L’universale nella boscaglia*

traduzione di Livia Apa
“Chaque fois que (le morts) nous voyaient, ils faisaient entendre des briuts désobligeants qui montraient qu’ils nous haïssaient et aussi qu’ils étaient furieux de nous voir vivants”i
Nell’esagono francese, oggi si parla di universalismoiiad ogni occasione. Il richiamo, costante, al fatto che esistono tratti irriducibili della vita umana, indipendentemente da ogni condizionamento locale e culturale, non ha che un obbiettivo. Partire per una guerra contro il comunitarismo. O ancora, contro il male dell’identità. Contro il multiculturalismo. Contro il narcisismo delle culture neoliberali. Contro il fanatismo religioso. Contro il velo e l’islam. Contro il presunto razzismo degli antirazzisti. Contro la scrittura (inclusiva) e contro le parole (intersezionalità, “razializzato”…) Contro gli stati Uniti. Contro l’espressione di gioia nelle finali di calcio. Gli scenari sono molteplici e vari. E su ognuno di loro, il termine “universale” viene brandito come uno stendardo. Bisogna combattere il pericolo della dislocazione e le presunte minacce di separatismi.
L’idea dell’universalismo si presenta, tuttavia, sempre su un’altra scena, che può sembrare meno sottomessa alle passioni mediatiche: quella delle arti e della cultura: I luoghi dell’arte sono quelli dello spirito – “la cosa del mondo meglio condivisa”. Essere umani è sempre essere totalmente e l’umanità così come la pensiamo da Descartes in poi, è una, malgrado le differenze.
Perciò anno dopo anno in Francia il mondo delle arti e della cultura ha dovuto anch’esso affrontare la parola velenosa che separa e che divide. Il dibattito sulla restituzione delle opere d’arte sottratte durante l’epoca coloniale introduce la vera separazione nel mondo dello spirito. Restituire ad ognuno quello che è di ognuno. Non si fa a pezzetti l’essenza immateriale dell’umanità. Farlo è impedire di produrre enunciati di verità condivise. Ancora peggio, rinunciare ad un discorso di emancipazione comune. Trattenere le pulsioni tribali contro il paziente miglioramento del lavoro e della cultura.
Dunque, i termini “universale” e “universalismo” si bloccano in gola a volte e poi si sbloccano. Vuoti di ogni contenuto, portati nelle multiple controverse sull’identità che non risparmiano il mondo dell’arte, quello che resta ancora della tradizione moderna è spesso messo in modo in modo incantatorio. Il lessico dell’universalità si perde allora in un’immensa boscaglia, come l’ubriaco del romanzo di Amos Tutoula – consolidando i codici dell’odio o ripetendo, in modo più o meno cosciente, dei tropi identitari. Nella boscaglia, gli esseri e le cose sono “presi per quello che vogliono essere anche se non lo sono affatto”iii
Lo sappiamo: il nostro tempo è un tempo di recupero e deviazione: le parole, masticate e rimasticate in bocca, finiscono per significare esattamente ciò contro cui sono state create. In Francia gli usi attuali del termine “universalismo” sono spesso contorti, deviati. Va detto che non bisogna mischiare il senso letterale e il suo uso. Ma quello che bisogna mostrare è piuttosto come gli usi, molteplici e contradditori dell’idee dell’universalismo spiegano chiaramente il loro senso, ugualmente multiplo. Da un punto di vista etico, l’universalismo è una nozione intrinsecamente conflittualeiv, che sostiene i discorsi d’unità e le parole della dissociazione. E nel mondo dello spirito, per quanto esso sia immateriale, gli antagonismi scoppiano facendo un bel rumore, si politicizzano e a volte si smarriscono. Bisogna, dunque, seguire i passi del bevitore di vino di palma e aprire la strada in una boscaglia molto densa – “foresta senza fine” v, dove “l’universalismo” a volte sbanda e deraglia testimoniando una violenza e una speranza politica che si affrontano ma non dialogano.
