L’infinito discorso sulla scuola
Negli ultimi mesi del 2017 sono usciti due libri di cui si è parlato molto e a cui si continua a far riferimento nei discorsi sulla scuola. Uno è della storica Vanessa Roghi, dedicato a Don Milani (La lettera sovversiva. Da Don Milani a De Mauro, il potere delle parole, Laterza 2017) e l’altro è dello scrittore, giornalista e insegnante Christian Raimo, sulla scuola e le sue recenti trasformazioni (Tutti i banchi sono uguali. La scuola e l’uguaglianza che non c’è, Einaudi 2017). Sono entrambi libri non specialistici, di lettura semplice ma di ragionamento complesso, che mirano a costruire una visione di scuola pubblica, democratica, inclusiva.
Roghi da storica ricostruisce filologicamente il tempo, le condizioni e le ragioni dello scritto più celebre di Don Milani, illuminando la portata culturalmente e creativamente dirompente dell’utopia politica di una scuola per tutti.
Raimo si impegna come critico culturale militante a descrivere le attuali politiche scolastiche nelle loro cornici ideologiche. Nella prima parte del libro riporta dati ed esemplifica la situazione, dal determinismo sociale delle carriere formative (la scuola superiore che farai dipende da quanto hanno studiato i tuoi genitori) al business delle ripetizioni (se vai bene al liceo dipende da quanti soldi hai). Analizza l’urgenza di vincolare sempre più strettamente la formazione scolastica alla domanda del lavoro; cerca di spiegare l’ossessione valutativa per quello che è: gli effetti sulla vita scolastica del generale progetto di governamentalità attuale, che tramite la rendicontazione classificatoria e normativa mette in carico ai soggetti l’esecuzione di procedure stabilite altrove, per esiti redistributivi impari. Le attribuzioni di valore che produciamo solerti con procedure di rendicontazione valutativa standardizzate, e in base alle quali crediamo di scegliere il meglio e come agire, non sono neutre né trasparenti né efficienti: perché soprintendono a definire quali risorse e possibilità siano disponibili per quali soggetti e imprese, senza passare per luoghi di verifica e discussione politica in cui si rielaborano bisogni, scopi e presupposti. Non sono concetti semplici perché non viviamo in un mondo semplice. Raimo non lo dice esattamente così ma ricostruisce le idee sottese ai recenti documenti di politica scolastica, attribuendole alle loro fonti, spesso connesse a think-tank di gruppi finanziari ed economici dominanti. Nella seconda parte del libro tratta infatti di “competenze” e dell’alternanza scuola-lavoro, elementi decisivi del processo di trasformazione istituzionale delle scuole. Sistematizza e rende disponibili una serie di riflessioni importanti, prodotte nell’ambito della ricerca accademica o del pensiero critico, sul concetto di competenza e analizza come è stata applicata l’alternanza scuola lavoro, sulla base di quali accordi e con quali parole è stata descritta nei documenti ufficiali. Tutto realmente utile.
In chiusura, nel capitolo finale intitolato La gioventù assurda, Raimo si appella alla necessità di un discorso sulla scuola rivoluzionario, consapevolmente politico e problematico. E scrive con un tono diverso.
Di fatto si può essere grate al libro di Raimo: argomenta chiaramente, riporta dati e fonti, il suo discorso è attendibile, concreto, fondato su un lavoro di studio che permette di sapere di cosa si sta parlando, schierato sulla parte che riconosco. Eppure un senso di inquietudine, di insoddisfazione mi rimane. Forse perché l’urgenza della lotta tollera a stento persino il conforto della dimostrazione esemplare; perché siamo assetate di discorsi sulla scuola che resistano a essere tritati e ridetti in chiacchiera nei circoli del consumo cultuale, nelle nicchie di status o gusto.
Ci serve un discorso pedagogicamente impegnato, attivo, collegato all’azione. Parziale, imperfetto, goffo, possibilmente collettivo ma utile. Abbiamo bisogno di una teoria dell’azione, di racconti di pratiche che si facciano riflessione. E anche di incontri e di scambi: discorsi che siano utili a fare gruppetti, ad animare reti per agire, per correggere, per rivedersi, chiarendosi gli impliciti politici personali etici e tecnici delle scelte. Sempre sapendo che da un’altra parte, non lontano, c’è chi fa altrettanto ma diversamente, un po’ meglio un po’ peggio ma nella direzione simile.
