Lidia Curti anglista. Un ricordo

Vorrei ricordare qui Lidia Curti, la studiosa di letterature anglofone recentemente scomparsa, nota in campo internazionale per i suoi contributi nell’ambito degli studi letterari, culturali, postcoloniali, femministi. Docente all’Università L’Orientale di Napoli, Lidia è stata per tutta la vita una intellettuale militante ‘naturale’. La cultura era per lei una cosa viva, era tutto quello che accadeva intorno a lei, e tutto per lei era anche politica: letteratura, cinema, teatro, cultura popolare, fumetto, studi delle donne. Cresciuta alla scuola del Pci, era un vulcano di proposte, stimolante, contagiosa negli entusiasmi, e ‘sempre un passo avanti’, come ha scritto Marina Vitale che l’ha ricordata sul “Manifesto”. Lidia era ‘sfida e passione’, come fu intitolato il convegno organizzato nel 2006 in suo onore, quando andò in pensione, due termini che esprimono al meglio la sua complessa personalità.
Lidia è stata una figura chiave nella mia formazionale intellettuale e personale. È stata per me amica, maestra, e un modello femminile del tutto controcorrente, cui devo un imprinting importante. Ricordarla significa per me situarla in un’epoca e in un clima culturale e politico molto diverso da quello attuale, e in una istituzione universitaria particolare, “l’Orientale”, mia alma mater.
Mi sono iscritta all’Istituto Universitario Orientale nel 1960, e Lidia era da poco arrivata come giovane assistente alla cattedra di inglese, tenuta da Nando Ferrara, brillante studioso shakespeariano e di Novecento. Lei e Nando sono stati i miei maestri di letteratura inglese per tutto il corso di studio e dopo la laurea, quando ho cominciato a lavorare con loro come assistente “volontaria”, e con loro sono rimasta fino alla metà degli anni ottanta, quando mi sono trasferita altrove. Fin da subito, Lidia e Nando istituivano rapporti informali anche con i nuovi arrivati, nello stile anglosassone, e nei corsi comunicavano un’idea diversa della cultura accademica e del tipo di insegnamento allora dominante.
Ambedue stimolanti e coinvolgenti, aperti a quanto accadeva anche fuori dell’Università (e in quegli anni ne accadevano di cose!), combinavano la rigorosa formazione scientifica con la cura e la formazione degli studenti, la creazione di una vera e propria scuola con basi teoriche e critiche in continuo aggiornamento, puntando alla trasformazione del “canone” ufficiale e della didattica e al collegamento sempre più necessario con le altre discipline. La battaglia in corso in quegli anni era al conservatorismo e alle forme di neo-idealismo ancora molto diffuse specialmente negli studi umanistici.
Ma poi, alla fine degli anni sessanta, arrivarono le lotte studentesche che ci coinvolsero tutti fortemente, e fecero dell’Università un luogo di dibattito continuo con i controcorsi, le occupazioni e le affollate assemblee, cui spesso partecipavano gli operai e anche il nostro “compagno” rettore, ecc.
Il Seminario di inglese al quarto piano del Palazzo Giusso, un palazzo nobiliare seicentesco che sorge nell’intrico di vicoli del centro storico di Napoli, a due passi dai Tribunali e da Forcella, divenne un luogo di cultura e militanza attiva. All’epoca non esistevano i dipartimenti e i settori disciplinari erano organizzati in ‘Seminari’ – un lascito forse dell’antico Collegio dei cinesi sorto nel ‘700 per la formazione religiosa di giovani cinesi destinati a diffondere la fede cattolica nel loro paese. Eravamo un gruppo affiatato, e passavamo insieme molte ore al giorno; il nostro apprendistato non smetteva mai. Le tre-quattro stanze che costituivano il Seminario comprendevano anche la biblioteca di Anglistica che noi curavamo facendo gli ordini, e poi catalogando e disponendo i libri sugli scaffali. Ricordo che una volta, nel mese di agosto di non so quale anno, abbiamo passato alcune settimane a ri-catalogare e ri-sistemare tutti i libri secondo criteri diversi da quelli adottati dalla bibliotecaria. Preparavamo insieme i corsi, ognuno aveva qualcosa da dire sulle proprie ricerche e letture. Avevamo tutti un piccolo budget per andare in Inghilterra ogni anno a svolgere ricerche da cui tornavamo carichi di libri e di progetti.