Universalità e inospitalità
“Alors nous nous mettons à marcher à travers une nouvelle partie de la
brousse, mais songez qu’il n’y avait pas la moindre route qu’on puisse suivre à travrs cette partie de la brousse”vi
Nella boscaglia del “museo universale”
L’idea di universale o di universalismo sono state sistematicamente chiamate in causa per opporsi alle conclusioni del rapporto Savoy-Sarr sulla “restituzione” nel novembre del 2018, commissionata dal presidente della Repubblica Emmanuel Macron che difendeva il ritorno nei suoi luoghi di origine del patrimonio africanovii. Si rimprovera alla politica della restituzione di mandare in frantumi un ideale, quello del “museo universale”, eterotopia secondo cui le culture possono entrare pacificamente in dialogo, in cui lo spirito umano può ricomporre se stesso lui e la sua unità.
Nel 2002, 19 istituzioni museali dell’emisfero nord avevano redatto la “La Dichiarazione sull’importanza e il valore dei musei universali”viii. Questa dichiarazione vuole produrre una voce comune per i musei. Vuole “reiterare nel mondo moderno l’importanza dei musei universali, destinati a costituire uno spazio emblematico di una nuova età dei Lumi, capace di permettere un’analisi culturale comparata delle opere d’arteix”. Geoffrey Lewis, ricorda sulle pagine di Les Nouvelles de l’ICOM (Consiglio Internazionale dei Musei) nel 2004, che questa dichiarazione aveva come obbiettivo “garantire soprattutto l’immunità di fronte alle richieste di restituzione di oggetti appartenenti alle collezioni di questi museix”. L’argomento universalista venne dunque utilizzato a titolo preventivo per bloccare eventuali richieste di restituzione delle opere d’arte.
L’interesse di questa dichiarazione supera largamente il dibattito sulla restituzione e mostra una certa idea dell’universale che segue almeno cinque linee guida. Infatti, facendo del museo la casa dell’universale dove le culture scoprono la loro singolarità entrando in relazione le une con le altre, tale dichiarazione si rifa una intera storia filosofica e intellettuale che si radica nell’ideale enciclopedico e di emancipazione promosso dall’Illuminismo. Ancora, il “museo universale” muove tutta una filosofia estetica: un museo è universale perché garantisce “un’ammirare universale”, delle opere d’arte. Tali musei sono gli unici a permettere una vera esperienza estetica – quella del bello, cioè “quella che piace universalmente senza alcun concetto” (Kant). In questa dichiarazione, l’idea di universale si sviluppa ugualmente a livello assiologico: essere esposti in questi musei è una garanzia di valore che assicura l’iscrizione degli oggetti e delle opere nel patrimonio mondiale dell’umanità. Ma, l’universale del “museo universale” possiede una doppia connotazione quantitiva e qualitativa: è universale ciò che garantisce l’accessibilità ai più grandi numeri. Lo spazio del “museo universale” permette una messa a disposizione di opere a un vasto pubblico che viene da tutto il mondo i. Infine, “l’universalità” del museo universale deve comprendersi in senso etico, cioè politico: questi spazi si rivolgono non “agli abitanti di una sola nazione” (francesi, beninesi…) ma ai cittadini del mondo.
Il “museo universale” definito uno spazio particolare di questo mondo, è l’ingresso alla totalità del mondo: aggiorna l’unità del mondo mettendo la diversità degli elementi che le compongono in relazione. Bisogna intendere qui come “mondo” un tutto che si concretizza attraverso di una molteplicità di culture, di produzioni umane, di forme di vita. L’universalità del museo universale non è astratta, è inscrizione e accoglienza: essere di questo mondo, aperto alla sua totalità, senza eccezioni. Il museo universale presenta una concezione incarnata dell’universalità che riposa sul principio del cosmopolitismo.
Questo principio deve essere inteso in due modi: da un punto di vista politico esso promette l’unità del mondo contro l’arbitrarietà delle frontiere e dei nazionalisti assassini che lo dividono e lo fratturano. Da un punto di vista morale, anche metafisico, riprendendo l’analisi di Valérie Gérard, esso descrive l’uomo come cittadino del mondo, precisamente perché è del mondo, di questo mondoxi.
