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L’incubo dei voti

10 Giugno 2013
Stefano Laffi

Esperienza

Ci siamo cresciuti, coi voti, anzi ci siamo nati. Il primo voto in fondo è l’indice di Apgar, viene dato nei primi secondi di vita, su alcuni parametri vitali – la medicina assai più della scuola dà voti, valuta, scheda… – va da 0 a 10, ma io non so quanto ho preso, perché forse è l’unico voto che ci viene detto senza che noi possiamo capirlo. Poi da lì inizia la misurazione della curva di crescita rispetto alla tabella di marcia – “il neonato deve crescer di almeno X grammi a settimana!”, ti dicono, e da lì inizia il panico – e a seguire lo scarto ansiogeno di tuo figlio rispetto dagli standard di normalità misurato in percentili a quel mese di età, perché da piccoli l’età è in mesi! – quanto dovrebbe essere alto o pesare – amara lezione di statistica che si apprende da genitori. “Abbasso la normalità, mio figlio è mio figlio!”, viene da reagire, e a ragione, ma poi un giorno proprio guardando le curve di crescita fai l’ipotesi che tuo (è il mio caso) figlio sia celiaco, non cresce come dovrebbe o potrebbe anche se sta benissimo, perché non assorbe il glutine, e così la statistica lo salva (non la pedagogia o l’amore di padre). In fondo sono state le frequenze relative – quanti casi rispetto al totale di quel gruppo – che hanno consentito di capire l’AIDS, la sua trasmissione per via sessuale, il disastro che stava producendo nelle relazioni omosessuali, e salvato vite umane. Insomma i numeri ci stanno stretti, non ci contengono e non ci raccontano, ma a volte sono lenti nitide e preziose su parti di noi che non si possono dipingere, raccontare, mettere in versi.

Dare voti, fare esami

Sono certo che molti fra coloro che leggono sono dall’altra parte della barricata, sono valutatori, insegnanti, professori, membri di giurie o commissione varie, in concorsi o festival, si sono trovati a fare graduatorie, scegliere, attribuire voti o premi, in qualche modo decidere il destino di altri. Anche io, precario e occasionale, ma per età anche io.

Da “valutato” a scuola ricordo tre episodi significativi. L’insegnante delle elementari (andavo bene) che per fare la simpatica mi disse alla consegna delle pagelle che ero stato bocciato ed io mi misi a piangere (oggi le farei del male), un docente all’università (Zamagni, guru dell’economia cattolica) che aveva l’abitudine di chiederti a fine esame che voto tu stesso ti saresti dato (cortocircuito diabolico, tutti eravamo più severi con noi stessi di quanto poi lui stesso riconosceva) e poi la volta in cui venni richiamato a distanza di una settimana in segreteria da un professore di analisi matematica che aveva ripensato al voto già firmato sul libretto (al momento accettai ma dissi che mi sembrava ingeneroso) e me lo corresse al rialzo (oggi gli farei del bene).

Da professore precario all’università non mi ha mai scandalizzato dare voti, l’ho sempre trovato una convenzione del luogo, una delle regole per stare in quell’istituzione e avere la fortuna di fare lezione a studenti. Gli studenti poi, ricattati dal meccanismo dei crediti a prefigurare il loro percorso di studi come un gioco di calcoli, hanno sempre visto come “normale e dovuto” lo scambio esame versus voto. A fare scandalo per me (ma non per gli studenti) era ed è non il voto ma l’esame, in generale per la riduzione alla performance del momento valutativo – così che tutto può accadere, fortuna, contrattempi, fretta, stanchezza, manipolazioni varie – e in particolare perché il formato standard è quello del test scritto a crocette: al terzo anno di sociologia in Università Bicocca a Milano avevo di fronte studenti che nella maggior parte dei casi non avevano mai sostenuto un esame orale, quando dicevo che io avrei preferito parlare con loro serpeggiava panico, sorpresa, disorientamento.

