L’ordine del discorso
Non crediamo né ci auguriamo che Nervi d’acciaio. Toccata e fuga dal disturbo bipolare del trentaquattrene piacentino Carlo Castelli diventi un caso letterario come è successo in passato per altre testimonianze, rese attraverso lo strumento della narrazione, di condizioni psichiche “diverse” o, secondo la comune accezione, disturbate. La caratteristica principale dei “casi letterari” (lo abbiamo visto ultimamente con testi di ben più vasta eco) è quella di subire, solo in virtù di questa etichetta imposta dall’industria culturale, un annacquamento del proprio messaggio, a vantaggio di esigenze di ben altro segno rispetto all’urgenza di verità, di comprensione o di bellezza che spinge certi autori alla scrittura.
Fortuna o intuizione, il caso ha voluto che Castelli proponesse il proprio dattiloscritto a una casa editrice, Stampa alternativa, che da tempo pubblica coraggiosamente (sebbene in chiave rigidamente antipsichiatrica) saggi, racconti e pamphlet su ciò che la psichiatria chiama malattia mentale, sul sapere medico che l’ha studiata e modellizzata, sulle pratiche che hanno preteso di curarla, insieme a testimonianze che hanno avuto il coraggio e trovato le parole per raccontarla dall’interno. Come quella drammatica dello scorso anno Tanto scappo lo stesso, di Alice Banfi e ora appunto Nervi d’acciaio, resoconto del tentativo dell’autore, faticoso e probabilmente più doloroso di quanto la cifra ironica lasci trapelare, di imparare a gestire le fasi di modificazioni percettive che ciclicamente lo “vengono a visitare” dall’età di diciotto anni e che gli psichiatri hanno diagnosticato come disturbo bipolare dell’umore.
“Quello che si è, in breve viene come sostituito. Non è che si sta cambiando, si è già cambiati. Il difficile sta nell’avvertire quando il proprio colore sta sfumando e cercare di mantenerlo, anche se il nuovo colore in cui stiamo trasformandoci è sicuramente più brillante, almeno per un po’. Spesso è difficile, perché in generale ci si sente meglio, più attivi e pronti. Ma l’organismo, spinto a livelli di energia sempre più alti, non riesce a sostenere tale ritmo e dopo un periodo che può essere di giorni o mesi, di colpo collassa”. Se alcuni aspetti dell’alterazione percettiva sono descritti dall’autore con tratti di innegabile fascinazione, non altrettanto si può dire della fase di abbassamento improvviso dell’umore che ne seguirà, caratterizzata da grumi di ansia e angosce paralizzanti. Il letto e il sonno, più come “particella di morte” che come terapia, sono le uniche possibilità contemplate in quelle settimane. È impressionante la ricorsività (e si comprende perché qualcuno possa parlare di “sintomi”) che si può notare nella vita di persone diverse che presentano simili condizioni psichiche: la vita e la casa vanno in malora, le relazioni si disfano, il lavoro e i progetti di vita si sbriciolano…
Ma il racconto di Castelli testimonia, senza illusioni di guarigioni salvifiche, della possibilità di evoluzioni diverse. Più simile a un romanzo di formazione che a un “diario della malattia”, Nervi d’acciaio rende conto con un’immediatezza, un’ironia e un’aderenza all’esperienza che contagiano, dell’appassionante percorso che ha portato il suo autore a sedimentare un metodo (fatto anche di sacrificio e costanza, e non solo della sregolata genialità che certa retorica antipsichiatrica invidiava ai matti) che gli consente di modulare e con ciò gestire il capitale di energia che le fasi di innalzamento portano con sé. Mentre all’inizio la curiosità, l’angoscia e una certa propensione speculativa, lo spingevano a cavalcare questa energia, oggi racconta di come si lasci attraversare da questi stati psicotici cercando di cogliere quello che di positivo possiedono, in termini di creatività, energia, pulsione di libertà. Ma senza spingere l’organismo a livelli esasperati di energia, contenendo in questo modo la fase depressiva.
La particolarità del racconto di Castelli è di non essere né un diario pubblico della propria malattia, né una testimonianza antipsichiatrica. È innegabile che una certa critica alla cultura, alle istituzioni e agli strumenti di sostegno e cura della psichiatria istituzionale sia, in controluce, costantemente presente. Se non altro per il fatto che Nervi d’acciaio descrive la liberazione, grazie a un lungo e personalissimo lavoro di mentalizzazione di cui la scrittura è parte fondamentale, da medici, ricoveri ospedalieri e psicofarmaci. Ma è una critica portata dall’esterno dello scontro ideologico. “Un buon medico, esperto, che vi sia simpatico, con cui vi troviate a vostro agio, inizialmente vi potrà aiutare. Non prendete per buono tutto quello che dice lui, ma non credete neanche che sia tutto giusto quello che pensate voi”. L’ironico distacco dal flusso dei suoi pensieri e da tutto quello che la cultura psichiatrica ma anche una certa retorica antipsichiatrica propongono come interpretazione dell’origine biologica, sociale e filosofica della malattia è una delle strategie esistenziali (e stilistiche) che Castelli ha adottato per affrontare, nella maniera più indolore, le fasi acute della sua condizione in vista di un equilibrio che gli consentisse una vita piena e appagante.
