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Lidia Curti anglista. Un ricordo

Foto di Camillo Pasquarelli
31 Maggio 2021
Paola Splendore

Vorrei ricordare qui Lidia Curti, la studiosa di letterature anglofone recentemente scomparsa, nota in campo internazionale per i suoi contributi nell’ambito degli studi letterari, culturali, postcoloniali, femministi. Docente all’Università L’Orientale di Napoli, Lidia è stata per tutta la vita una intellettuale militante ‘naturale’. La cultura era per lei una cosa viva, era tutto quello che accadeva intorno a lei, e tutto per lei era anche politica: letteratura, cinema, teatro, cultura popolare, fumetto, studi delle donne. Cresciuta alla scuola del Pci, era un vulcano di proposte, stimolante, contagiosa negli entusiasmi, e ‘sempre un passo avanti’, come ha scritto Marina Vitale che l’ha ricordata sul “Manifesto”. Lidia era ‘sfida e passione’, come fu intitolato il convegno organizzato nel 2006 in suo onore, quando andò in pensione, due termini che esprimono al meglio la sua complessa personalità.
Lidia è stata una figura chiave nella mia formazionale intellettuale e personale. È stata per me amica, maestra, e un modello femminile del tutto controcorrente, cui devo un imprinting importante. Ricordarla significa per me situarla in un’epoca e in un clima culturale e politico molto diverso da quello attuale, e in una istituzione universitaria particolare, “l’Orientale”, mia alma mater.
Mi sono iscritta all’Istituto Universitario Orientale nel 1960, e Lidia era da poco arrivata come giovane assistente alla cattedra di inglese, tenuta da Nando Ferrara, brillante studioso shakespeariano e di Novecento. Lei e Nando sono stati i miei maestri di letteratura inglese per tutto il corso di studio e dopo la laurea, quando ho cominciato a lavorare con loro come assistente “volontaria”, e con loro sono rimasta fino alla metà degli anni ottanta, quando mi sono trasferita altrove. Fin da subito, Lidia e Nando istituivano rapporti informali anche con i nuovi arrivati, nello stile anglosassone, e nei corsi comunicavano un’idea diversa della cultura accademica e del tipo di insegnamento allora dominante.
Ambedue stimolanti e coinvolgenti, aperti a quanto accadeva anche fuori dell’Università (e in quegli anni ne accadevano di cose!), combinavano la rigorosa formazione scientifica con la cura e la formazione degli studenti, la creazione di una vera e propria scuola con basi teoriche e critiche in continuo aggiornamento, puntando alla trasformazione del “canone” ufficiale e della didattica e al collegamento sempre più necessario con le altre discipline. La battaglia in corso in quegli anni era al conservatorismo e alle forme di neo-idealismo ancora molto diffuse specialmente negli studi umanistici.
Ma poi, alla fine degli anni sessanta, arrivarono le lotte studentesche che ci coinvolsero tutti fortemente, e fecero dell’Università un luogo di dibattito continuo con i controcorsi, le occupazioni e le affollate assemblee, cui spesso partecipavano gli operai e anche il nostro “compagno” rettore, ecc.
Il Seminario di inglese al quarto piano del Palazzo Giusso, un palazzo nobiliare seicentesco che sorge nell’intrico di vicoli del centro storico di Napoli, a due passi dai Tribunali e da Forcella, divenne un luogo di cultura e militanza attiva. All’epoca non esistevano i dipartimenti e i settori disciplinari erano organizzati in ‘Seminari’ – un lascito forse dell’antico Collegio dei cinesi sorto nel ‘700 per la formazione religiosa di giovani cinesi destinati a diffondere la fede cattolica nel loro paese. Eravamo un gruppo affiatato, e passavamo insieme molte ore al giorno; il nostro apprendistato non smetteva mai. Le tre-quattro stanze che costituivano il Seminario comprendevano anche la biblioteca di Anglistica che noi curavamo facendo gli ordini, e poi catalogando e disponendo i libri sugli scaffali. Ricordo che una volta, nel mese di agosto di non so quale anno, abbiamo passato alcune settimane a ri-catalogare e ri-sistemare tutti i libri secondo criteri diversi da quelli adottati dalla bibliotecaria. Preparavamo insieme i corsi, ognuno aveva qualcosa da dire sulle proprie ricerche e letture. Avevamo tutti un piccolo budget per andare in Inghilterra ogni anno a svolgere ricerche da cui tornavamo carichi di libri e di progetti.
La didattica ci impegnava molto. E c’era allora una popolazione studentesca numerosa e agguerrita, di estrazione sociale mista e con un’alta provenienza dal sud Italia; con la liberalizzazione dell’accesso all’università le lezioni già affollatissime di inglese si affollarono sempre più. I laboratori linguistici furono trasferiti altrove, e venivano sostanzialmente gestiti da una schiera di lettori madrelingua; i corsi di letteratura fu necessario sdoppiarli, triplicarli, fittare cinema e teatri, spazi sempre più ampi…. Ricordo che un anno mi toccò fare lezione in un cinema a luci rosse, all’ingresso delle locandine porno, un altro anno all’Istituto Don Orione, anche detto il Piccolo Cottolengo. Centinaia e centinaia di esami a ogni sessione, tantissime le tesi da seguire. Gli spazi esistenti e il carico di lavoro sempre maggiore incisero anche sul nostro stile di lavoro.
Nonostante tutto, ricerca e spirito di gruppo ebbero una buona tenuta. Dal ‘68 in poi, l’esigenza di rinnovamento nella ricerca e nella didattica, sempre più pressante ci aveva indirizzata verso un impianto teorico che coniugava strutturalismo e marxismo, con aperture alla semiologia e alla linguistica.