Il museo universale è accoglienza, difende una ospitalità viva. Limitarla sarebbe una violenza. Questo museo apre le sue porte a tutti gli esseri umani, a tutti gli oggetti, a prescindere dalla propria provenienza. Inoltre ricorda ciò che è proprio dello stesso divenire umano: il passaggio, la traversata: essere del mondo è innanzi tutto e un modo essenziale, circolare essere in movimento, non essere più determinato e bloccato dalle frontiere della patria, dello Stato nazione che producono esclusione.
Nella dichiarazione del “museo universale”, l’enunciato dell’universale non è prodotto da qualcuno che lo estende indebitamente generalizzando i suoi attributi a tutto il resto. Esso è sostenuto da un “particolare” che si apre a tutti gli altri particolari e che accettando di esserne “toccati”, li riceve senza distinzione.
I luoghi della inospitalità
Confrontata con questa idea di universalità la richiesta di “restituzione” delle opere d’arte rubate durante l’epoca coloniale sembra come una doppia regressione morale e politica. Restituire, vuol dire restituire alla patria, restituire il particolare al particolare. Opporre l’etica dell’ospitalità, dinamiche di ripiegamento: Consolidare l’arbitrarietà delle frontiere. Feticizzare contro il movimento, i luoghi di origine: e peggio, soddisfare i narcisismi feriti di coloro che insistono sulle cose vecchie della memoria, della legge delle armi e del passato coloniale.
La maniera in cui l’idea di universalità si declina in una dichiarazione di 2002 sul “museo universale” è stata esplicitamente ripresa ritradotta e riattivata per squalificare, dopo l’uscita del rapporto Savoy-Sarr, tutta la politica della “restituzione patrimoniale”. Quest’ultimo elemento è stato giudicato reazionario – perché oppone degli affetti sciovinisti e revanscisti alla coscienza trasparente dell’unità del mondo. Si compie così un salto nella irrazionalità in cui le immagini e gli argomenti si ritorcono, vanno in frizione, si combinano in modo diverso, brandendo fantasmi e simulacri, alimentando pregiudizi e divagazioni.
Nella boscaglia del romanzo di Amos Tutoula, il bello sconosciuto si trasforma in un cranio saltellante e i morti camminano al contrario. Come nella Ville-des- Mortsxii qualcosa sembra comunque funzionare al contrario in questo uso dell’universale che si oppone sistematicamente al principio della restituzione. E effettivamente il sofismo si vede chiaramente. Restituire il patrimonio africano rubato che si trova in Francia all’Africa, vuol dire toglierlo al mondo. Cioè, l’Africa, e in quanto parte del mondo restituire il patrimonio africano agli africani vorrebbe dire toglierglielo! Perché loro sono di questo mondo ma non hanno il potere di fare mondo, cioè non hanno la possibilità di accogliere la totalità del mondo senza eccezioni, di essere un luogo particolare dove il più diverso diventa il più familiare e di affermare l’unità del mondo mettendo ognuno dei suoi elementi in relazione.
In Africa la totalità del mondo non è accessibile per i cittadini del mondo, essa non può essere ammirata, né contemplata dai più. Le ricchezze africane stesse sono svalutate, non significando molto oltre il dolce commercio delle arti. Perché l’Africa, per eccellenza è il continente dell’inospitalità.
Gli argomenti contro la restituzione del patrimonio africano e gli usi dell’universale che vengono invocati producono tutta una retorica contro la restituzione. Ma fabbricano allo stesso tempo un discorso sull’Africa che decreta l’inospitalità del continente. È impossibile per l’Africa fare mondo e di reinserirsi come parte di questo mondo.
Tali discorsi ripetono le parole che attraversano quello che il filosofo Valentin-Yves Mudimbe ha chiamato “biblioteca coloniale”xiii. Questi discorsi hanno contribuito a forgiare la matrice concettuale a partire dalla quale una certa idea di Africa si è venuta a formare: l’Africa è il negativo dell’Europa e per essere salvata da se stessa, dalla sua irriducibile differenza deve essere convertita nel suo altro, l’Occidente. Nel museo universale gli oggetti africani sono salvati dalla loro particolarità diventando un riflesso della totalità del mondo, una volta rilocalizzati.