Le leggi che abbiamo sono a volte buone e a volte pessime, si tratta ora di prenderle e usarle, da ostinate formiche secchione, senza mai diventare però fanatiche o complici. Nella scuola per chi vuole fare c’è tanto spazio ma non tutto il fare va bene. Mandare avanti la macchina in sé non interessa, sono gli effetti che avvengono attorno e dentro chi ci premono, su cui tocca interrogarsi di continuo assieme per rivedere le pratiche, le idee e le parole da spendere. Senza illudersi mai, cercando di crederci. Vorremmo discorsi che ci orientino e lascino ispirate ma disponibili ai cambi di rotta che domandano questi tempi di rapide trasformazioni.
Contraddizioni, compromessi e scelte
La scuola è posto assurdo, necessario, concretissimo per tutte le ragazzine e i ragazzini, che la frequentano assieme dai 3 ai 14 anni. Parlo della scuola del primo ciclo, quella del cosiddetto zoccolo comune degli apprendimenti, la scuola di base che dovrebbe dare a tutti l’accesso ai mezzi culturali per definirsi e giocarsi socialmente differenze, possibilità, desideri.
Che dovrebbe essere, che potrebbe essere ed è sempre ancora altro.
È la stessa di allora – quella di Pinocchio e de I ragazzi della Via Pal – ed è totalmente diversa, imparagonabile. È un posto dove nulla conta davvero e dove a volte conta tutto. Pare sempre che si faccia un po’ finta a scuola ma i suoi marchi si imprimono sulla carne e sui destini senza che nessuno paia mai farci i conti fino in fondo. È ancora la scuola del paternalismo, dell’ignoranza, dell’approssimazione, della frustrazione, della cecità. È classista e gerarchica, serve a selezionare e catalogare per il potere. È la scuola del malessere di docenti, genitori e studenti, tutti contro tutti, dominata e travolta da burocrazia e ansia valutativa. È un posto protetto, che a volte salva la vita. È a volte un luogo sorprendente di incontri, di creazioni, di esperienze e relazioni. Meno male che c’è.
La scuola pubblica è una istituzione democratica imprescindibile, sede di una battaglia culturale fondamentale perché ogni volta che scegli cosa insegnare e come farlo coltivi una visione del mondo e produci effetti formativi, orientati o meno a sostenere il nuovo e determinate possibilità collettive.
Ma forse oggi di fatto gli effetti formativi decisivi sono prodotti altrove, con altri supporti e su altri canali. Cosa conta la scuola in questo mondo?
Eppure i corpi ci stanno, per ore, e nulla sostituisce la trasmissione di sapere nella relazione con figure adulte, tutti assieme responsabilizzati nella partecipazione a una comunità organizzata. E allora davvero la scuola è cura ed è politica, si decidono lì gli usi dei saperi e abbiamo bisogno di visioni, utopie, strumenti e tecniche e scambi.
No è un’esagerazione. È un’istituzione pubblica statale implicata da vincoli di governo, se ci lavori come dipendente statale la tua è una prestazione regolata. Se ci tieni, se sei capace, sii efficiente. I ruoli in istituzione ti producono loro, per norma tradizione e spazi. Quello che devi fare è scritto, ci sono conoscenze che bisogna raggiungere: al massimo un’insegnante può farsi campione di tecniche didattiche.
Come se ci si potesse dispensare dal chiedersi cosa si impara, per cosa e in quale modo, in quali condizioni e con quali valori. Come se non ci fossero documenti e disposizioni che chiedono l’insegnamento di una cultura democratica, della pace e dell’uguaglianza. Formare a cosa? Inglese e computer per tutti, insegnati con il rispetto e l’ascolto, considerando le differenze e i bisogni di ciascuno. È questo la scuola? Sì anche, sebbene normalmente non accada.
Quindi l’insegnante non può essere né un visionario né un’attivista, né uno studioso né un impiegato o un operatore sociale; né un drago della performance didattica e democratica né un’intellettuale brillante e lassista in classe che ha trovato un posto comodo per leggere e studiare e pazienza se deve avere a che fare – se fa come – le colleghe infami o ignoranti. Che casino.
