Letteratura per l’infanzia: nemici sono gli adulti

Ripubblichiamo un articolo uscito sul numero 66-67 di Agosto-Settembre del 2019 de Gli asini
Si è svolta all’inizio di aprile la cinquantaseiesima edizione della Bologna children’s book fair ed è stato un ribadito successo di quella che rimane la fiera internazionale più importante al mondo nel settore dell’editoria per ragazzi. Sono aumentati i visitatori, in particolar modo stranieri, sono 80 i paesi rappresentati e quasi 1.500 gli editori che vi hanno partecipato. Mentre la si attraversava si aveva davvero l’idea di un mondo fiorente, vitale (e lo dimostrano le case editrici per l’infanzia che via via nascono o quelle generaliste che decidono di dedicare un ramo della loro produzione al settore), forte di una solidità economica invidiabile rispetto ad altre fette del mercato editoriale (nonostante i primi mesi del 2019 abbiamo segnalato una flessione anche significativa delle vendite di oltre il 6% secondo i dati forniti da Growth from knowledge).
Può essere l’occasione utile per andare ad analizzare il nostro panorama non da un punto di vista quantitativo, ma per i segnali che lancia e che possono diventare preziosi anche al di fuori di quel mondo. Rimane invariata una caratteristica che è già riconoscibile da anni, la netta divaricazione delle proposte in due direzioni precise e opposte, dal punto di vista dell’età dei destinatari: l’albo illustrato (lettura generalmente rivolta ai più piccoli, pur con importanti e preziose eccezioni) e il romanzo per young adult, gli adolescenti. Per quanto diversissime, queste due direzioni sembrano avere un elemento comune: l’invasione degli adulti. Non si pensi allo squilibrio strutturale intrinseco alla letteratura per ragazzi, che la rende specifica da un punto di vista ontologico e formale, ovvero il fatto che siano gli adulti (autori, illustratori, editori, traduttori, grafici, eccetera) a dover “interpretare” e tentare di lanciare un ponte di comunicazione a un pubblico “alieno” per immaginario e per età. Si tratta piuttosto del fatto che sempre di più gli adulti non mantengono solo il ruolo di produttori, e neppure solo di acquirenti (perché sono loro a scegliere i libri, almeno per i più piccolini), ma stiano occupando anche quello di fruitori. Questo fenomeno ha già avuto evidenza planetaria per quanto riguarda casi editoriali che, nati per ragazzi o adolescenti, hanno sbancato grazie alla lettura dei “grandi”, che se ne sono appropriati con il piglio ammiccante di chi rivendica la resistenza e la coltivazione del proprio fanciullino interiore. Da Harry Potter a Il caso del cane ucciso a mezzanotte di Haddon, da Twilight a Hunger Games e tutte le distopie a seguire è un gioco continuo di furti da un pubblico all’altro e viceversa. Il salto definitivo di questa appropriazione sembrerebbe confermato dalla nuova organizzazione interna di diverse case editrici: se prima il settore young adult era appannaggio di responsabili appartenenti alla sezione ragazzi, ora la curatela è passata al settore adulti. Testimonianza non di una maturità di lettore e lettrice prematuramente acquisita, tale da permettere il tuffo nell’universo della letteratura tutta, ma al contrario di processo di “adolescentizzazione” pervasiva, che va ben oltre l’età di riferimento, fino a disperdersi nella nebbia della terza o quarta età…
Lo
spazio dell’albo illustrato vede anch’esso l’invasione adulta
come dato crescente. È un universo specifico questo, che almeno da
quindici anni si è imposto come uno dei fronti di maggiore
sperimentazione formale ed editoriale e ha portato a una crescita
indubitabile di interesse e a tante opere significative. Ma rischia
anche di diventare una moda, alimentata dalla rete e dai social, in
una cerchia crescente, abitata da sempre più addetti al lavoro,
critici, mamme cultrici di blog. Un mondo abbastanza piccolo, se
messo a confronto con la quantità di bambini e bambine che non
avranno mai l’occasione di incontrare certe proposte, il numero di
docenti che non le conoscono, la quasi pervasiva ignoranza di chi
frequenta le Facoltà di scienze della formazione per un futuro
insegnamento. Eppure è un mondo vivace al suo interno, che
soprattutto comunica molto on line e sui social, fa sentire la sua
voce senza riuscire davvero a oltrepassare i confini di una forte
autoreferenzialità. Con il rischio, anche, di un ripiegamento
narcisistico che può essere involontario ma si produce comunque nel
porre in primo piano le opinioni e le emozioni – quante emozioni! –
di sé come lettore e lettrice adulti piuttosto che interrogarsi sul
mistero, insondabile, della natura e della lettura bambina.
