L’onda lunga delle pedagogie nere
Questo pezzo di Grazia Fresco Honegger è uscito sul n.1 nell’estate del 2010.
Alice Miller, psicoanalista zurighese, dopo aver lavorato per lunghi anni con gli adulti, intorno al 1980 decise di uscire dalla Società Psicoanalitica Svizzera e di chiudere con la professione, convinta ormai che “la teoria e la pratica psicoanalitica mascherino o rendano irriconoscibili le cause e le conseguenze dei maltrattamenti infantili, visti come fantasie quando invece sono fatti concreti[1]”. Una disciplina – la psicoanalisi – importantissima ma che, secondo le sue esperienze, finisce per giustificare il male che si infligge all’infanzia. Trasformata in una sorta di psicologia selvaggia, è entrata dappertutto, volgarizzata in modo tentacolare tanto da produrre danni vistosi che sono sotto gli occhi di tutti, anche se disinvoltamente ignorati.
All’epoca la Miller coniò il termine pedagogia nera per definire la diffusissima persecuzione da parte degli adulti di ogni elemento vitale dei bambini nei primi anni della loro crescita: annientamento dei sentimenti, sadismo, punizioni corporali, disprezzo, ingiustizie, erotismo precoce, paure, minacce, promesse mancate. Una pedagogia che genera mostri, un pozzo nero di odio sconfinato (il pozzo del dolore, lo definiva Janov). Se ne può avere un’idea leggendo libri come I quasi adatti di Peter Hoeg, ambientato nella nobilissima Danimarca degli anni Settanta o vedendo film come Magdalene, di Peter Mullan, la storia umiliante di una ragazzina o poco più, stuprata e chiusa contro la sua volontà in un convento irlandese e qui seviziata ulteriormente. Un caso come i tantissimi di cui proprio la cronaca di questi giorni sta restituendo una verità atroce e insieme misconosciuta.
Quanto al nostro paese “la persecuzione del bambino”, come la definisce la Miller, si consuma tra famiglia, scuola ed extra-scuola, ammorbata da una cultura cinica o all’opposto permissiva – di fatto un “Arrangiati!”. Non a caso, forse, il suicidio è diventato anche in Italia la seconda causa di morte tra gli adolescenti, senza escludere i suicidi “nascosti”, quelli dei ragazzi che si distruggono nelle droghe o sulla strada. Un quadro veramente angosciante.
C’è però una pedagogia più morbida, ma altrettanto insidiosa. Per similitudine la potremmo definire la pedagogia bianca: quella del “fallo per amor mio”, o “per amore di Gesù”o “i bravi bambini non fanno…, non dicono …”. Ipocrisie a non finire, lodi e voti, monete false! Anche di questa occorre diffidare. Può darsi che da noi sia diminuita la feroce pedagogia del passato, ma non i buonismi cinici e tanto meno le botte, tuttora in uso nelle famiglie. Ogni madre lo dice: “Gli ho dato un bel paio di sculaccioni, così ha smesso di rompere”, comportamenti imparati sulla propria pelle da piccoli che riemergono incontrollabili quando i figli sembrano provocarci.
Non meno grave e mistificante è il fatto che oggi i bambini siano diventati un prodotto, un oggetto da esibire, bambole infiocchettate da mostrare per far vedere che bravi genitori siamo. I figli degli immigrati appaiono diversi, ancora bambini, ancora autentici: conservano in genere la loro originalità. Il bambino occidentale, nel giro di due, tre anni si adegua e diventa un personaggio di facciata, tirannico, che fa girare sul suo dito tutta la famiglia. Come può accadere?