Possiamo solo cominciare a pretendere tutti di più le une dalle altre, a domandare e a coinvolgerci in ricerche continue sui presupposti culturali e politici, sugli indirizzi d’azione, sulle tecniche e le pratiche. Oltre le dicotomie e gli spiazzamenti.
Chi decide cosa si fa? Appelli, decaloghi, orientamenti e altre follie
Proviamo a vedere ad esempio alcuni parole spese negli ultimi due tre mesi sulla scuola e nella scuola, nei discorsi pubblici o nei documenti di governo.
Non molto dopo l’uscita dei libri di Raimo e di Roghi, negli ultimi giorni del 2017, vengono pubblicati i dati ISTAT sulla lettura in Italia nel 2016. Rispetto all’anno precedente è ulteriormente in calo il numero stimato di coloro hanno letto almeno un libro in un anno. Statisticamente si è tornati ai livelli di quindici anni fa, restando tra gli ultimi Europa. Se si guardano i dati scorporati per regioni, cioè considerando la nostra eterna questione meridionale, risulta che siamo un pugno di lettori fortissimi in tutto il Paese, tanto che probabilmente ci sappiamo e ci leggiamo tutti a vicenda. Per due settimane sulla stampa e sul web non si parla di altro e il tasso di retoriche è strabocchevole. Del resto non è facile non essere retorici, magnificamente o miseramente, quando si parla della lettura. Campagne e celebrazioni per il libro sono ovunque, milioni per le biblioteche scolastiche e per i corsi di formazione senza digitale non ce ne sono.
Altro episodio: l’antivigilia di Natale viene lanciato un Appello per la scuola pubblica che a fine gennaio conta oltre 10mila firme, nella stragrande maggioranza di professori universitari e docenti di scuola superiore secondaria. Per leggerlo basta digitare Appello per la scuola. Ci si trovano nomi notissimi, da Alessandro Dal Lago ad Alex Zanotelli, da Luperini a Vegetti Finzi per fare due esempi. Con loro altre centinaia di docenti universitari e di Liceo. Si chiede una moratoria della legge 107, la rinuncia alla didattica per competenze e all’alternanza scuola-lavoro; si vuole dare più importanza alle conoscenze e meno alle innovazione didattiche e tecnologiche. Più saperi disciplinari e meno laboratori. (Come è difficile discutere così, distinguere tra queste idee e definirne altre parlando questa lingua da professori).
L’Appello pare non centrare il punto. Che non è la distruzione del pensiero critico e il trionfo l’aziendalismo, per cui abbiamo un astensionismo sul quaranta per cento e una prospettiva francese con lepenisti al 30% mentre aumentano esclusione, povertà e disastri ecologici. Il punto è il senso del privilegio culturale. Da una cattedra in università o al Liceo ci si chiede “A scuola imparare cosa? Come? Per fare cosa?”. Ci vorrebbe pathos, tormento, desiderio per un’altra storia in cui vivere, una vera empatia per destini diversi…. Per scrivere un appello sulla scuola? Crediamo di sì.
Certamente la legge 107 fa schifo e la scuola come tutto è sottomessa alle logiche del turbo capitalismo pulsionale informatizzato e finanziario. Sì. Ma contro l’elitismo, la noia, l’ineguaglianza – in certe elementari e medie, in certi tecnici e professionali – l’interdisciplinarità e gli scambi sulla base di progetti e di compiti di realtà li usiamo e ci serve la libertà pedagogica che lascia quel poco di equivoco tra le righe. Meno laboratori e più studio rigoroso non è un buono slogan, forse nemmeno per i Licei classici senza poveri né stranieri né disabili che Carla Melazzini chiamava “obitorio della scuola italiana”.
I processi di pensiero legati alla trasmissione intergenerazionale ed educativa sono certamente determinati dall’immersione nel medium informatizzato odierno ma lo sarebbero anche da una didattica attiva che elabori la relazione la corporeità l’emotivo l’inconscio come fattori per un’azione culturale scolastica inclusiva. Certo non sarebbe più la stessa cultura, cambieremmo tutti. E c’è da fare fatica, sbagliare, attraversare crisi di ogni tipo. La scuola di tutti non c’è ancora stata ma del resto non è una cosa vera, non è una cosa possibile. È una tensione è una invenzione una strategia di azioni in rete che non finisce mai.