Senza volere o potere rivoluzionare nulla, nei miei pochi anni di insegnamento e nelle poche centinaia di esami – va detto, un professore universitario se fa il suo dovere ha l’enorme incombenza di valutare centinaia di esami all’anno – ho sempre adottate due soluzioni, per non arrendermi completamente alla situazione (che è evidentemente abbastanza libera, va detto ad onor dell’università). Sostituire l’esame con una ricerca sul campo (per gli studenti che seguivano) o una tesina (per gli studenti lavoratori, nel caso si potesse trovare rispetto al proprio ambito di lavoro un tema di approfondimento) in modo da neutralizzare l’elemento performativo, a vantaggio delle abilità di analisi, di ipotesi, di ricerca e resoconto di un fenomeno. Oppure, nel caso di esami orali con chi non aveva seguito il corso, formulare sempre due tipi di domande: alcune sul programma e sui contenuti (quasi una forma di rispetto per chi concepisce l’esame come una restituzione di letture prescritte) e altre su situazioni immaginarie (fenomeni, problemi, eventi), tipiche di una disciplina come sociologia, rispetto alle quali non c’erano risposte predefinite, presenti su manuali o guide al superamento di quell’esame, allo scopo di veder l’intelligenza al lavoro, di ragionare insieme ad alta voce, di poter valutare nel mentre la capacità di connessione, assai più importante di quella di memorizzazione, o più banalmente allo scopo di poter conoscere chi avevo di fronte. Per formulare questo secondo tipo di domande chiedevo spesso al candidati dove vivessero, in quale situazioni familiare, facendo cosa, ecc. per approssimare la situazione ipotetica all’esperienza diretta di chi avevo di fronte. Ma è così che ho scoperto quanto fosse frequente fra i miei studenti l’impegno serale in un lavoro, la dedizione a un familiare disabile o in difficoltà, storie personali di viaggi e migrazioni assai complicate, ecc. Mi è stato suggerito di lasciar perdere, perché non si possono includere quelle variabili nella valutazione senza finire in un gorgo di ponderazioni, e lo capisco, ma nella mia ingenuità di precario e occasionale non ho mai capito quello che avviene ogni giorno, migliaia di volte: come si può valutare chi non si conosce.

Scegliere il vincitore

Il sociologo (e suonatore di violoncello) Richard Sennet, nel libro “Rispetto”1, rievoca l’incontro con una musicista chiamata a scegliere il vincitore di un importante concorso– la Leeds Piano Competition – ed esplicita le contraddizioni insuperabili di ogni selezione. L’esame porta i candidati ad una prova “muscolare”, ad una gara di abilità rispetto a quella sfida, mai ad una interpretazione personale o critica, che non ha cittadinanza in un concorso, perché troppo rischiosa (anche se assai più rivelatrice del carattere del candidato). Il concorso, inoltre, fa un vincitore e mille perdenti, elegge il migliore – da quel momento condannato alla solitudine, invidiato e ipercriticato, oltre che iperresponsabilizzato – e umilia gli altri, con un “bilancio sociale” drammatico, ovvero il rischio che il vincitore non regga e gli altri disperdano il loro talento, cioè ormai sfiduciati cambino strada e rinuncino a regalare agli altri il frutto delle loro abilità.

D’altra parte quelle Sennet che chiama “carriere aperte al talento” sono state ovviamente un’importante conquista rispetto al privilegio ereditato, su cui si basava l’aristocrazia e la monarchia stessa. È solo dal XVII secolo in poi che si comincia a selezionare davvero per merito in ambito militare, è da quel momento che si forma un’attenzione speciale alle prove e ai talenti in tanti ambiti artistici, rompendo il privilegio della nascita. Ma è proprio da allora che nasce l’attenzione alla prova, alla performance: il ‘700 è anche il secolo di Paganini, del virtuosismo, della formazione di una distanza incolmabile fra pubblico e performer, dellaspecializzazione professionale che rende inarrivabili le abilità di qualcuno agli occhi degli altri. Ma lo spettacolo del talento promuove o inibisce la diffusione di una disciplina? La contemporaneità ha evitato l’umiliazione dell’inarrivabile, il talent show televisivo è lo spettacolo di chi ci prova, solo così poteva essere di massa, cioè alimenta i tentativi e i sogni nella popolazione non certo i sensi di inadeguatezza di chi cerca la perfezione, ha una rincorsa brevissima e una ricompensa enorme, insomma è il contrario della scuola…

Sennet ricorda anche come le migliori intenzioni dei selezionatori militari del ‘700 – sondare le abilità di ciascuno provando a neutralizzare l’effetto di privilegi come studi e possibilità connesse al proprio rango sociale – abbiano poi spinto nel corso del tempo l’attenzione generale della valutazione dalla performance in sé alle attitudini e capacità potenziali, retrocedendo di fatto all’infanzia e all’età giovanile il momento fondamentale della valutazione. Ma è chiaro che il prezzo che si paga in questo caso è molto alto: il potenziale per definizione non si mostra ancora ed è quindi difficilmente misurabile e spesso sconosciuto al suo stesso portatore, tutti hanno “potenzialmente” tante capacità che solo in parte mettono o metteranno a frutto perché c’è un forte legame con la motivazione – e da qui il pesante implicito che in un regime valutativo centrato sui potenziali forse ricchi e poveri sono uguali ma qualunque insuccesso “dipende da te”, tradisce la tua debole motivazione, sposta l’attenzione su di te come persona – e infine lancia i genitori all’inseguimento dei figli, enfatizza i primi voti e i primi test dell’infanzia come fossero le spie accese di vocazioni a venire, insomma carica di competizione anni che dovrebbero essere di giochi e sereno apprendimento.