Ignoti e ignorati
Lo straniamento comincia alla nascita: appena nati i bambini vengono accolti come alieni – salvo essere misurati e “tassonomizzati” sotto il profilo sanitario – esseri sconosciuti di cui nessuno interpreta i segnali non verbali. Gli adulti non hanno più termini di confronto: spesso il primo bambino con cui una donna, nata in una famiglia mononucleare entra in rapporto, è il suo. Eppure ci sono numerosissime ricerche sui bisogni dei più piccoli: Mahler, Winnicott, le etologhe che hanno studiato gli oranghi, e Bowlby con la teoria dell’attaccamento e prima di loro Anna Freud, per non parlare di Montessori. Saperi che non entrano in conoscenze diffuse che riconoscano al neonato le sue specifiche esigenze, che potremmo riassumere essenzialmente in: contatto e continuità. Ovvero come essere preso, trasportato, tenuto, allattato, lavato, posto da subito in un mondo di parole, ma senza cambiamenti improvvisi, né perdita di vitali punti di riferimento nei ritmi quotidiani.
E invece che facciamo al neonato, seguendo la prassi medica e familiare più diffusa? Lo separiamo immediatamente dalla madre: il bambino le viene mostrato per pochi minuti, in ore comode all’ospedale, e poi via, lontano, nella nursery, dove gli diamo acqua e zucchero – prima ancora del prezioso colostro – oppure gli mettiamo il tappo in bocca imprigionandolo così forse per anni in una “protesi consolatoria” che gli impedirà di cercare da sé tutta una serie di esperienze e di trovare egli stesso le forze per orientarsi e guardare il mondo.
Abbiamo perso lo sguardo sul bambino piccolissimo, fragile eppure potente, mentre è da lui che bisogna partire per capire cosa fare. Anche i corsi pre-parto sono spesso un inganno: di nuovo non c’è passaggio tra famose ricerche di alto livello e pratica quotidiana. Si danno informazioni, ma non si ascoltano le emozioni più profonde, non si rispettano i delicati processi che emergono nel mettere al mondo un figlio e che lo riconoscono da subito come persona sensibile e in grado di comunicare.
Partire dal bambino è fondamentale: è lui che con i suoi silenzi e i suoi gesti minimi dice di sé, mentre la medicalizzazione a oltranza annulla di fatto ogni intesa. L’endogestazione è conclusa, ma l’esogestazione continua dopo la nascita, fin verso il nono mese. C’è tanto da costruire, ed è lui che lo fa, un passo dopo l’altro. Noi lo trattiamo invece come un bambino grande o ne forziamo la crescita. Ci disinteressiamo della sua natura sensoriale, della delicatissima rete di legami predisposta dalla fisiologia del parto/nascita che costruisce con la madre e con il padre il suo benessere di base. Il nostro è ormai uno dei paesi a più alta percentuale di parti cesarei (con picchi impressionanti al sud) dove sembra completamente tramontata, dietro gli orpelli del “tutto sicuro” in ospedale, la tradizionale lettura dei bisogni di un bambino piccolo, che chiede una cosa sola: sua madre e il latte di sua madre.
Fin dalla gestazione
Ma facciamo un passo indietro, ripartiamo dalla gravidanza. Un’amica racconta: “Sono alla seconda gravidanza e non sono mai stata meglio. Il mio medico mi prescrive ogni mese un’ecografia e le analisi, perché devo farle? Lui mi risponde: “Non si mai!”. Così finisco per preoccuparmi: aspetto un figlio come se avessi un tumore”.
Eccesso di cure costoso e non rassicurante: bisogna sapere tutto, prevedere tutto? Eppure nessuno può garantire un parto esente di imprevisti.
Un’altra madre dice: “Il bambino nasce verso Pasqua, ma il medico deve andare a un congresso, allora lo faccio nascere prima perché voglio che ci sia lui” e così ossitocina a dosi da cavallo per mettere in moto il travaglio che diventa molto doloroso. Ma niente paura: rimediamo con l’epidurale. Nel 2007 una ministra ha decretato “epidurale per tutte”. Più che giusta l’accessibilità gratuita per ogni partoriente, ma nella prassi degli ospedali questo ha significato l’anestesia come nuova routine, somministrata senza distinguo, senza dare informazioni[2]. (Molti anestesisti preferiscono tacere sulle possibili conseguenze o le negano a priori). Qualche caso di paralisi temporanea? “Poca cosa”, qualcuno potrà pensare “se è temporanea, dopo pochi giorni passa”. Ma cosa significa per quella madre ritrovarsi in carrozzella e non essere pronta per il suo bambino e per i primi incontri che si costruiscono in quelle stesse ore?
