Lotte per l’ambiente in Italia. La difesa dell’ambiente, contro ingiustizia e crimine

Torniamo sulla difesa dell’ambiente, compreso quello urbano, con un giro dell’Italia e dei movimenti che si oppongono ai tentacoli dell’economia industriale portatrice di una visione estrattiva del territorio, spregiativa di quel che c’era, incurante di cosa ci sarà e incapace di relazioni non contabili. Sono troppi i territori fuori controllo dove vige un regime di eccezione. Scriviamo qui dell’Ilva di Taranto (Ruggeri), del tavolo Basta Veleni di Brescia (Ruzzenenti), del petrolio dell’Eni al Centro Olio Val d’Agri in Basilicata (Manes), con considerazioni sull’insostenibile disordine tecnologico che pervade anche l’architettura (Borrella) sintomo di un gran vuoto culturale. Non scordiamo le lotte in Salento contro il gasdotto trans-adriatico (No Tap), in Sardegna per bonificare le ex miniere del Sulcis-Iglesiente-Guspinese, i poligoni di Maddalena e Quirra e per la riconversione della fabbrica di bombe Rwm di Domusnovas, in Veneto i comitati No Pfas (le sostanze per-fluoro alchiliche, impermeabilizzanti) contro la Miteni di Trissino che ha inquinato un’area tra Verona, Vicenza e Padova abitata da 350mila persone, a Genova i portuali che denunciano il traffico di armi e in Piemonte il processo in Corte d’assise (con giudici popolari) a novembre contro il padrone dell’Eternit, lo svizzero Stephan Schmidheiny accusato di omicidio plurimo con dolo per la morte di 392 lavoratori e cittadini di Casale Monferrato.
Nonostante la pervasività dell’utopia tecnologica e delle teorie liberiste che si propongono come strumenti di egualitarismo, le diseguaglianze invece di ridursi sono in crescita in Italia e nel mondo per l’insostenibilità del sistema corrente di affari. Da un punto di vista ecologico, le pratiche dell’economia e la ricerca del profitto distruggono le risorse naturali fonti di cibo, acqua e biodiversità. Da un punto di vista sociale, il sistema impone lo sfruttamento di molti a vantaggio di pochi causando ulteriori diseguaglianze, povertà, sradicamento e disperazione. E poiché le disparità sociali ed economiche si traducono sempre in diseguaglianze della salute, fortemente determinata dalla salubrità dei territori abitati, le iniquità in termini di diritto a un ambiente sano non costituiscono solo una parte rilevante delle ingiustizie odierne ma ne sono anche l’indicatore più evidente.
I dati che correlano salute e ambiente in Italia sono raccolti nei rapporti epidemiologici sui residenti nei 45 Siti di interesse nazionale (Sin) per le bonifiche, compresi Taranto, Brescia e la Val D’Agri, seguiti dai ministeri dell’ambiente e della salute: 319 comuni, 6 milioni di abitanti. In queste porzioni di territorio dove si concentrano i movimenti ambientalisti le condizioni sanitarie sono peggiori, la mortalità maggiore, l’attesa di vita inferiore rispetto alle aree più ricche e pulite della nostra stessa nazione, così come accade nei paesi in via di sviluppo rispetto a quelli industrializzati. Infatti, in molte regioni dei paesi industrializzati si stanno ricreando condizioni sociali e ambientali analoghe a quelle che si pensavano rimaste solo nei paesi poveri. I rischi occupazionali per la salute, per esempio, sono un serio problema nei paesi poveri per il trasferimento delle industrie tossiche dai paesi ricchi. Accade in Asia con gli acidi e i metalli delle manifatture elettrotecniche, in Africa con le estrazioni minerarie, in Sudamerica con i pesticidi nei latifondi e in Europa orientale con le acciaierie e l’industria chimica: una mappa dei luoghi dove ancora si lavora l’amianto definirebbe i confini e il livello della democrazia nel mondo. In Italia comunque i dati epidemiologici dei lavoratori di Taranto, così come le condizioni abitative e di lavoro dei braccianti agricoli, dal Piemonte alla Sicilia, sono chiari: alcune statistiche su incidenti e malattie sono sovrapponibili a quelle dei paesi dove lavoro e ambiente non sono tutelati. L’Ilva di Taranto, per esempio, è la fabbrica che ha avuto il maggior numero di incidenti mortali nella storia recente europea.