Torniamo alle politiche scolastiche degli ultimi mesi e ai discorsi pubblici sulla scuola. A gennaio 2018 il Ministero torna in attività: è il momento BYOD, che significa “Bring Your Own Device” cioè “portati a scuola il tuo dispositivo di connessione alla rete”. Un decalogo stabilisce come usare i dispositivi informatici personali nelle classi. È scandalo: usare i cellulari a scuola mentre la Francia li vieta fino ai quindi anni persino nelle pause! Tempesta di sì e di no, interviste a chiunque capita. Dopo averlo annunciato a settembre, ecco che il 19 gennaio il MIUR pubblica il Piano Nazionale Scuola Digitale con relativo sito tematico.
Si tratta di un testo culturalmente, linguisticamente e pedagogicamente misero, al limite dell’offesa. Stilato – in un misto italo-inglese aziendalistico – con toni da entusiasta venditore menzognero che non coprono le peggiori intenzioni che si possano immaginare: l’agenda delle politiche scolastiche e soprattutto degli investimenti economici per realizzarla è stilata evidentemente da soggetti che non sono esperti tecnici e scientifici del governo pubblico nazionale o degli istituti d’istruzione. Tra gli obiettivi c’è quello di «coinvolgere gli studenti come leva di digitalizzazione delle imprese e come traino per le vocazioni dei territori» ossia bisognerà produrre i lavoratori che servono per chi li domanda e spendendo pure i soldi dove dicono loro.
In un altro punto si legge: «Riqualificare gli ambienti di apprendimento significa anche promuoverne nuove modalità d’uso e collegarvi nuovi servizi, in cui il digitale accompagni l’acquisizione di competenze come la lettura e la scrittura che sono nel DNA della nostra scuola». Sì: “nel DNA”. E così si fa piazza pulita della ricerca contemporanea sul tema cruciale del rapporto tra supporti per la trasmissione delle conoscenze e modalità di lettura e pensiero, tra pulsionalità del consumo informatizzato e sviluppo di memoria e attenzione.
Secondo il Piano Digitale Nazionale gli effetti dei dispositivi informatizzati sul cervello sono ancora tutti da studiare e verificare. In realtà le cose non stanno proprio così. Possiamo averne idea leggendo il secondo capitolo di “Come diventare vivi. Un vademecum per lettori selvaggi”, il manifesto sulla “lettura profonda”, pieno di umiltà e di illusione, di orgoglio e di sdegno, che ha scritto Giuseppe Montesano, professore di Liceo in provincia di Caserta oltre che studioso e scrittore.
La questione comunque è sul piatto: nella stragrande maggioranza delle scuole non ci sono aule computer funzionanti e le LIM sono usate spesso come semplici proiettori. Il Piano Nazionale per il Digitale dice che in Italia le aule cablate sono meno della metà e che la stima di 7.9 computer ogni 10 alunni è totalmente falsata dall’impossibilità di verificare le condizioni effettive di tali macchine. L’ineguaglianza sociale passa anche dalla possibilità di accedere a un’educazione ai media basilare.
Rari gruppi di docenti o singole si impegnano già a ricostruire il senso delle esperienze di scrittura e lettura attraverso i dispositivi, un’avventura necessariamente intergenerazionale: si scambiano indirizzi mail e face book con classi e alunni; aprono blog e account, condividono padlet e bacheche pinterest e molto altro, prima oltre e dentro la legge. A loro si rivolge il decalogo riassuntivo del MIUR, sempre stonato e imperfetto. Non avevano, a quanto pare, uno straccio di filosofa o pedagogista che suggerisse di evitare almeno i titoli 5 (I dispositivi devono essere un mezzo, non un fine) e 6 (L’uso dei dispositivi promuove l’autonomia delle studentesse e degli studenti) visto che i dispositivi non sono mai mezzi ma sono agenti e che l’autonomia non si combina con loro ma al massimo si possono modificare procedure e deviarne collettivamente gli usi. Tuttavia, poiché tutti hanno diritto a ricevere un paio di diritte su come fare un uso meno che atroce dei dispositivi e a intuirne le possibilità espressive e creative, deve essere possibile per chi insegna poter scegliere come fare, sia pure con cellulari e tablet propri, senza essere esposte a rivalse legali. E se ci saranno dei soldi da spendere bisognerà provare a farsi trovare organizzate per pretendere che sia chi fa nelle classi a guidare chi compila i bandi di finanziamento. Potranno forse far sentire la loro voce solo coloro che insieme faticano organizzati, producendo materiali incontri scambi.