Fin dagli inizi mettiamo ostacoli alla salute mentale del neonato e al legame con lui. Non manca chi vuol far passare l’idea che il parto con epidurale sia un evento fisiologico: molte associazioni femminili, consultori, ginecologhe vi si oppongono, ma il potere medico è fortissimo e dominato da una mentalità efficientista e maschilista. Si è anche scoperto che l’epidurale rallenta i ritmi fisiologici del neonato almeno nella prima settimana di vita, se non oltre: l’anestetico evidentemente funziona a livelli profondi con esiti difficili da scandagliare.
Un evento al femminile
La condizione stessa del parto/nascita andrebbe riconsiderata: in gran parte delle culture umane – dagli Inuit del grande Artico alla Nuova Caledonia in Polinesia – c’è sempre un gruppo protettivo di donne intorno alla partoriente, qualcuno che aiuta a trovare la posizione più opportuna e i cibi più adatti. Un affare di donne, da sempre. Avrà avuto un senso questo nella storia dell’umanità. Oggi però è finito tutto in mani maschili. Negli anni Ottanta si sono incoraggiati i padri a presenziare al parto, ma poi si è vista la loro frequente fragilità emotiva: assistere a una nascita non è esperienza tanto leggera, bisogna avere una fortissima unione di coppia per viverla con equilibrio e per affrontare con la dovuta pacatezza i mesi che seguono. L’impatto di una vita a due sconvolta da un neonato è tale che spesso già entro i primi due anni del figlio la coppia si divide. Dopo aver caldeggiato la presenza dei padri alla nascita dei figli lo stesso Michel Odent, il grande ostetrico francese, torna a dire: “L’intimità è più importante della conoscenza”. Perché la donna ha bisogno di silenzio e di tale concentrazione su di sé per star meglio nel travaglio da non poter sopportare troppe persone intorno, tanto meno doversi far carico delle emozioni del proprio compagno. Questo per sottolineare quale delicatezza richiede il nuovo legame a tre che si va costruendo.
I vissuti del bambino
Dalla pace dell’utero in cui non doveva neanche mangiare, protetto da rumori e spostamenti, arriva qui, in mezzo al chiasso del mondo, luci da sala chirurgica, freddo rispetto ai 38° costanti del corpo materno, e non è avventura da poco. Deve re-imparare tutto per sopravvivere; ha le forze per farlo, ma le utilizza tanto meglio per quanto più l’ambiente è accogliente, se risponde a ciò di cui ha bisogno: il contatto stretto e prolungato con la madre e la prima suzione immediata.
Ci sono documentari bellissimi girati in Svezia, in cui emerge chiaramente come il neonato, ancora a cordone attaccato, messo sopra il corpo della madre, caldissimo dopo tanto sforzo, strisciando arrivi al capezzolo da solo, attratto dall’odore e dal calore del seno, come qualunque cucciolo di mammifero.
E invece si continua a prenderli per i piedi, a sculacciarli e dopo pochi istanti a lavarli strigliarli e messi in una culla lontano dalla madre. E della sua grande fatica non resta traccia, né memoria.
Non tutti sono accolti così per fortuna loro. Molte donne scelgono la propria casa come luogo ideale per “mettere al mondo” il prezioso e forse unico figlio o cercano ospedali in cui si può partorire “come a casa”, senza mettere fretta né dare farmaci. Ci sono – rare da noi, ma esistono – case di maternità dove si ricostruisce l’assistenza al femminile intorno alla donna in travaglio e si tiene lontano tutto quanto sa di medicalizzato a oltranza, secondo tempi che sono quelli davvero naturali della donna e del bambino. Però la maggioranza dei parti avviene in un’ottica chirurgica, estraniante dal proprio sentire, uno dei primi attacchi alla persona, alla nascente sensibilità dei genitori: mettere al mondo un bambino è un atto talmente potente, legato alla sfera sessuale, all’opposto di un onnipresente intervento medico a volte necessario, ma molte volte superfluo e prevaricante: è l’anestesia dei sentimenti, in nome della salute, ovviamente.
