I libri per l’infanzia. 1
di Emilio Varrà

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All’inizio c’è una figura sola, una donna che sembra perplessa, tra l’attesa e la ricerca; dopo due pagine ecco comparire l’altra, un bambino minuscolo, come i pollicini delle fiabe. Sono disegnate con tratto sintetico, sapiente, capace di catturare con poco l’empatia del lettore. I due si abbracciano – accompagnati da un testo talmente superfluo che sembra non saper cosa dire – per tutte le pagine successive, come in un flip book, uno di quei libri che danno vita a una piccola animazione se sfogliati rapidamente. Il libro in realtà chiede lentezza, vuole che ci soffermiamo sui dettagli, sulla grammatica dei gesti, dei volti, delle posture. Progressivamente il bambino diventa uomo, la relazione della coppia cambia, e cambierà ancora quando la donna si rimpicciolirà e sarà il bambino diventato uomo a doverla sostenere. Un andamento circolare, che ha la pretesa di mettere in scena la vita, le sue variazioni, gli equilibri mutevoli.
C’è una bambina che si muove in ambienti ogni volta diversi: onde, grotte, nuvole, creati da una scrittura tipografica a carattere piccolissimo, ma che a ben guardare è composta da brevi estratti di romanzi. Lei è la “bambina dei libri”, caratterizzata da un segno a china pittorico ma sintetico anch’esso, e si rivolge a un bambino che siamo noi, piccola divinità delle storie, pronunciando frasi brevissime, che mirano a essere evocative: “Vengo da Paese delle Storie e sulle onde della Fantasia scivolo veloce. Ho attraversato oceani di parole per chiederti: vieni via con me?”.Cosa hanno in comune questi due titoli? Sono i due albi illustrati che hanno vinto la sezione Fiction del Bologna ragazzi award, durante le ultime due edizioni della Children’s book fair di Bologna. Si tratta rispettivamente di Mon tout petit a opera di Germano Zullo e Albertine, edito dalla Joie de livre (e segnalato tra i migliori anche al Salon du Livre et de la Press Jeunesse di Montreuil) e de La bambina dei libri di Oliver Jeffers e Sam Winston, pubblicato originariamente da Walker books e tradotto in Italia da Lapis edizioni.
Sono libri che vogliono essere accattivanti sul piano grafico, “importanti” sul piano dei contenuti, ma risultano al contrario vuoti, sostanzialmente inutili. E il giudizio, prima ancora che estetico, è legato al pensiero del pubblico infantile a cui dovrebbero essere rivolti. Quando si dice che un libro non è adatto ai bambini generalmente c’è un’alzata di scudi nel mondo di chi si occupa di letteratura per l’infanzia. Si sostiene che tutto possa e debba essere offerto, che non ci sia stranezza o complessità che non possa interessare, ché altrimenti le proposte si limiterebbero ai soliti stereotipi semplicistici, sempre ribaditi, normativi. Non si può non concordare, ma spesso il discorso si dovrebbe ribaltare: sono i libri a non essere all’altezza dei bambini, non viceversa. Non che siano di per sé dannosi, ma non sono in grado di cogliere e porsi in sintonia con gli interrogativi e le curiosità dell’infanzia, che hanno un proprio specifico fondamento filosofico. Cosa farsene di una bambina che annuncia storie a non finire, ma non ne racconta una? E cosa farsene dei virtuosismi tipografici, quando ancora o non si è in grado di leggerli o alludono a qualcosa che ancora non si è potuto leggere? E come poter provare interesse nei confronti della crescita e dell’invecchiamento di un uomo e una donna, del tempo che passa e delle relazioni che mutano, in un’età in cui quello che conta è il presente, l’ora, il momento assoluto? Per chi sono questi libri, allora? E perché sono arrivati a vincere il premio della Fiera del libro per ragazzi più importante al mondo? Il fatto è che sono prodotti perfetti e ruffiani per sedurre un pubblico specifico, abituato o comunque attratto dai libri con le figure, da una certa perizia visiva, non sempre capace di cogliere il vuoto che si nasconde dietro, il decorativismo a cui si limitano. E non è un caso che questi e altri titoli si possano trovare anche in negozi che non sono librerie, tra un prodotto di design e una marmellata home made. Si potrebbe finalmente gioire per l’ingresso dei libri per bambini in spazi diversi, quasi una promozione in serie A, se non fosse che l’infanzia sembra qui un mero pretesto, non un pubblico reale di riferimento.
