Lezioni (inutili?) dall’Emilia Romagna
Superata l’attenzione mediatica, messo da parte lo spumante con cui è stato annaffiato il risultato delle ultime elezioni regionali (in fondo la diga ha tenuto, la destra non è riuscita a sfondare nella regione-simbolo della sinistra e ha dovuto cedere le redini in Umbria), è bene tornare a mente fredda su quanto è accaduto e cercare di ragionare sulle indicazioni che il voto potrebbe dare alla sinistra. Concentriamoci sull’Emilia Romagna, che per ragioni storiche rappresenta – da questo punto di vista – un buon punto di osservazione
L’astensione è un gesto politico
Rispetto alle precedenti elezioni regionali, sono mancati all’appello oltre 700.000 elettori e la percentuale di affluenza è crollata di oltre 21 punti, fermandosi al 46,42%. La caduta è consistente anche rispetto alle tornate elettorali più recenti: le elezioni europee dello scorso giugno (-12,6%) e le politiche del 2022 (-25,55%). Dieci anni fa, alle regionali, l’asticella era rimasta inchiodata ad un ancora più drammatico 37,7%. L’effetto “sardine”, che alla tornata successiva aveva risollevato le sorti di un centro-sinistra in affanno di fronte all’aggressività della destra ripopolando le piazze e riattivando anticorpi sociali assopiti, si è dimostrato effimero ed è svanito senza trovare altre strade, altre forze in grado di incanalare paura e delusione verso una reazione collettiva. E così l’affluenza è di nuovo in picchiata, nell’indifferenza generale. Come dieci anni fa, quando il collasso della partecipazione elettorale provocò al massimo un’alzata di spalle, oggi – esaurite le lacrime ipocrite sparse nell’immediatezza del voto sul letto della democrazia agonizzante – i partiti sono tornati rapidamente a rintanarsi nella loro realtà parallela, dove i processi sociali perdono ogni concretezza, ogni verità, ogni possibilità di interpretazione.
L’astensionismo colpisce tutti gli schieramenti politici, ma è la sinistra ad esserne ferita più in profondità. È nel suo elettorato, infatti, che vengono custoditi (per quanto tempo ancora?) i valori costituzionali che rappresentano il fondamento del sistema democratrico. La destra non fa mistero di disprezzarli. Ed è quindi nell’elettorato in fuga, piuttosto che in astratte alleanze tra forze politiche sempre meno rappresentative, che andrebbe cercata la base sociale polverizzata e dispersa nell’arco dell’ultimo ventennio.
“Cercare” non rinvia a uno studio a tavolino, ma ad azioni concrete che presuppongono profondi mutamenti nella cultura politica, senza i quali è impensabile porre rimedio alle principali distorsioni che hanno alterato il rapporto tra i partiti e la base sociale.
La riduzione della mobilitazione politica alle scadenze elettorali rappresenta una vera e propria mistificazione dell’essenza stessa della democrazia, che – per essere tale, e mostrarsi solida – presuppone un esercizio costante del dibattito, della critica, del controllo, della partecipazione ai processi decisionali. La destrutturazione di questa complessa e delicata architettura indebolisce inevitabilmente anche l’esercizio del voto: privato delle sue connessioni con una azione sociale diffusa e continuativa, si riduce progressivamente a rito formale e chiuso in se stesso. Abdicando al ruolo di organizzatori del conflitto sociale, i partiti della sinistra (e i sindacati) hanno sterilizzato il terreno sul quale la partecipazione politica si radica e produce visioni diverse e contrapposte della società.
Di fronte alle conseguenze prodotte da queste distorsioni del sistema democratico – il riduzionismo elettorale, l’anestesia del conflitto, l’offuscamento delle differenze – la fuga dalle urne non può essere derubricata a pura e semplice manifestazione di disaffezione e bollata come forma di passività da sottoporre a condanna morale.
Bisognerebbe ragionare sul fatto che l’astensione sta diventando un atto politico vero e proprio, e riconoscerlo come tale. Da questo punto di vista, non importa il giudizio che si dà di questo atto: se la risposta non è di nostro gradimento, non possiamo gettare via con essa anche le domande che l’hanno generata. Le domande sono legittime, e non necessariamente esprimono rifiuto della politica: più probabilmente la invocano, nell’unico modo che a singoli individui rimane per farlo.
Nel romanzo di José Saramago Saggio sulla lucidità si narra di un paese imprecisato nel quale gli elettori vanno in massa alle urne, e in massa votano scheda bianca. Il governo, incredulo e incapace comprendere, annulla le elezioni e ne convoca di nuove. La percentuale di schede bianche aumenta e supera l’80%. I partiti sono nel panico. Su questa vicenda Saramago costruisce una complessa ed affascinante metafora del potere, della sua fragilità, della violenza che mette in campo per difendere se stesso da ciò che lo aggredisce rimanendo senza volto, delle strategie che il popolo adotta per ribellarsi a un sistema politico che non lo rappresenta. Una metafora su cui riflettere.