La didattica ci impegnava molto. E c’era allora una popolazione studentesca numerosa e agguerrita, di estrazione sociale mista e con un’alta provenienza dal sud Italia; con la liberalizzazione dell’accesso all’università le lezioni già affollatissime di inglese si affollarono sempre più. I laboratori linguistici furono trasferiti altrove, e venivano sostanzialmente gestiti da una schiera di lettori madrelingua; i corsi di letteratura fu necessario sdoppiarli, triplicarli, fittare cinema e teatri, spazi sempre più ampi…. Ricordo che un anno mi toccò fare lezione in un cinema a luci rosse, all’ingresso delle locandine porno, un altro anno all’Istituto Don Orione, anche detto il Piccolo Cottolengo. Centinaia e centinaia di esami a ogni sessione, tantissime le tesi da seguire. Gli spazi esistenti e il carico di lavoro sempre maggiore incisero anche sul nostro stile di lavoro.
Nonostante tutto, ricerca e spirito di gruppo ebbero una buona tenuta. Dal ‘68 in poi, l’esigenza di rinnovamento nella ricerca e nella didattica, sempre più pressante ci aveva indirizzata verso un impianto teorico che coniugava strutturalismo e marxismo, con aperture alla semiologia e alla linguistica.
La cultura era per lei una cosa viva, era tutto quello che accadeva intorno a lei, e tutto per lei era anche politica: letteratura, cinema, teatro, cultura popolare, fumetto, studi delle donne
Dai continui rapporti e scambi di Lidia e di altri membri del gruppo con l’Inghilterra, e in particolare con il Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham, dall’incontro con studiosi come Raymond Williams, tra i fondatori della New Left inglese, Richard Hoggart e Stuart Hall, il gruppo di studio napoletano rafforzò la propria identità diventando una sorta di ‘cellula italiana’ dei Cultural Studies. Il Centro di Birmingham, la scuola fondata nel 1964, e le loro analisi delle culture giovanili (Dick Hebdige), la musica (Iain Chambers), i mass media e le culture minoritarie (Stuart Hall), rappresentavano in quegli anni una vera e propria rottura nella tradizione epistemologica e metodologica anglosassone, e noi ne adottammo in pieno idee e metodi.
Nei primi anni novanta arrivò la ‘svolta’ postcoloniale, cui diede visibilità un importante convegno – La questione postcoloniale, curato da Lidia e da Iain Chambers. L’impatto sempre più rilevante di studiosi della diaspora come Homi Bhabha, Edward Said, Paul Gilroy, Gayatri Spivak, Trin T. Min-Ha spinsero alcuni di noi a occuparsi delle letterature emergenti dei paesi di lingua inglese.
Il mio senso di appartenenza al luogo di origine, alle sue sfide e passioni, è rimasto forte.
Quante volte ho pensato a quegli anni, alle nostre riunioni di lavoro, estenuanti e allegre, di fronte alla desolazione e all’assenza di scambio intellettuale delle università dove ho insegnato successivamente. Nel frattempo, l’Università è diventata un posto diverso. Le riforme, i corsi triennali, la scarsità di investimenti nella ricerca, tra i più bassi d’Europa, l’hanno trasformata in una specie di super-liceo i cui docenti, per lo più precari, sono soffocati da valutazioni e auto valutazioni continue e incarichi amministrativi di ogni tipo. Dove le lotte studentesche sono di brevissimo impatto. E dove oggi, la vita universitaria è praticamente annullata dalla pandemia.
Gli studi di Lidia sono proseguiti in più direzioni, verso i mass media, le arti visive, gli studi di genere e la fantascienza. Tra le sue pubblicazioni principali: Female Stories, Female Bodies. Narrative, Identity and Representation (1998); La voce dell’altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale (2006, 2018); e infine Femminismi futuri. Teorie Poetiche Fabulazioni (2019), ricca antologia di saggi su fantascienza femminile e afrofuturismo, tematiche che negli ultimi tempi l’avevano molto appassionata: l’utopia di un futuro possibile in chiave antirazziale e femminista. L’utopia che Lidia ci consegna. Più che mai necessaria.
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