Questo universale che si oppone alle dinamiche di restituzione definisce un universalismo che segna, secondo Souleymane Bachir Diagne, “la posizione di colui che dichiara universale la sua particolarità dicendo: io ho la particolarità di essere universale!xiv” Ci sono dunque particolarità universali e altre il cui il destino è di rimanere particolari. E succede che le prime decidano le sorti delle seconde.
Al cuore di questo uso dell’universalismo, si insinua una figura retorica: una sineddoche molto speciale in cui la parte è presa per il tutto. Le parti “Occidente/Europa/Africa” significano il tutto, ossia il “mondo”. Ed è questo uso sineddotico dell’universale che va contestato. Confrontata con esso, l’idea della restituzione può ricevere un senso filosofico radicale, che eccede la questione degli artefatti e degli oggetti. Restituire è contestare l’uso sineddotico dell’universale. Restituire vuol dire restituire il mondo al mondo- cioè riconoscere che tutte le parti del mondo hanno il potere di fare mondo.
Non si tratta di semplici formule, che potrebbero suonare come tautologiche. Queste proposte devono piuttosto ricordare i numerosi dibattiti che si sono tenuti in Francia per più di mezzo secolo e che si iscrivono nel contesto della decolonizzazione o della storia francese postcoloniale. Dibattiti che hanno proposto delle concezioni opposte dell’universale, dove si gioca, ogni volta, il modo di pensare l’unità del mondo, concorrenti ed in eterno conflitto.
Restituire il mondo al mondo
“Alors nous entrons dans le pays de mon pére et aucun
Être nuisible ou méchant n’apparaît de nouveauxv”
Parigi, 1956
La storia del dibattito sull’universale è stata raramente messa la centro del discorso in Francia. Chi la conosce un po’ ha l’impressione che ogni nuova polemica sull’identità si ostina ancora una volta a ritornare testardamente su problemi che sono stati già risolti.
Un po’ più di sessant’anni fa hanno avuto luogo a Parigi una serie di dibattiti in cui le concezioni espresse dell’universale furono esplicitamente messi a confronto. Alla Sorbona, nel 1956 in occasione del primo Congresso internazionale degli scrittori e artisti neri.
La conferenza di Bandung del 1955 costituiva un evento politico per tutti i popoli non europei. Il congresso del 1956 fu uno dei grandi eventi culturali che precedettero solo di qualche anno le indipendenze africane. Il 1956 fu il “congresso mondiale degli uomini di cultura”xvi
Bisogna leggere – ascoltare – il discorso di apertura di questo congresso, pronunciato da Alioune Diop, organizzatore di questi incontri e fondatore della rivista e delle edizioni Présence Africaine. Sembra una risposta fatta cinquanta anni prima alla “Dichiarazione sull’importanza dei musei universali” del 2002. Vi si opera uno smontaggio mirato dell’uso sineddotico dell’idea di universale. Vorrei soffermarmi su quattro elementi di quel discorso.
La sua dimensione istituzionale, innanzi tutto. Alioune Diop lo ricorda all’inizio della sua allocuzione: è alla Sorbona che si riunisce il mondo intellettuale nero. Parigi “alto luogo del pensiero e dell’arte dell’Occidente”; la Sorbona “simbolo della ragione” xvii. La Sorbona è quell’istituzione dove si possono confrontare le ragioni, e mettere gli universalismi a confronto.
La sua portata politica, poi. Il mondo intellettuale nero alla Sorbona parla di cultura. Difendere la cultura nera vuol dire “respingere l’assimilazione” cioè un “tipo di relazione umana imposta dalla colonizzazione xviii” ma non significa “isolarsi nella propria cultura.” Un’espressione del poeta Léopold Sédar Senghor permette di riassumere questa idea di Alioune Diop in una breve e pungente affermazione: “Assimilare non essere assimilatixix”. Rifiutare l’assimilazione a un modello dominante che si presenta come universale non vuol dire difendere fughe scioviniste, vuol dire configurare altri luoghi dell’ospitalità, dell’accoglienza- e che questi luoghi non debbano essere necessariamente europei.