Sennet arriva ad una conclusione: in fondo il bravo artigiano è quello rapito dal suo lavoro, immerso completamente nella cura dell’opera, anche a costo di un carattere schivo, di una scarsa attenzione agli altri, nella compulsione verso l’oggetto. Ma è in questo modo che forse si preserva dall’invidia più corrosiva, dal confronto competitivo, dal vero tarlo della società moderna, il volere essere altro da noi, diventare come qualcuno, tradire la propria natura nella ricerca vana di somigliare ad altri. Così la valutazione andrebbe sempre fatta rispetto a se stessi, non agli altri, si migliora o si peggiora rispetto a sé, l’unità di misura è dentro di noi, non nella gara con altri, e il merito sta nella dedizione all’opera, nella passione esercitata a fare qualcosa, indipendentemente da graduatorie comparative.

Merito e disuguaglianza

Valutare le capacità riduce le disuguaglianze sociali? In fondo la questione è questa, ridurre i privilegi e le rendite di posizione attraverso dispositivi che rimettano in linea le persone ad ogni generazione per eguagliare le opportunità e rendere ciascuno più artefice del proprio destino, meno dipendente dal suo cognome, dal suo conto in banca. In questo senso valutare sarebbe un gesto profondamente politico, uno strumento fondamentale di redistribuzione delle opportunità. E le valutazioni, forse indigeste ai valutatori e ansiogene per i valutati, avrebbero almeno questa valenza.

Magari fosse così, succede il contrario, come ai tempi di “Lettera ad una professoressa”. La ricerca dispone oggi di dataset preziosi in cui affiancare sugli stessi alunni informazioni sul livello socioculturale della famiglia, voti conseguiti, consigli di orientamento per le superiori ricevuti dagli insegnanti, livelli di apprendimento misurati con test esterni. A parità di apprendimenti insegnanti diversi danno voti diversi (forse è utile sapere che gli insegnanti più severi nei voti ottengono apprendimenti migliori), a parità di apprendimenti il voto è più alto quando più alto è livello socioculturale dei genitori, a parità di voto dato i consigli orientativi verso le scuole superiori sono più penalizzanti (ovvero più orientati alla formazione professionale) per i ragazzi stranieri e per i figli di famiglie di livello più basso, a parità di voto le famiglie di livello più alto rivedono al rialzo quei consigli orientativi più di quanto non facciano le altre, ecc.2 Per tante e forse anche buone ragioni – famiglie più abbienti possono dare più garanzie di seguire un figlio, possono essere più presenti ai colloqui, più attente ai suggerimenti, ecc. – resta il fatto che la scuola italiana, complessivamente intesa, non sovverte ma perpetua la disuguaglianza sociale e il voto è un suo strumento, in violazione dell’art.34 della Costituzione.

Tullio De Mauro ci ricorda a ragione ogni settimana su Internazionale quanto è importante studiare, come sia ancora oggi – dati alla mano – uno dei migliori investimenti che si possano fare, per il proprio futuro, in primis lavorativo. In realtà sappiamo anche che valutazioni e test incidono meno di quanto pensiamo, non è dalla misurazione dell’intelligenza che si predice il futuro, anzi (la misurazione del quoziente d’intelligenza da ragazzi non spiega più del 15% della posizioni professionale e reddituale raggiunta a 30-40 anni, che è evidentemente legata quasi interamente a fattori familiari, di classe sociale, di fortuna3). Persino il voto di laurea – che è la valutazione più prossima al mercato del lavoro consegnata dal percorso di studi – non è degnata di particolare attenzione dai datori di lavoro, che cercano assai più motivazione e spirito di adattamento, conoscenza delle lingue o dei software, flessibilità ed esperienze di vita nel tempo libero.

Il mondo sta cambiando, le carriere sono meno lineari, quello che si studia potrà esser diversissimo dal lavoro che si farà, i luoghi di formazione delle competenze si sono moltiplicati e hanno relativizzato molto il peso della scuola e dell’università nel disegnare i destini. Ma se tanti sono i contesti in cui si è messi alla prova, resta l’urgenza di offrire in ciascuno il senso ultimo della valutazione, ovvero un riscontro puntuale di quello che si sa o si sa fare, le cose da migliorare, la vocazione possibile, un incontro, una lettura o un’esperienza consigliata. Nella mia breve esperienza di professore l’indizio più forte di una buona valutazione era che il candidato uscisse dall’esame contento, con la voglia di studiare ancora, quale che fosse il voto.

1 R.Sennet, Rispetto, il Mulino, Bologna 2004

2 Per una rassegna di questi risultati si trova in rete “Uguaglianza delle opportunità nella scuola secondaria italiana”, di Daniele Checchi, FGA Working Paper, nr.25 (3/2010)

3 In Sennet, cit., p.89

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