Ci sono ad esempio due gruppi, attivi soprattutto nelle scuole medie, cui le adesioni vanno aumentando. Uno è Italian Writing Teachers (noto con la siglai IWT e molto attivo su face book) che nasce attorno alla proposta in Italia (introdotta dalla professoressa Jenny Poletti Riz) della tradizione angloamericana dei laboratori di lettura e di scrittura. Il metodo, proposto a volte aproblematica fiducia, sta producendo effetti molto interessanti sulle pratiche didattiche e valutative, e con la sua diffusione si approfondiranno probabilmente le riflessioni sui presupposti pedagogici e gli impliciti politici.
L’altro è Emmametodo che nasce dalla storia del Movimento di Cooperazione Educativa e che a partire della ripubblicazione del manuale per la scuola media “La Matematica” di Emma Castelnuovo ne riprende l’insegnamento e la proposta metodologica, dirompente oggi come allora.
Cittadinanza
Non casualmente l’ordine di scuola in cui forse le cose stanno cambiando più rapidamente, tra resistenze perversioni forzature e cantonate, è la secondaria di primo grado. Fin dalla creazione della media unica 50 anni fa, le medie sono il banco di prova della didattica inclusiva, del progetto di una scuola e di una istruzione democratiche. Corrispondono alla fase di sviluppo sessuale e cognitivo che segna la fine dell’infanzia, con l’ultima radicale riorganizzazione della vita psichica e la nascita della sensibilità per le differenze sociali, quando ci si confronta con la pre-determinazione delle proprie possibilità e dei propri desideri; con le forme dell’organizzazione sociale; la possibilità di essere attivi agenti di un mondo culturalmente ricevuto. Sono le scuole in cui abbiano le insegnanti meno preparate, le didattiche più obsolete, le procedure di selezione più accanite. Conseguentemente sono quelle in cui, negli ultimi tempi, si assiste ai tentativi di reazione – in tutti sensi – più organizzati.
Gli ultimi episodi di cui diamo notizia riguardano proprio le scuole medie. Un decreto ministeriale emesso a ottobre 2017 aveva ridisegnato – come sancito dalla Buona Scuola – l’esame di terza. A metà gennaio è reso pubblico un “Documento di orientamento per la redazione della prova d’italiano nell’Esame di Stato conclusivo del primo ciclo”, alla cui stesura il Ministero ha chiamato un famoso professore in pensione (Luca Serianni), un ordinario di linguistica e due figure tecniche, una del Ministero stesso e una dell’INVALSI. Lo scopo dell’esame di italiano alla fine della scuola di base è di verificare «la padronanza della lingua italiana, padronanza verso cui la scuola deve traguardare studentesse e studenti per farne, davvero, cittadine e cittadini attivi e competenti».
Fin dalle prime righe ci si raccomanda: nel corso dei tre anni di scuola secondaria di primo grado sia il riassunto il mezzo didattico fondamentale. Sorge il dubbio che ai redattori, forse troppo distanti dal fronte delle classi, sia sfuggito qualcosa. Avrebbero potuto leggere “E se non fosse una buona battaglia?” di Claudio Giunta, ordinario di letteratura, dantista e già normalista, un professore come loro insomma, che però che da anni riflette sulle condizioni di uso della tradizione letteraria e umanista italiana, perché i codici le competenze e i canoni non sono intoccabili e il loro senso deve essere riscoperto con un serio confronto intellettuale sulle possibilità e i metodi della trasmissione. Nelle scuole, sia nei deprimenti dipartimenti di lettere che in modo informale per scambi e reti, le insegnanti che ne hanno i mezzi e la volontà (troppo poche) si confrontano: leggere cosa, leggere come, scrivere come e per cosa. Risposte già pronte e sempre buone, non ce ne sono.