L’ultimo punto permette di sottolineare il compromesso culturale di questo testo. Per “rifiutare l’assimilazione” bisogna assicurare, ci dice Diop, “la diffusione delle opere della cultura nera”- questa diffusione è la migliore occasione di futuro che si potrà dare a tali culture: “ La nostra eredità, codificata e modificata secondo il volere dei musei e dei curiosi dell’Europa, non fa per noi. I classici di un popolo hanno bisogno di essere riattualizzati e quindi ripensati e reinterpretati da ogni generazione. Deve essere così anche per noi.xx” Diffondere l’eredità negra, per revitalizzarla vuol dire uscire dal modo in cui essa è “codificata e mummificata” dalle istituzioni museali e dagli etnologi. La rivisitazione culturale reclama, di diritto, la restituzione. Il discorso d’apertura del congresso del 1956 non parla di restituzione, ma opera una critica implicita all’universalità del “museo universale”. Una tale istituzione non permette il dialogo fra le culture perché chiude la porta a molteplici giochi di interpretazione. Lo scultore e pittore nigeriano Ben Enwonwu presente anche lui al congresso del 1956, costruisce la sua comunicazione sul tema delle opere d’arte rubatexxi. Come Alioune Diop insiste sul problema dei luoghi di interpretazione: non è data a nessun africano la possibilità di giudicare, produrre una rete di significati originali per l’arte arte africana xxii. Inoltre se l’esposizione delle opere d’arte africane nei musei europei ha permesso di revitalizzare l’arte europea, la mediocrità delle opere d’arte europee che circolano nel continente africano, non hanno permesso nientexxiii.
Bisogna insistere sull’ultimo punto del discorso di Alioune Diop. Per lui la rivitalizzazione delle culture nere ferite dalla “notte coloniale” deve rendere possibile “l’esplorazione di un nuovo universo nato dall’incontro dei popoli xxiv”. Questa revitalizzazione sostiene un nuovo discorso dell’universale che entra in conflitto con l’idea che l’Europa possa essere il soggetto privilegiato della sua enunciazione. L’idea di restituzione, condizione di tutta la revitalizzazione culturale, dà corpo a una nuova enunciazione dell’universale formulata dal mondo nero e che risponde all’imperativo politico della decolonizzazione.
Ai propositi di Diop, in questo discorso di apertura del congresso del 1956, fanno eco le multiple voci della negritudine durante tutta la seconda metà del secolo XX. La portata teorica e poetica di questo pensiero sta nel fatto di aver stanato la sineddoche che abita al cuore degli enunciati della cosiddetta universalità universale e di averne previsto gli effetti politicixxv. Ingaggiandosi con queste altre voci le correnti della negritudine hanno partecipato all’elaborazione di una nuova enunciazione dell’universale, diverso dalle posizioni dominati imposte ai mondi non europei.
Così, le affermazioni della differenza e dell’identità dei pensatori della negritudine fecondano la separazione. Vogliono soprattutto moltiplicare i luoghi di enunciazione dell’universale. Identificare degli altri luoghi di questo mondo che possono costituirsi come spazi di ospitalità e di accoglienza per la totalità del mondo, senza eccezione.
Lì dove la colonizzazione significa l’accaparramento del mondo da parte di alcuni, l’imperativo della decolonizzazione esige di restituire il mondo al mondo, di rendere a ogni parte del mondo la possibilità di accoglier il mondo, di fare mondo. “Assimilare, non essere assimilati” come corollario dell’atto di restituire.
Conflitti dell’universale, conflitti dei mondi
Sulla scena del congresso del 1956, dedicato alle questioni culturali nere, si racconta un’altra storia dell’universale. Non si oppone all’oscurantismo di rivendicazioni particolari alla coscienza luminosa dell’unità del mondo, ma mette in conflitto delle concezioni politiche e etiche dell’universale che sono irriducibili: può sembrare certo paradossale. Per capire bisogna riprende l’analisi di Balibar che parte dalla lettura di Hegel.