La cura della prole negli umani
Il modo in cui il bambino nasce influenza il modo di essere madre: se la donna mantiene una sua posizione attiva e consapevole durante il parto/nascita, è più probabile che questa continui anche dopo; se subisce gli eventi, seguirà più facilmente una separazione rapida e precoce dal figlio, l’allontanamento, l’indifferenza. Ci saranno nonne, baby-sitters o la gentile badante venuta di lontano… A tre mesi – solo tre! – il bambino verrà portato al Nido[3], anche se impiega almeno otto, nove mesi per memorizzare dentro di sé i lineamenti della madre: tempi lunghi e passaggi graduali li costruisce ritrovando giorno per giorno e tante volte al giorno il viso di lei, quella voce, quelle mani, quei gesti…Viceversa i piccoli che “passano per tante mani” subiscono esperienze dissestanti: si adattano, ma rivelandosi molto presto reattivi, con disturbi di sonno, facilità al pianto, forme varie di aggressività, poca attenzione nel gioco… Questi comportamenti si notano soprattutto nei Nidi in cui i bambini vengono “inseriti” senza passaggi graduali, dove mancano oggetti di gioco significativi e perfino l’educatrice cambia giornalmente o a caso, nella convinzione che il bambino, esposto a continui imprevisti, diventi più socievole, più “pronto”. In altri Nidi si propone invece un addestramento giornaliero precoce, con immagini e parole (anche in inglese) che passano velocemente e che il piccolo – sempre nel corso dell’esogestazione – deve memorizzare e ripetere: figure, numeri, luci, colori, lettere.
La pedagogia nera arriva sin qui, negando al piccolo competenze e capacità autoregolative – primo passo verso l’indipendenza – costringendolo ad essere ciò che non è, con anticipi di ritmo, di memorizzazione, di interessi. Solo un’ideologia dissennata può affermare che i cambiamenti continui siano un fattore positivo per i piccoli e che fin dal primo anno debbano seguire programmi standard di apprendimento, uguali per tutti.
Fidarsi dei bambini
Faccio parte di un gruppo, il Centro Nascita Montessori di Roma[4], che dalla fine della seconda guerra a oggi continua a lavorare dalla parte dei neonati e dei loro genitori: tutte le nostre esperienze, confermate da ricercatori seri e da educatrici non improvvisate, confermano la ricaduta positiva di tutti gli aspetti di attenzione e di rispetto e la stabilità delle esperienze nei primi tre anni, fondamentali per un buon inizio di vita e per il resto dell’esistenza.
Il neonato è immediatamente in grado di comunicare le proprie esigenze ed è sempre attivo, ma bisogna avere un occhio allenato per ripartire dalla sua lentezza, che noi adulti, afflitti da ritmi esasperati, non riusciamo ad apprezzare. Il bambino va molto adagio anche nel fare le sue cose, ripete azioni appena scoperte molte volte e ripetendole si concentra: una lenta, lentissima trasformazione, da seguire con empatia piuttosto che strattonandolo perché si sbrighi a crescere.
Specialmente il primo anno di vita è un periodo in cui il bambino deve essere seguito con questa costante attenzione alle sue manifestazioni più semplici, più minute, sostenendolo con calma paziente. Invece, appena raggiunge l’indipendenza motoria, ecco scattare il terribile modello scolastico: la rotazione degli adulti, i programmi, i giudizi, i premi e a due anni e mezzo può già entrare nella scuola infantile. Catene di montaggio. E il piccolo che ha bisogno del rapporto uno a uno? Niente da fare, non gli è consentito: vengono chiamati e portati in gruppo al bagno, a mangiare, a sporcarsi con i colori – pensando che quest’ultima sia un’attività espressiva – o a giocare con il lego. Se un bambino tenta a volte di giocare per proprio conto, è subito diagnosticato ai genitori come “uno che non si integra”, che “ha tendenze asociali”. Ecco la psicologia selvaggia, venduta in saldo!