L’unione delle lotte contro le ingiustizie sociali e ambientali in regioni, paesi e perfino continenti diversi è quindi una necessità per comprendere le dinamiche nocive del capitalismo industriale, oltre che per riconoscere difficoltà comuni e socializzare problemi che oggi colpiscono popolazioni indifese e che ci sembrano lontane ma che a breve rischiano di raggiungere anche luoghi di vita e di lavoro più vicini e che crediamo tutelati. Il pregiudizio e l’ignoranza crassa o dissimulata (in una parola: i negazionismi) che sorreggono l’economia estrattiva, per esempio, sono nemici comuni così come la propaganda sostenuta dalla neolingua qui denunciata da Borella, che è la stessa nei paesi ricchi e in quelli poveri. Fra le poche risorse che possiamo condividere è importantissima la rivendicazione del diritto a rappresentazioni della realtà partecipate e condivise, comprese soprattutto le rappresentazioni delle verità scientifiche.
Il Greenwashing per esempio, la comunicazione che censura gli impatti sull’ambiente delle innovazioni industriali vantandone addirittura la sostenibilità – sempre e solo in ottica tecno-riduzionista – ha assunto risvolti preoccupanti anche per la libertà di pensiero e di parola. Non è solo una pratica pubblicitaria. Nel mondo scientifico la sottovalutazione del conflitto di interessi degli esperti a cui si affidano i decisori delle amministrazioni pubbliche e private si accompagna alla sottovalutazione sistematica dei rischi per esposizione ad agenti patogeni diffusissimi vecchi e nuovi, dal glifosato – il principale inquinante al mondo per quantità – alle polveri sottili, alle emissioni elettromagnetiche a elevata frequenza e intensità.
L’unione delle lotte contro le ingiustizie sociali e ambientali in regioni, paesi e perfino continenti diversi è quindi una necessità per comprendere le dinamiche nocive del capitalismo industriale
A questa sottovalutazione di rischi in realtà noti e verificabili – per esempio con le monografie liberamente accessibili della Iarc di Lione, l’agenzia demandata dall’Oms alla valutazione di cancerogenicità delle sostanze chimiche e degli agenti fisici – fa riscontro la richiesta di un surplus di evidenze cliniche o epidemiologiche per accertare le cause di malattie che colpiscono migliaia di lavoratori e cittadini da Taranto a Brescia e dalla Sardegna a Trissino, a Torino dove a gennaio 2020 l’allarme per l’inquinamento atmosferico è stato di colore viola dopo l’arancione e il rosso, a indicare una situazione fuori controllo.
Nei paesi poveri il problema non si pone perché lì non esistono registri né strumenti di diagnosi delle malattie da inquinamento lavorativo o ambientale e anche laddove esistono, come nei paesi ricchi, è impossibile identificare in modo univoco la causa di quelle malattie perché si tratta sempre di patologie degenerative, tumorali o disfunzionali che ammettono più concause e meccanismi di sviluppo. L’epidemiologia mostra le correlazioni quando esposizioni e malattie sono proporzionali, ma nei procedimenti giudiziari gli avvocati dell’industria chiedono di dimostrare il nesso di causalità fra l’esposizione ad agenti nocivi e l’insorgenza di una malattia non su base statistica ma per ogni singolo caso. Questa revisione anacronistica delle malattie del progresso – per le quali da decenni la scienza parla di sinergie, bio-accumulo, rischio cumulativo per esposizione a più fonti di rischio – sminuisce l’importanza del lavoro epidemiologico e di anamnesi professionale delle vittime, seguendo la strada di una malaccorta modernità che scorda l’essenziale e si sofferma sul secondario pur di negare le proprie responsabilità. Si affermano così tendenze interpretative per cui la posizione maggiormente espressa e condivisa dalla comunità scientifica poiché definita su base statistica e non su princìpi di causa effetto inequivocabilmente determinabili implicherebbe l’impossibilità di predisporre azioni di prevenzione da un lato e di condanna dall’altro per chi continua a esporre lavoratori e cittadini ad agenti nocivi.
Le manipolazioni dei dati tecno-scientifici, come nel caso delle emissioni dei motori a scoppio messe in atto da Volkswagen e altri produttori di autoveicoli, sono così diffuse da costituire un emblema della nostra epoca. In laboratorio è sempre possibile ottenere dati rassicuranti sulla non tossicità delle sostanze analizzate, se questo è l’obiettivo. Si possono diluire le dosi di sperimentazione, si possono diminuire le capacità di selettività e risoluzione per l’analisi dei contaminanti nel cibo e nell’ambiente, oppure si possono ridurre i tempi di osservazione empirica al di sotto dei periodi minimi d’insorgenza della patologia dimostrando la completa atossicità di un prodotto, ma solo a breve termine.
I doppi standard delle multinazionali – caritatevoli nei paesi ricchi, spietate in quelli poveri – sono stati e rimangono diffusissimi.