Nonostante sia facilmente intuibile il carico di sofferenza per l’isolamento, i ricoveri coatti, l’obnubilamento delle terapie farmacologiche, lo sfarinamento inevitabile di molti progetti di vita, Castelli non sceglie uno stile drammatico per descrivere il proprio faticoso percorso di liberazione. Uno degli aspetti più coinvolgenti del racconto è anzi l’attrazione e un alto grado di immedesimazione che riesce a generare nel lettore per il bisogno di verità e di libertà contenuto nei suoi comportamenti furiosi, bizzarri e imprevedibili: le cacce notturne, i bagni invernali nei torrenti gelati della Val Trebbia, le scorribande nei boschi, il corpo a corpo con i messaggi ermetici dei suoi pensieri… Giornate che, improvvisamente e in una sorta di climax ascendente, stravolgono la routine del quotidiano in un vortice di vitalismo che l’autore impara a sgonfiare nella sua dimensione autolesionista e ansiogena, ma ad accettare e a bere fino in fondo nella sfida che sembra proporgli: condurlo in angoli remoti, misteriosi e inesplorati del suo io profondo e dei legami che lo uniscono al mondo. Nel mezzo, abbagli, sbandate, ricoveri ospedalieri e un traumatico, inaspettato ricovero coatto che i genitori scelgono, in una delle fasi di alterazione, come extrema ratio. Da lì e dal senso di ingiustizia subita il desiderio consapevole di percorrere una strada diversa che non fosse solo quella indicata dalla cultura medica e farmacologica.
L’accusa maggiore che si possa fare al movimento che ha portato alla riforma psichiatrica è principalmente di aver fatto nel tempo scelte più di potere che di sapere. Alcuni dei rappresentanti del movimento e gran parte degli allievi che nel movimento si sono formati hanno preferito, nell’ottica del fine che giustifica i mezzi, lottare per posizioni di controllo, cristallizzando le conquiste teoriche e i modelli di intervento in un complesso ideologico che fosse compatibile con le posizioni di potere occupate nei servizi ospedalieri e territoriali. Ma grazie all’efficacia, in alcuni passaggi anche stilistica, con cui Castelli conduce il lettore all’interno delle alterazioni percettive e delle rappresentazioni che in quei momenti la sua mente offre del mondo, viene da pensare che un’altra caratteristica ha rischiato di sterilizzare le intuizioni, epistemologiche e non solo politiche, della psichiatria critica, ovvero una certa sottovalutazione dei contenuti psichici delle esperienze psicotiche. Che fossero visti come manifestazioni creative, geniali, a volte invidiabili ma per ciò sempre inintelligibili o al contrario come “sintomi” che la psichiatria “di regime” pretendeva di nullificare attraverso farmacoterapie, l’effetto non era spesso troppo diverso: passare sopra la persona (i suoi desideri, i suoi sogni, le sue paure, le sue aspettative) nella diagnosi della sua condizione e nella pianificazione dei progetti di cura e sostegno. Le esperienze psicotiche, sembra ipotizzare Castelli, saranno a volte lucide e sanguinanti visioni e, insieme, scompensi biochimici, unità di misura di dinamiche distorte di percepire la realtà e di entrare in comunicazione con essa, ma sono sempre anche modalità cariche di significato della nostra comune, a volte inestricabile, “condizione umana”.
Bisogna riniziare a parlare, anche nell’ambito della psichiatria italiana (che pure, grazie alla rivoluzione metodologica e operativa basagliana, ha avuto sinora margini di azione molto più ampi di quella di altri servizi sanitari europei) di “Sistema”, di “bio-potere” e di “ordine del discorso”. E bisogna riniziare a farlo in opposizione alla ventata di restaurazione con cui un’ottusa semplificazione dei conflitti sociali (non solo di destra) affiderà sempre più spesso a psicologi e psichiatri il compito di controllare e disinnescare le contraddizioni reali alla base dell’emarginazione e dell’esclusione.
Ma questa volta sarà importante tornare a parlare di “Sistema”, dal basso delle relazioni, delle esperienze e delle rappresentazioni di chi soffre o di chi, per professione o per scelta, sta vicino a chi soffre. È esperienza comune, per chi ha attraversato con cuore vigile, da paziente, operatore, familiare o amico, ospedali, comunità e centri psichiatrici, la sensazione di uno scontro lacerante fra necessità necessarie e necessità imposte (e disabilitanti). Se si esce dal campo astrattamente teorico e si declinano le proprie visioni, i propri paradigmi teorici in funzione dell’organizzazione di sistemi efficaci di sostegno e di cura, è opera complicatissima discernere con intelligenza fra le due. È innegabile che molte delle persone che normalmente vi transitano necessitino di un certo bisogno di contenimento, isolamento e spesso anche di cure farmacologiche, ma è altrettanto evidente che lo stesso contenimento, lo stesso isolamento (che diviene per forza ghettizzazione e stigma) e le farmacoterapie sono spesso e in misura proporzionale causa di ulteriore sofferenza quando non di definitiva cronicizzazione. Uno scontro di “necessità” che non si risolverà però tutto nella lotta e nella critica alla “struttura”, al sistema para-manicomiale di molti reparti ospedalieri, alla perversità dell’istituzionalizzazione della cura e dell’aiuto, ma che saprà indicare percorsi di cura e assistenza più efficaci e al tempo stesso “verità” cliniche ed epistemologiche più profonde a condizione che, come scrive Castelli sulle pagine di questa rivista, prenda le mosse dalle contraddizioni reali degli spazi, delle relazioni, delle rappresentazioni e della qualità del tempo garantiti a chi soffre.
Perché la malattia mentale esiste. Ma è al tempo stesso e soprattutto (e le cose non si contraddicono) uno dei nostri possibili “modi” di essere al mondo. Come lo sono la sofferenza, la disabilità e la malattia organica. Ribaltare il rapporto metaforico che nell’immaginario comune (e nelle pratiche istituzionali) lega la malattia mentale a quella organica, e considerare piuttosto la seconda della stessa “specie” della prima potrebbe forse migliorare il sistema, culturale e istituzionale, che offriamo a chi soffre e desidera, nel massimo grado di autonomia e libertà, imparare a gestire e alleviare la propria sofferenza.