Non esiste alcuna enunciazione dell’universale che sia “assoluta, staccata dal suo luogo, dal suo tempo, dalle sue condizioni dunque dalle sue determinazionixxvi”. L’universale non esiste al di fuori della sua enunciazione. A tal titolo l’enunciazione dell’universale è sempre frutto di un discorso specifico che lo limita. E limitandolo, produce esclusione, l’esclusione delle altre specificità. L’enunciazione dell’universale è sempre conflittuale. E i pensieri neri che si sono espressi al congresso del 1956 restituiscono corpo a questa forma conflittuale delle enunciazioni dell’universalità. L’universale conquistatore del progetto coloniale da una parte, forzando la sua assimilazione via totalità del mondo, dall’altra l’universale parassita dei corpi neri che sono stati piazzati ai margini del mondo.
Da un punto di vista politico, le voci che conquistano e le parole parassite non producono le stesse narrazioni, e non partoriscono la stessa divisione del mondo. La filosofa Eleni Varikas mostra come l’esperienza del paria, del “scarto del mondo” cioè di colui a cui si contesta la possibilità di dire qualcosa riguardo la totalità del mondo perché non conta niente in questo mondo, mette in luce “una doppia genealogia dell’universalismoxxvii” quella che racconta la storia di una dominazione e quella che descrive una dinamica di speranza, richiamano alla trasformazione effettiva, materiale e storica di un luogo specifico del mondo o della sua totalità. Questa doppia genealogia specifica due modi opposti di far mondo. In un caso, il potere di far mondo vale per qualcuno escludendo altri. Dall’altra vale per tutti e non vuole escludere nessuno. In entrambi i casi, le enunciazioni dell’universale non comunicano e producono sempre, anche se coscienti della loro insufficienza radicale, propri gesti di esclusione. Da un punto di vista politico, l’enunciazione dell’universale può essere pacifica, ma non è purificatrice né pacificata.
Invocare un discorso che vuole essere universale esige sempre che ci si chieda “ Chi sta parlando?”. Non si può specificare il contenuto di un discorso con pretese universaliste senza identificare il soggetto, il luogo, la carne, la storia a partire del quale esso è enunciato. A tal titolo, sulla questione dell’universale, si trova sempre quello dell’identità cioè quello dell’identificazione del soggetto che si racconta e che prende l’iniziativa di cominciare il discorso e configurare il mondo. Le riflessioni sull’universalismo si scontrano su una difficoltà costitutiva insormontabile: tutti gli universali sono sempre limitati dalla situazione che li enuncia.
Prendere la misura di questa difficoltà vuol dire comprendere che la questione politica del nostro tempo non può essere : “Bisogna riabilitare l’universalismo moderno contro l’assalto delle identità?” Ma più semplicemente, e molto più radicalmente “In che mondo vogliamo abitare?”.
i Amos Tutoula L’Ivrogne dans la brousse (1952), trad. di Raumond Queneau, Gallimard, coll. “Continents noirs”, 1953 (ristampa “ L’Imaginaire”, 2006), p.115.
ii L’universalismo a cui mi riferisco è l’universalismo moderno, nato dalla tradizione razionalista cartesiana dell’età dei Lumi: la concezione secondo la quale esitono tratti irriducibili della vita e dell’esperienza umana indipendenti da ogni condizionamento locale e culturale, che implica il carattere necessariamente “universale” dei nostri imperativi morali e giurudici. Così in questo articolo l’universalismo è definito come il discorso dell’universale. Cfr. Bill Ashcroft, Gareth Griffiths e Helen Tiffin, Post-Colonial Studies. The Key Concepts, Londra/New York, Routledge, 2007(2°edizione) p.216-218.
iii Achille Mbemebe , Critique de la raison nègre, Paris, La Découverte, 2013, p.204.
iv È precisamente ciò che mostra Balibar rifacendosi a Judith Butler, in Des universels. Essai et conference, Paris, Galilée, 2016.