Questo panorama è disperante anche perché non riconosce la diversità da un bambino all’altro, non accetta le originalità individuali e di conseguenza l’omologazione è precocissima. Quando si sente la richiesta “più Nidi” che arriva da tante parti, ci si dovrebbe preoccupare seriamente. Nessuno dice come debbano essere questi luoghi, se di ammaestramento o di relazione, di accelerazione o dei tempi su misura, del chiasso perenne – dal Nido alle superiori non si fa che urlare – o della quiete, fervida di attività che i piccoli stessi hanno scelto.
Qualche punto fermo
Nei Nidi in cui queste siano scelte prioritarie, i precoci segnali di disagio, il movimento incontrollato, la mancanza di concentrazione, le aggressività se compaiono a inizio di frequenza, via via si attenuano in un rinnovato benessere. Il clima generale, la libera scelta delle attività aiutano il bambino a trovare un nuovo equilibrio: l’ambiente nel suo insieme e tramite relazioni non aggressive si fa terapeutico, tanto che emergono già in bambini di 18-20 mesi segnali di aiuto reciproco spontaneo, aumento dell’attenzione individuale e di partecipazione attiva a semplici proposte di piccolo gruppo.
Fattore concomitante di un tale cambiamento è la necessità, accanto a tutte le opportunità predisposte, di dare anche alcune regole. In maniera gentile, stando vicino al bambino, mostrandogli come portare un vassoio perché non si rovesci, accettare una breve attesa o un riordino come un bel gioco in cui tutte le cose usate tornano al loro posto.
A volte c’è chi chiede “come si tengono” i bambini se ognuno fa cose diverse e la risposta è appunto nel fatto che se l’adulto è sicuro, non cambia le piccole regole e predispone in modo delicato tutto l’occorrente, i bambini “si tengono da soli”.
Questa cosa gli adulti oggi l’hanno completamente disimparata: lasciano libertà totale, senza confini di sorta, salvo intrattenerli di continuo: c’è un bisogno di autoaffermazione in adulti rimasti adolescenti, che annulla il ruolo rassicurante e contenitivo che è proprio della funzione genitoriale. Ci sono madri che dicono con un certo compiacimento: “Ha solo due anni ma vedesse cosa ci combina in casa!” Anche sotto questo profilo si nota come la cura della prole sia scomparsa dalle relazioni con i più piccoli, come incapacità di dare ai bambini un senso protettivo del limite e disorientandoli moltissimo. Uno psichiatra francese indicava questa necessità primaria con due “elle”: il Legame e la Legge, purché dati entrambi con intelligenza affettuosa e capacità di vedere. Il legame e la legge, la madre e il padre, l’abbraccio caldo e il binario da percorrere agli inizi della vita. In fondo basterebbe poco.
[1]Il dramma del bambino dotato, Bollati Boringhieri 1982. Si vedano anche le altre sue opere, davvero illuminanti circa “la grande menzogna”: La persecuzione del bambino. Le radici della violenza, 1987; Il bambino inascoltato, 1989. Presso l’editore Garzanti L’infanzia rimossa, 1990; La fiducia tradita, 1991.
[2] Si legga, promosso da IRIS, Il dolore è nel parto, un testo curato da Giovanna Bestetti e Anita Regalia, Mimesis Edizioni 2007: oltre una riflessione generale sul dolore nel parto, vi si discutono le conseguenze dell’analgesia sulla madre e sul bambino.
[3] Le attuali difficoltà economiche non giustificano l’ingresso in massa di bambini così piccoli in istituzioni collettive. I danni provocati a questa età sono permanenti anche se a lungo poco visibili, mentre a problemi così estesi si potrebbero trovare soluzioni creative tali da assicurare la necessaria protezione.
[4] Il CNM ha sede in via G.B. Benedetti 9 a Roma, tel. 06.807 7050, centronascita@alice.it.