova e anziana ma ancora “traboccante di vitalità”, Ernaux l’accoglie nella sua casa di moglie, madre e insegnante, e confessa: “mi sono detta, avvilita, ‘d’ora in poi vivrò sempre sotto il suo sguardo’.” Quando però l’Alzheimer la spoglia di ogni forza tranne che di una fame vorace e infantile, è figlia a farsi materna: “Avevo bisogno di nutrirla, toccarla, ascoltarla”.

L’oscillazione tra rifiuto e attrazione verso il corpo materno, cruciale nei primi romanzi di Ferrante come L’amore molesto e La figlia oscura, nella quadrilogia più recente trova una rappresentazione più articolata: la gamma che va dal disgusto alla dolcezza non viene più giocata soltanto nelle figure del Doppio che pure sono fondamentali nel ciclo delle due “amiche geniali”, ma si manifesta in molte triangolazioni fra madri, figlie e amiche-sorelle nonché nei rapporti tra maschi e femmine, dove l’amore-odio verso la madre intesa in senso lato resta sempre il fondale psichico dove si inscenano le altre figurazioni affettive.

Anche Lenù nell’Amica geniale non sopporta la traboccante vitalità plebea della madre, teme di diventare zoppa come lei, la sua menomazione le pare il marchio dell’incapacità di evadere dalla povertà e dalla violenza ignorante del quartiere. Ma quando l’anziana sta per morire, si ribaltano le posizioni e i sentimenti: «Quando mi abbracciava prima che me ne andassi, sembrava che lo facesse per scivolarmi dentro e restarci come una volta io ero stata dentro di lei. I contatti con il suo corpo, che quando era sana m’infastidivano, adesso mi piacevano» (Storia della bambina perduta, e/o 2014).

L’esito pacificante, di reciproco accoglimento, resta tuttavia non verbale, muto: in nessuna delle tre autrici avviene attraverso un dialogo, perché le madri sono morte o incoscienti, oppure sono rimaste senza parole. La comunicazione affettiva si ristabilisce soltanto per mezzo del contatto corporeo, o dei surrogati rappresentati dagli abiti che le figlie ereditano.

Leggendo in questi anni alcune fra le scrittrici più giovani, in larga parte ‘figlie del femminismo’, mi ha colpito scoprire che spesso, nelle storie madre-figlia da loro narrate, la rabbia ha virato verso il patetismo e la frustrazione, cosicché le due protagoniste sono accomunate dall’apatia, dalla mancanza di gioia, da posizioni succubi o ciniche verso la vita e verso gli uomini, e le illusioni amorose – di solito nutrite dalla madre, e viste con sgomento o con disprezzo dalla figlia – si rovesciano depressioni, disordini e sconfitte irreparabili.

Mi limito qui a citare alcuni temi comuni, riprendoli da un abbozzo di saggio che ho steso per un convegno SIL su Conflitti e rivoluzioni. Scritture della complessità a Firenze nel 2015, perché sarebbe interessante proseguire sulla rivista questo discorso come confronto a più voci, magari con interventi in prima persona delle autrici.

La co-abitazione forzata e sgradevole di una casa in cui risaltano più evidenti le assenze (soprattutto maschili) che non le presenze, e queste ultime sono spesso fantasmatiche; lo scambio o regalo imbarazzante di abiti della madre, indossati di malavoglia o scempiati dalla figlia; l’anoressia, scelta per sfuggire alla desolazione della carne che la figlia intravede nel corpo materno; la crudeltà che si manifesta in tutti i rapporti sessuali tra femmine e maschi di ogni età, dall’adolescenza alla tarda maturità. Le madri compaiono come figure “smarginate”, direbbe Ferrante, grottesche nello sforzo di rendersi piacenti, o disfatte dalla rinuncia a ogni pretesa estetica che ne sottolinea l’eccesso di corpo. Le figlie sono invece esilissime o androgine, figurette animate da pura tensione mentale, prive dei segni tradizionali della femminilità. Mi sono chiesta perché siano rappresentate come perdenti, queste madri coetanee del femminismo, rispetto alle donne socialmente più oppresse ma oscuramente capaci di autorevolezza e dominio di Ernaux, Ferrante e Matteucci; donne più svincolate dalla tradizione e più colte, raffigurate spesso come professioniste, maestre, artiste, che cercano libere relazioni con gli uomini ma restano agli occhi delle figlie persone rovinose, vulnerabili, svalutate, sostanzialmente incapaci di gestirsi e di gestire il materno.

A una prossima puntata, il tentativo di approfondire queste domande e sollecitare risposte.

Bibliografia:

Viola di Grado, Settanta acrilico trenta lana, Roma, edizioni e/o 2011.

Donatella Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, Roma, Elliot 2011; Idem, L’Arminuta, Torino, Einaudi 2017.

Annie Ernaux, Il posto (La place 1983), trad. it. Lorenzo Flabbi, Roma, L’orma 2014; Idem, Gli anni (Les années 2008), trad. it. L. Flabbi, L’orma 2015; Idem, Una donna (Une femme 1987), trad. it. L. Flabbi, L’orma 2018.

Elena Ferrante, L’amore molesto, Roma, edizioni e/o 1992; Idem, La frantumaglia, e/o, 2003-2007; Idem, La figlia oscura, e/o 2006; Idem, L’amica geniale, e/o 2011; Idem, Storia del nuovo cognome, e/o 2012; Idem, Storia di chi fugge e di chi resta, e/o 2013; Idem, Storia della bambina perduta, e/o 2014.

Goffredo Fofi, Io, ovvero noi, ovvero tu, “Il Sole 24 Ore”, no.188, 10 luglio 2016.

Vivian Gornick, Legami feroci (Fierce Attachments 1987), trad. it. Elena Dal Pra, Milano, Bompiani 2017.

Federica Lucchesini, Annie Ernaux e la nostra storia, “Gli Asini” n. 35-36, settembre-dicembre 2016.

Rosa Matteucci, Cuore di mamma, Milano, Adelphi 2006.

Roberta Mazzanti, Madri e figlie in Elena Ferrante, in Dell’ambivalenza, a cura di Anna Maria Crispino e Marina Vitale, Roma, Iacobelli 2016, pp. 88-104; Idem, La narrazione estrema. Passaggi fra madre e figlia, in http://www.ilgiardinodeiciliegi.firenze.it/wp-content/uploads/2017/04/Contributi-convegno-SIL.pdf

Letizia Muratori, Tu non c’entri, Torino, Einaudi 2005.

Luisa Passerini, Autoritratto di gruppo, Firenze, Giunti 1988.

Rosella Postorino, La stanza di sopra, Vicenza, Neri Pozza 2007.

Anna Salvo, La relazione madre-figlia: un enigma psicoanalitico in Magazzeni L., Mormile F., Porster B., Robustelli A.M., La tesa fune rossa dell’amore, Milano, La Vita Felice 2015, pp. 249-56.

Elena Stancanelli, Benzina, Torino, Einaudi 1998.

R. Mazzanti, Sotto la pelle dell’orsa, Roma, Iacobelli 2015

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