v A. Tutoula L’Ivrogne dans la brousse, op.cit., p.29
vi Ibidem, p.58
vii Felwine Sarr e Bénédicte Savoy, Restituer le patrimonie africain, Parigi, Philippe Rey/Seuil, 2018. Possiamo rifarci ai seguenti articoli: Jean-Jaques Ailagon, “Les musées ont vocation à conserver leurs oeuvres d’art africaines” Le Figaro, 23, nov. 2018; intervista di Stéphane Martin, “ Il y a d’autres voies que celles de la restitution” Le Figaro, 25 nov.2018; Nicolas Baverez “Malraux, reviens!”, le Point, 11.dic.2018.
viii Il testo integrale di questa dichiarazione, seguito dalle riflessioni di alcuni formatari, è disponibile su Les Nouvelles de l’ICOM, vol.57, n°1, 2004 (www.icom-musees.fr)
ix Christopher R. Marshall, “ Faire crier les pierres: les musées contemporains face au défi de la culture” in Diogène, n°231, 2010/3, p.53.
x Geoffrey Lewis, “ Le musée universel: un cas à part”. Les Nouvelles de l’ICOM, vo.57, n°1, 2004, p.3.
xi Valérie Gérard, “ Être citoyen du monde”, Tumultes, n.24, 2005/1, p.13-14.
xii A. Tutoula, L’Ivrogne dans la brousse, op., cit, p.108 e ss.
xiii Valentin-Yves Mudimbe The Idea of Africa: Gnosis, Philisophy and the Order of Knowledge (1988), Londra, James Currey, 1994, p.xii “The intelectual spacecovered outlines Africa as a paradigm of difference(…) Exploring travelers’ and explorer’s writings, at the end of the nineteenth century a “ colonial library” begins to take shape. It represents a body of knowledge constructed eith the explicit purpose of fathfully translating and deciphering the African Object. Indeed, it fulfilled a political project in which, supposedly, the object unveils its being, its secrets, and its potential to a master who could, finally, domesticate it”
xiv Souleymane Bachir Diagne et Jean-Loup Amselle En quête de Afrique(s). Universalisme et pensée décoloniale. Paris, Albin Michel, 2018, p.68-69.
xv A. Tutoula, L’Ivrogne dans la brousse, op., cit, p.133.
xvi Alioune Diop, “ Discours d’ouverture” Présence africaine, “ Le 1° Congrés intrenational des écrivains et artistes noir” , n°3-4-5, 1956, p.11.
xvii Ibidem, p.11
xviii A.Diop “ Discours d’ouverture”, art. cit, p.14.
xix Léopold Sédar Senghor, “ Vues sur l’Afrique noire ou assimiler, non être assimilés” 81945) in Liberté 1, Négritude et humanisme, Paris, Seuil, 1964, p.39-69.
xx A.Diop “ Discours d’ouverture”, art. cit, p.16.
xxi Ben Enwonwu, “ Problems of the African artist Today” in Présence Africaine, op. cit. p.174-178.
xxii Ibidem., p.177: “White Europeans are the best judges of their own art, and no one argues about this fact, the African does not even have a chance to plat an equally important part in judging his art, let alone his justifiable claim if he choses to make one, that he is the best judge of his own art”
xxiii Ibid. , p.176: “ And while Europe can be proud to possses some of the very best sculptures from Africa among museums and private collectors, Africa can only be given the poorest exemples of English art particulary, and the second-rate of other works of art from Europe.”
xxiv A.Diop “ Discours d’ouverture”, art. cit.p.15.
xxv Gary Wilder, Freedom Time: Negritude, Decolonization, and the Future of the World, Durham/Londra, Duke University Press, 2015.
xxvi É. Balibar Des universels, op. cit., p.76.
xxvii Ibid., p.181. Voir Eleni Varikas, Les Rebuts du monde. Figures du paria. Paris, Stock, coll. “ Un ordre d’idées”, 2007.
*pubblicato sulla rivista Esprit, gennaio e febbraio 2020.
Questo articolo è disponibile gratuitamente grazie al sostegno dei nostri abbonati e delle nostre abbonate. Per sostenere il nostro progetto editoriale e renderlo ancora più grande, abbonati agli Asini.