Leggere per riconoscere di aver sognato e visto e capito attraverso le stesse favole, metafore, spiegazioni rispondendo così ai bisogni di appartenenza e identità meglio che quei primi rifugi del sangue e della terra, tanto facili a diventare miti nazi? Leggere per godere, per la formazione umana e personale, per sentire vivere e pensare meglio? Per porsi al riparo dalla miseria dalla noia dalla stupidità? Leggere per lavorare, per scambiarsi significati e agire con gli altri, per accedere a diritti e doveri? Solo enunciato, nessuno di questi motivi diventerà motivazione in una classe di dodicenni.
A volte per scrivere una regola a cui tutti obbediranno, che davvero trasformi in qualcosa la vita nella classe, si possono applicare tutti, nelle loro differenze. O quando la certezza che davvero la propria parola, almeno in un ambito, su un aspetto concreto o in una relazione autentica, sarà ascoltata, trattata, resa efficace. Oppure tutti arrivano a leggere – cose diverse in modi diversi – quando diventa un’esperienza condivisa di scambi affettivi e intellettuali, di fatiche che sono domandate in un contesto di relazioni rispettose, di produzioni significative e “serie”, di ricerche su ciò che assieme abbiamo scoperto premerci davvero, per interessi e domande vitali. Alcune, pochi, nella scuola lo sanno bene che non è mai scontato arrivare a farlo, che tutto ti rema contro. Anche se stessi, anche il riassunto consigliato da Serianni.
Quindi cosa vuole certificare questo esame che nel 2018 chiederà di argomentare – a partire da un frammento di Marcovaldo – se sia meglio vivere in città o in campagna? Vuole stabilire i livelli di abilità e capacità (già ribaditi in pagelle di anni) attribuendo definitivamente a ciascuno il suo o vuole chiamare a dare prova di sapere e di potere dire qualcosa che preme, adesso e un domani vicino come cittadini e cittadine adulte?
Il punto è questo: facciamo davvero o facciamo per finta? Se ci premono tanto la scrittura, come la democrazia e la solidarietà, si provi di fronte ai nuovi arrivati, agli ultimi, a dire quel che si fa e a fare quel che si dice. Anche se è impossibile.
Eccoci infatti all’ultimo atto: il 22 febbraio 2018 il Ministero riporta l’attenzione di tutte le scuole sulle Indicazioni nazionali per curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo del 2012, che sono, come già detto, il miglio strumento che abbiamo per agire nella scuola. Lo fa con un documento intitolato Indicazioni e Nuovi scenari in cui sostanzialmente si mettono in risalto le modalità di progettazione didattica per discipline con cui realizzare l’educazione alla cittadinanza attiva. Non servono altre materie, altre ore, si tratta solo di scegliere cosa insegnare e come (di nuovo!).
È accaduto infatti che nel 2015, nel 2016 e nel 2017 le organizzazioni internazionali ONU, UE e Consiglio d’Europa hanno ratificato continuamente documenti sulla necessità di comprendere nelle politiche dei sistemi educativi statali l’educazione alla cittadinanza attiva. I tempi sono decisivi: di fronte agli attacchi terroristi e alle radicalizzazioni, alle espulsioni di massa da territori o da dignitose condizioni di vita; allo sfaldamento istituzionale sotto i colpi della corruzione e della manipolazione delle informazioni ecco che si domanda di reagire sui valori e sulla cultura della democrazia. Che le scuole facciano la loro parte, che cambino quindi.
In Indicazioni e nuovi scenari si ricorda che «compito peculiare» della scuola del primo ciclo è «porre le basi per l’esercizio della cittadinanza attiva, potenziando e ampliando gli apprendimenti promossi nella scuola dell’infanzia». E si ri-propongono degli obiettivi definiti «irrinunciabili» che sembrano soprattutto irrealizzabili: «Obiettivi irrinunciabili dell’educazione alla cittadinanza sono la costruzione del senso di legalità e lo sviluppo di un’etica della responsabilità, che si realizzano nel dovere di scegliere e agire in modo consapevole e che implicano l’impegno a elaborare idee e a promuovere azioni finalizzate al miglioramento continuo del proprio contesto di vita, a partire dalla vita quotidiana a scuola e dal personale coinvolgimento in routine consuetudinarie che possono riguardare la pulizia e il buon uso dei luoghi, la cura del giardino o del cortile, la custodia dei sussidi, la documentazione, le prime forme di partecipazione alle decisioni comuni, le piccole riparazioni, l’organizzazione del lavoro comune, ecc.». Il tutto collegato ai contenuti disciplinari.