La cultura era per lei una cosa viva, era tutto quello che accadeva intorno a lei, e tutto per lei era anche politica: letteratura, cinema, teatro, cultura popolare, fumetto, studi delle donne


Dai continui rapporti e scambi di Lidia e di altri membri del gruppo con l’Inghilterra, e in particolare con il Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham, dall’incontro con studiosi come Raymond Williams, tra i fondatori della New Left inglese, Richard Hoggart e Stuart Hall, il gruppo di studio napoletano rafforzò la propria identità diventando una sorta di ‘cellula italiana’ dei Cultural Studies. Il Centro di Birmingham, la scuola fondata nel 1964, e le loro analisi delle culture giovanili (Dick Hebdige), la musica (Iain Chambers), i mass media e le culture minoritarie (Stuart Hall), rappresentavano in quegli anni una vera e propria rottura nella tradizione epistemologica e metodologica anglosassone, e noi ne adottammo in pieno idee e metodi.
Nei primi anni novanta arrivò la ‘svolta’ postcoloniale, cui diede visibilità un importante convegno – La questione postcoloniale, curato da Lidia e da Iain Chambers. L’impatto sempre più rilevante di studiosi della diaspora come Homi Bhabha, Edward Said, Paul Gilroy, Gayatri Spivak, Trin T. Min-Ha spinsero alcuni di noi a occuparsi delle letterature emergenti dei paesi di lingua inglese.
Il mio senso di appartenenza al luogo di origine, alle sue sfide e passioni, è rimasto forte.
Quante volte ho pensato a quegli anni, alle nostre riunioni di lavoro, estenuanti e allegre, di fronte alla desolazione e all’assenza di scambio intellettuale delle università dove ho insegnato successivamente. Nel frattempo, l’Università è diventata un posto diverso. Le riforme, i corsi triennali, la scarsità di investimenti nella ricerca, tra i più bassi d’Europa, l’hanno trasformata in una specie di super-liceo i cui docenti, per lo più precari, sono soffocati da valutazioni e auto valutazioni continue e incarichi amministrativi di ogni tipo. Dove le lotte studentesche sono di brevissimo impatto. E dove oggi, la vita universitaria è praticamente annullata dalla pandemia.
Gli studi di Lidia sono proseguiti in più direzioni, verso i mass media, le arti visive, gli studi di genere e la fantascienza. Tra le sue pubblicazioni principali: Female Stories, Female Bodies. Narrative, Identity and Representation (1998); La voce dell’altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale (2006, 2018); e infine Femminismi futuri. Teorie Poetiche Fabulazioni (2019), ricca antologia di saggi su fantascienza femminile e afrofuturismo, tematiche che negli ultimi tempi l’avevano molto appassionata: l’utopia di un futuro possibile in chiave antirazziale e femminista. L’utopia che Lidia ci consegna. Più che mai necessaria.


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