Intanto, come sottolinea Ruzzenenti, le grandi industrie sono ben rappresentate nei tavoli tecnici nazionali e internazionali che si occupano di politiche ambientali e in quelle sedi difendono i propri interessi. Sovente non lo fanno direttamente ma attraverso autorevoli rappresentanti del mondo scientifico che proprio grazie alle frequentazioni di quelle stesse aziende possono vantare esperienza con i prodotti o le produzioni in esame, mentre rivendicano la propria imparzialità grazie ad affiliazioni accademiche. Al contrario, gli scienziati e i tecnici dei movimenti devono superare pregiudizi legati da un lato al loro schierarsi come attivisti dalla parte di tutti i cittadini, dall’altro all’essere scienziati poveri, senza riconoscimenti, premi o commesse milionarie ricevute da agenzie, consorzi o industrie del settore.
Analogo il discorso su comunicazione e formazione. Il cane sputafuoco a sei zampe dell’Eni e gli astronauti come Luca Parmitano rappresentano il paradosso di questa situazione. Come possano educare alla sostenibilità una delle maggiori multinazionali per produzione di risorse fossili, che investe pochissimo in energie rinnovabili, assieme a veterani dell’aeronautica militare che orbitano in navicelle colme di strumenti costosi ed energivori è inspiegabile. Tuttavia l’Italia, prima nazione al mondo a introdurre l’educazione ai cambiamenti climatici a scuola, grazie ad accordi con il ministero dell’istruzione avrà tali astronauti come testimonial e insegnanti di sostenibilità formati da Eni. Quest’ultima, fra l’altro, è indagata a Potenza, come scrive Manes, per smaltimento illecito di rifiuti e manomissione dei dati sull’inquinamento, e a Milano assieme a Shell per corruzione internazionale aggravata per l’appalto del blocco petrolifero Opl245 acquisito in Nigeria 2011.
I doppi standard delle multinazionali – caritatevoli nei paesi ricchi, spietate in quelli poveri – sono stati e rimangono diffusissimi. Nella seconda metà del Novecento in seguito alle normative emanate negli Usa per la difesa dell’ambiente dall’Epa (Environmental Protection Agency) e del lavoro dall’Osha (Occupational Safety and Health Administration) alcune multinazionali – non tutte – trasferirono le produzioni nocive (soprattutto amianto e chimica) in paesi allora meno protetti come l’Italia e le loro sedi in paesi meno accorti come la Svizzera, per mantenere i profitti inalterati. Purtroppo nei paesi poveri non si sono limitate alla sola difesa legale dei loro interessi. L’esortazione apostolica Querida Amazonia firmata da Francesco dopo il sinodo sull’Amazzonia dell’ottobre 2019 è esplicita: “Alle operazioni economiche, nazionali e internazionali, che danneggiano l’Amazzonia e non rispettano il diritto dei popoli originari al territorio e alla sua demarcazione, all’autodeterminazione e al previo consenso, occorre dare il nome che a loro spetta: ingiustizia e crimine (…) le autorità danno via libera alle industrie del legname, a progetti minerari o petroliferi e ad altre attività che devastano le foreste e inquinano l’ambiente (…) trasformano indebitamente i rapporti economici e diventano uno strumento che uccide”. Secondo Global Witness ogni anno sono centinaia gli ecologisti uccisi nel mondo. Filippine, Colombia e India sono i paesi più a rischio dove – come recita l’esortazione apostolica – “è abituale ricorrere a mezzi estranei a ogni etica come sanzionare le proteste e addirittura togliere la vita agli indigeni che si oppongono ai progetti, provocare intenzionalmente incendi nelle foreste, o corrompere politici e gli stessi indigeni”.
Non si stupiscano gli attivisti se le loro iniziative e denunce non trovano spazio sui media e sono invece criminalizzati. Secondo Victoria Tauli-Corpuz relatrice Onu per i diritti delle popolazioni autoctone “i difensori dell’ambiente e delle terre, di cui un numero importante appartiene a popolazioni autoctone, sono considerati spesso come dei terroristi o dei criminali. Ciò perché osano difendere i loro diritti o per il semplice fatto di abitare in territori ambiti da altri”. Nei paesi democratici il silenzio è imposto con leggi che incarcerano anche chi si limita a manifestazioni di disobbedienza o nonviolente come Nicoletta Dosio in Valsusa contro il Tav e Turi Vaccaro a Niscemi contro il Muos. Nei paesi non democratici si passa alle intimidazioni e alle violenze. Cinquant’anni fa le lotte ambientaliste negli Usa erano infiltrate da agenti del governo e si doveva dimostrare di essere puliti per partecipare a seminari con militanti di Brasile, Haiti, Argentina, Zaire o Indonesia – paesi in cui la Cia sosteneva governi dittatoriali – per il timore che qualcuno potesse colpire loro o le loro famiglie. La difesa dell’ambiente, dunque, va fatta con i più poveri e non può essere slegata dalla difesa della democrazia che, fondandosi sulla solidarietà e sulla partecipazione, per rafforzarsi deve produrre di certo non ingiustizia e crimine ma, a sua volta, solidarietà e partecipazione.