Il problema, come detto, non è solo italiano. A ottobre 2017 è stato pubblicato il rapporto Eurydice (la rete istituzionale europea di informazione sull’istruzione) dedicato alla Educazione alla cittadinanza a scuola in Europa e da febbraio la sua sintesi è disponibile, segnalata sul sito INDIRE.
Lo studio descrive come viene insegnata l’educazione alla cittadinanza attiva in 42 sistemi scolastici europei. Per condurre lo studio, per capire insomma di che si parla, hanno scelto quattro aree che identificano le competenze pertinenti a questa educazione: 1. Interacting effectively and constructively with others, including personal development (self-confidence, personal responsibility and empathy); communicating and listening; and cooperating with others. Area 2: Thinking critically, including reasoning and analysis, media literacy, knowledge and discovery, and use of sources. Area 3: Acting in a socially responsible manner, including respect for the principle of justice and human rights; respect for other human beings, for other cultures and other religions; developing a sense of belonging; and understanding issues relating to the environment and sustainability. Area 4: Acting democratically, including respect for democratic principles; knowledge and understanding.
La lettura della ricerca Eurydice è interessante e istruttiva non per vedere le differenze tra i Paesi (chi ha ore dedicate; chi la associa a certe discipline come storia o geografia; chi la suppone trasversale a tutte; chi parte dalle superiori e chi dalle materne) ma l’inanità degli sforzi organizzativi e di invenzione curricolare di tutti i sistemi. Di fatto le didattiche non sono mai modificate e nessuno è in grado di valutare sensatamente queste competenze, che si sospettano mai acquisite. Lo stesso studio Eurydice nel quadro descrittivo e metodologico accenna solamente, come tecniche didattiche, alla peer education e al brainstorming. A che punto è la notte?
Chi ha studiato Freinet e viene dalla pedagogia attiva, chi ha letto Fernand Oury e conosce la Pedagogia Istituzionale sa che esperienza radicale di educazione democratica sia un Consiglio di classe cooperativa in cui si prendono delle decisioni effettive sulla vita comune della classe, ricavandosi un margine di libertà e di autonomia anche dentro i vincoli un’istituzione e una organizzazione più grandi e forti. Sa che un gruppo è un organismo dotato di inconscio e che un’organizzazione cooperativa del lavoro (a scuola si intende l’apprendimento di contenuti stabiliti) domanda riti e procedure per scambi organizzati di parola e ruoli e responsabilità. In Consiglio si sperimentano la fatica e l’onore di ascoltare, di prendere parola, di argomentare e di fare la legge assieme scoprendo che a volte è liberatorio lasciare andare il proprio e a volte è giusto ostinarsi su di esso. Chi ci prova sa che tutto ciò avviene passando per dubbi, fatiche, crisi, smacchi ed esaltazioni. E se certe docenti è la verità per altre è incomprensibile oppure sa solo di fumo, retorica e novecento.
Cambiare uno, cambiare tutti
Perché la didattica non cambia? Perché si tende a formare come si è stati formate e a riprodurre le scene e le figure della propria formazione. Sì, tra le altre cose, è un modo di dirlo. Non cambia perché la didattica è cultura e la cultura è potere.
Per essa e tramite si governa e si trasmettono ordini che si scrivono sulla carne e i sogni. Sulle battaglie culturali abbiamo imparato delle cose: che sono politiche e comuni; che si deve lavorare su di sé; che costano sacrificio; che si procede per rivoluzioni. Lo abbiamo imparato moltissimo dal femminismo e dal movimento per i diritti civili afroamericani e delle minoranze. La scuola dell’inclusione e della democrazia di cui si scrive all’ONU e nell’Consiglio d’Europa viene anche da lì.