Certamente non è questo il problema più grave da risolvere quando di pensa al rapporto tra lettura e infanzia. Non bisogna mai dimenticare che sono ancora tantissimi i bambini che possono non avere mai l’occasione di accedere ai libri, tanto meno a una proposta valida e variegata di essi. Riflesso – questo – del panorama culturale del nostro paese, che certo non brilla per abitudine alla lettura e per considerare questa come un fattore significativo nel processo di crescita. L’orrore sberluccicante delle cataste dei libri sugli scaffali dei centri commerciali o occhieggiante dall’angolo delle tante cartolibrerie che spesso sono l’unica risorsa locale, sono lì a dimostrarlo: principesse rosa, pessimi libri da colorare, i bestseller del momento. Dal lato opposto – sembra una contraddizione ma invece è pacifica convivenza – c’è un aumento esponenziale della produzione rivolta a bambini e ragazzi. Se una prima grande esplosione si era già vissuta a cavallo del nuovo millennio, quando le novità annue erano triplicate da circa ottocento a più di duemila, ora sono oltre seimila le uscite totali. In altre parole anche la letteratura per l’infanzia, che prima godeva e soffriva insieme di una certa separatezza e di una differenza sia di considerazione critica sia di logica di produzione, si è pienamente allineata alle politiche dell’editoria adulta: una sovrapproduzione in confronto all’utenza, una ridistribuzione dei pesi tra direttore commerciale e direttore editoriale con un netto vantaggio del primo sul secondo. Questa conquistata parità, si trasforma in superiorità se si considera il piano dell’immaginario: a partire dal caso clamoroso di Harry Potter sono tanti i titoli pensati per giovani lettori che si sono imposti su un pubblico ben più ampio, anche di adulti, sia sulla carta sia sugli schermi. Una vera e propria infantilizzazione dei gusti e dei consumi, ingrediente non trascurabile di quella più complessiva “immaturità” che caratterizza i nostri tempi.
A fare da contraltare ai best seller, nati come romanzi e diventati poi fenomeni transmediali, che travalicano i confini della letteratura per l’infanzia e si impongono come icone planetarie e sovragenerazionali, è “la stanza dei più piccoli”, intesa sia come un settore in cui prevale la presenza di una pluralità di piccoli e medi editori, sia come produzione rivolta per lo più alla fascia dei bambini delle scuole materne o dei primi anni delle elementari. Qui non è il romanzo, ma l’albo illustrato il medium privilegiato, e ha conosciuto un netto rinnovamento negli ultimi venti anni, con esiti a volte davvero significativi. Nel caso dei bestseller per più grandi, l’idea della specificità di una letteratura che si rivolge a bambini e ragazzi inevitabilmente si perde, anzi si mira a perderla, a favore di caratteristiche che possano avere una presa più ampia: la forza dell’intreccio, il tifo per la sopravvivenza di chi è più svantaggiato, il gusto per la meraviglia e il fantastico. Nel caso dei libri per più piccoli invece l’identità del “giardino d’infanzia” è ampiamente ribadita, Munari e Rodari sono sempre pronti alla citazione, l’importanza di una precoce educazione alla lettura e al bello è condivisa, e vissuta non solo come forma di acculturamento, ma come un diritto civile di cui è necessario occuparsi. Si è andata via via a creare una comunità che, pur non superando la nicchia, si sta ampliando progressivamente e si compone di esperti, editori, autori, illustratori o aspiranti tali, mamme blogger e blogger e basta, piccole librerie specializzate, biblioteche, insegnanti e genitori illuminati. Una comunità che dovrebbe esercitare una funzione di divulgazione, selezione, critica, ma che in primo luogo ha imparato a riconoscersi come tale e rischia di trasformare questa consapevolezza in un rispecchiamento narcisistico di sé, in un cicaleccio che trova il suo naturale brodo di coltura nella rete e nei social media, dando vita a guru e cortigianerie devote. Ciò che si fatica a sentire è la presenza di una o più “idee di infanzia”, che abbiano un fondamento filosofico capace di diventare azione concreta e, attraverso gli strumenti della cultura e dell’arte, di assumere anche una valenza politica, nel suo senso etimologico di agire esterno, nella polis. Prevale piuttosto un “sentimento d’infanzia” che, pur muovendo spesso da una sincerità di intenti, non sembra avere radici culturali abbastanza profonde e rischia di ridurre tutto a mero apprezzamento estetico – che è diverso dal giudizio e dalla critica – al gusto per una carineria diffusa, a un’adesione emotiva, priva di prolungamenti, che si spegne in sé, già soddisfatta. L’infanzia in questo diventa quasi pretesto, gioco di sponda per echi ora di memoria o di nostalgia, ora di un fanciullismo adulto – alla Mary Poppins – ribadito come forma di diversità o di diserzione alle regole imposte di un mondo che ha perso il sacro fuoco e l’immaginazione dell’infanzia, ora di un tono “barricadero” più alla Pippi Calzelunghe, ma spesso senza reale concretezza di propositi e di azioni. Al di là dei diversi registri, tutto sembra ridursi a una forte autoreferenzialità: l’infanzia sembra rimanere elemento di sfondo, nonostante se ne ribadisca ad libitum la centralità. Non più “i bambini ci guardano”, ma “gli adulti si guardano”, parlando di bambini. In quest’ottica non stupisce che a vincere le fiere siano le figure di Zullo e Albertine, tutte a ribadire una creatura duplice ma autosufficiente e conchiusa in sé nel vuoto attorno, o le bambine dei libri che ribadiscono tautologicamente l’importanza delle storie e la forza della fantasia, senza mostrarne un barlume con le loro parole.
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