“Campo largo” o alleanze sociali?
Se i numeri dell’affluenza sono impietosi, non sono da meno quelli usciti dalle urne. La coalizione di centro-sinistra perde oltre 270.000 voti rispetto alle elezioni regionali precedenti (un dato che corrisponde a circa il 23% del proprio elettorato). La coalizione di centro-destra ne perde quasi 364.000 (-36%). In sostanza, le elezioni le ha vinte chi ha perso di meno.
Se dalle parti della destra qualcuno arretra e qualcuno avanza (Fratelli d’Italia quasi raddoppia i voti, ma non riesce a compensare il tracollo della Lega, che perde oltre 610.000 voti, quasi l’89% degli elettori), nello schieramento che ha prevalso con ampio margine il segno è sempre negativo. Il Pd perde quasi 110.000 voti rispetto alle regionali del 2020 (-14%), mentre il Movimento 5stelle dimezza il proprio elettorato. Va molto male anche l’ala sinistra della coalizione: Alleanza Verdi Sinistra (AVS) – che registra il 5,3%, un risultato inferiore alle aspettative – perde quasi il 39% dell’elettorato rispetto alle elezioni europee tenute cinque mesi prima e il 20,5% rispetto alle elezioni politiche di due anni fa. Più difficile ma comunque indicativo il confronto con le precedenti elezioni regionali, quando AVS non esisteva: se sommiamo i voti guadagnati allora dai Verdi e dalla lista Coraggiosa creata da Elly Schlein, la perdita si aggira intorno al 36%.
Il declino è ormai un dato strutturale. Basti pensare che nel voto nazionale, dalle elezioni politiche del 2008 – le prime nelle quali si presentò sotto il nuovo nome – a quelle del 2022, il Pd ha perso circa il 56% del proprio elettorato.
La risposta a questo stato di cose è – per ora – quella del “campo largo”. Le elezioni in Emilia Romagna hanno mostrato come funziona. La distribuzione dei voti all’interno della coalizione è del tutto squilibrata in favore del Pd, che con il 43% supera – da solo – l’intera coalizione avversaria e si aggiudica il 56% dei seggi.
Questo sbilanciamento ha due conseguenze. La prima è che mette a nudo l’inconsistenza della posizione di chi, a sinistra del Pd, si ostina a ripetere che la presenza nell’alleanza serve a “condizionare” le politiche del partito di maggioranza. Un’affermazione smentita dai numeri – chi mai sarà in grado di “condizionare” un partito maggioritario e autosufficiente? – e dai fatti. Il caso bolognese è illuminante. Nel capoluogo Coalizione civica (oggi parte integrante di AVS) ha deciso di entrare nella maggioranza senza mai trovare un ruolo autonomo e riconoscibile. Al contrario, per stipulare il patto di governo ha abbandonato le proprie posizioni originarie su questioni cruciali: la sua giravolta sulla questione del Passante – un’opera pubblica inutile e devastante dal punto di vista ambientale che prevede di ampliare a 16/18 corsie il nodo autostrada/tangenziale – rappresenta un esempio di come per stare nel “campo largo” bisogna vendere l’anima al diavolo.
Ma c’è una seconda conseguenza, ancora più grave perché agisce sul lungo periodo ostacolando possibili alternative. Infatti, coloro che si collocano alla sinistra del Pd e partecipano al “campo largo” convergono verso la medesima visione politica. Il fatto che tale somiglianza venga negata a parole o che si verifichino episodiche dissonanze su specifiche decisioni (spesso marginali o comunque non abbastanza incisive da alterare il quadro complessivo) non modifica questo stato di sostanziale subalternità. Il prodotto di un’alleanza fondata su questi presupposti non genera altro che conformismo, e questo impedisce che gli “alleati” possano maturare una nuova e diversa cultura politica. Dentro un quadro uniforme, privo di differenze sostanziali, non si produce alcun cambiamento, non si realizza alcun condizionamento.
D’altra parte una cultura politica non si costruisce a tavolino, ma nel conflitto sociale, nelle lotte per il lavoro, l’ambiente, la casa, la giustizia sociale e l’uguaglianza. È questo l’unico terreno sul quale si possono costruire alleanze sociali, cioè alleanze vitali e fertili, ben diverse da quelle rinsecchite e caduche stipulate da gruppi dirigenti autoreferenziali. L’unico terreno che possa accogliere chi ha scelto di esprimere la propria domanda di politica rimanendo a casa il giorno delle elezioni. Se si mette il naso fuori dai propri ristretti confini e si guarda agli esiti delle recenti elezioni in Europa e nel mondo, si dovrebbe comprendere che non rimane molto tempo per dissodarlo.