Pensiamo al fatto che leggiamo soprattutto libri e articoli di maestri e di professori, che la maggioranza dei corsi di formazione sono tenuti da maschi, mentre l’85% delle insegnanti sono donne. Perché non scrivono? Molte avranno a casa figlie figli a cui badare ma molte altre no e saranno altrettanto brave, con idee e visioni altrettanto interessanti. Forse non pensano di poterlo o saperlo o volerlo fare. La presa di parola autoriale, l’affermazione tramite l’opera individuale e pubblica, la forza e il prestigio dello scrivere sono capitale simbolico maschile. L’insegnamento non è quel tipo di mestiere. È un lavoro umile, anche di cura, è un lavoro faticoso e si se si vuole fare bene è un lavoro in cui spendi il meglio che sai per bambine e ragazzini, per cose che vedranno in 20, serviranno a pochi e magari tra molto tempo. Ciò non significa ragionare del mestiere in termini di vocazione e nemmeno di abnegazione materna. Significa altre cose.
Che dobbiamo darci una mano a oltrepassare alcune dicotomie stereotipiche insite nel nostro pensiero.
Abbiamo spesso detto che la scuola non può cambiare, che è un’istituzione statale troppo compromessa nel suo mandato e nella sua origine per produrre ciò che dice di volere fare. Che se ci entri ti trovi annichilito e livellato e puoi solo starci con ironia salvando il salvabile. Che rispecchia la società in cui si trova e non può farsi più democratica e libera nemmeno “aprendosi al territorio, alle altre organizzazioni”. Eppure sempre torna la tentazione di poter ricominciare a fare azione culturale e politica nelle scuole pubbliche. Trovando i pertugi, le scappatoie, mettendoci la tenacia e il lavoro per contagiare, creare reti, far stare meglio, imparare meglio cose più vere, una cultura più ricca più varia, per vissuti differenti, per scopi migliori. Invitiamo quindi a lavorarci i migliori e a volte rivendichiamo per noi la parte di migliori e altre riconosciamoci come «insegnanti di media umanità e cultura» (Melazzini), che possono imparare molto con le bambine, le ragazzine, i ragazzi che incontrano e magari fare una scuola diversa, che non abbi bisogno di maestri eccezionali.
Quando Claudio Giunta dice: diamo direttamente l’abilitazione ai dottorandi perché un docente che sappia davvero bene la disciplina è meglio, ed è indispensabile, rispetto a uno con un’infarinatura di pedagogia, cosa sta dicendo davvero? Abbiamo in noi questa idea dell’educazione come un lavoro basso, di cura, che ha a che fare con dimensioni sgradevoli, ripetitive, penose. E abbiamo in noi il miraggio del maestro mentore, che innova che rivela che trascina che illumina e seduce. Abbiamo immagini e racconti della professoressa brava, scienziata, preparata e rigorosa e che grazie alla passione, con severità, accende interessi e desiderio di conoscenza, lasciando il segno, istruendo. Sul fronte opposto mettiamo la scuola del fare, del corpo, delle esperienze, delle emozioni, delle ricerche sull’ambiente e gli interessi, dell’educazione alla presa di parola e alla vita nelle comunità di individui liberi e differenti. E se fossero dimensioni in tensione reciproca, che potrebbero nella pratica trasformarsi a vicenda? E se una scuola diversa producesse una cultura diversa? Non avremmo più antibiotici e ingegneri, diventeremmo poveri oppure socialisti?
Le prese di coscienza individuali sono il presupposto di ogni cambiamento ma da sole non cambiano nulla. Ci voglio delle lotte condivise, in cui ci si dà una mano a spingere un po’ più avanti possibilità che nemmeno si immaginavano all’inizio e che fanno paura perché vanno contro se stessi, contro ciò che si è e da cui si viene. “Come essere donne in un altro modo pur essendo donne in questo modo?” dicono le femministe. Quella patriarcale della subalternità femminile è la nostra cultura, non se ne esce per volontà, non c’è un’altra donna, un altro ordine di valori e di modi di essere pronto. Lo scarto, che è sempre in levare in perdere ed è già determinato ed è radicale, accade se certi modi di fare e di essere si scoprono assieme, trovando luoghi, forme, parole e infine leggi. Attraverso tante mediazioni, errori miserie. Tanto coraggio idealismo e bellezza.
Si può essere bravi studiosi e bravi insegnanti e agire nella scuola politicamente e culturalmente? Le conoscenze e la abilità culturali sono neutre? Le differenze intellettuali cosa significano? Questi sono campi di ricerca e di azione non definitivi, mai risolti. Una volta appartenevano, come la battaglia per una scuola di base inclusiva e per tutti, alla sinistra.