In
tutto ciò rimane una grande assente, mascherata dalla quantità di
titoli e realtà editoriali: la letteratura per l’infanzia e per
ragazzi, ovvero la produzione narrativa rivolta alla fascia 8-12,
da quando si acquisisce una piena autonomia di lettura a quando ci si
affaccia all’adolescenza, mutando così orizzonti ed esigenze
d’immaginario. Tale vuoto nella produzione editoriale ha eccezioni
anche importanti, trasversali tra la grande e la medio-piccola
editoria: le collane di Bompiani, Iperborea, Beisler, Sinnos e alcune
scelte convincenti dei grandi marchi editoriali sono a dimostrarlo,
ma rimane comunque forte la sensazione di una lacuna che mette in
allarme. Viene da chiedersi se per un verso o un altro (albo
illustrato o romanzo young adult) il destinatario ultimo di questo
settore non sia l’adulto e ciò andrebbe a confermare un dato che
esula il mercato librario: la pressione sociale e immaginativa che
esercitiamo sull’infanzia con l’evidente volontà di ridurne la
durata il più possibile. Se potessimo, probabilmente la elimineremmo
del tutto, perché essa ha un’autonomia di azione e una
imponderabilità d’immaginario che la rende difficilmente
controllabile nei desideri, e quindi nei consumi. Si disegna così un
percorso perfettamente ricalcato dalla produzione editoriale per
ragazzi e ragazze: una forte attenzione per la prima infanzia e i
neogenitori che, per novità e naturale “preoccupazione
pedagogica”, sono ideali acquirenti; la riduzione di proposte per
l’infanzia vera e propria, con la “speranza” che diventi presto
adolescente, senza neppure passare per la pubertà, e rimanga tale
per decenni, passibile degli echi da sirena del mercato.
Se gli
interessi economici sono indubbiamente quelli che determinano simili
fenomeni, pure essi hanno un loro valore indiziario nei confronti del
rapporto tra generazioni, nelle forme di relazione che si
costruiscono tra i “piccoli” e i “grandi” e che la
letteratura per l’infanzia da sempre, con una grande varietà,
ambiguità e complessità di forme, ha rappresentato. Direbbe
Huckleberry Finn che oggi “si sente puzza di scuola domenicale”,
ovvero che dietro la quantità e varietà di proposte editoriali si
nasconde un decisa volontà di controllo, travestita da desiderio di
protezione, insegnamento, condivisione di emozioni. Antonio Faeti
intitolava il primo capitolo di un suo importante saggio sull’allora
nuova letteratura per ragazzi, I
diamanti in cantina
(Bompiani 1995),
Leggere in testa d’albero, a dare l’idea della forza liberatrice
dell’atto della lettura, dell’altitudine a cui può portare,
della solitudine privilegiata con cui la si gode, della pericolosità
anche a cui ci si espone. Viene da pensare che oggi il giovane
lettore avrebbe mamma e papà appollaiati sull’albero maestro con
lo stesso libro in mano, o che un complicato sistema di cavi e
cuscinetti lo assicurerebbero da qualsiasi caduta, o – ancor meglio
– che si simulerebbe la coffa in 3D,
rimanendo comodamente seduti in poltrona, mantenendo la massima
sicurezza. La paranoia protettiva nei confronti delle azioni, dei
comportamenti e dell’immaginario di bambini e bambine, o meglio di
quelli che – e non sono la maggioranza – vivono in un contesto
familiare attento e mediamente colto, che si preoccupa anche di
comprare libri, sembra trasformare la letteratura per l’infanzia in
un vero e proprio terreno di occupazione da parte degli adulti. Non
importa se la motivazione sia il desiderio di condividere le
esperienze o quello di educare alla realtà e alle sue problematiche
secondo i binari – inequivocabilmente corretti politicamente – di
una lettura che deve essere “utile”: di qui la quantità di “temi
importanti” che imperversano nelle proposte editoriali e che
accomunano, per approccio didascalico, gli albi sul come fare la
nanna o gestire le emozioni o sull’accettazione di ogni diversità,
fino ai romanzi sulla mafia e sulle migrazioni contemporanee. Viene
in mente una definizione che si legge in Co-ire.
Album sistematico dell’infanzia
di Réné Schérer e Guy Hocquenghem (Feltrinelli 1979):
“A ogni tappa dell’infanzia, in ogni ora o quasi della giornata,
il bambino è interamente definito in un certo campo la cui struttura
è, per lui, più o meno elastica. Ma è sempre imperativa,
spazialmente e temporalmente determinante. Deve essere localizzato da
qualche parte. Dal suo punto di vista, del bambino, questo vuol dire
che gli viene inculcato, come presupposto incontestabile della sua
vita da bambino, che lui deve sempre poter dire dove si trova e
render conto di ciò che ha fatto o sta facendo”.
Co-ire
è un saggio che riesce a raccontare ancora bene ciò che sta
succedendo; pur datato nel tono, nella verve polemica e in certi
bersagli contro cui si scaglia, e non pienamente risolto in certi
aspetti delicati che solleva, si rivela estremamente fertile negli
indizi che coglie e nel contrasto strutturale che disegna. Da una
parte esiste il “romanzo familiare” in cui regna il dominio
concreto e immaginativo degli adulti, a volte apertamente autoritario
ma più spesso mascherato da preoccupazione e ricatto affettivo;
dall’altra c’è il “romanzo d’infanzia”, quello in cui
bambini e bambine si liberano da tali legami e si pongono come
soggetti autonomi e desideranti. Il ratto, il rapimento violento da
parte di un adulto che non fa parte della cerchia familiare, è
considerato come il gesto necessario, e segretamente desiderato dai
più piccoli, ed è metaforicamente l’unica via d’uscita
possibile. Questa dialettica è applicabile anche alla letteratura
per l’infanzia e temo che la sua piena affermazione come settore di
mercato rilevante nel terzo millennio l’abbia portata
inequivocabilmente dalla parte del controllo adulto. È sempre
esistita nella tradizione una linea normativa dei libri per bambini,
contrastata da quella minoritaria degli eccentrici, fossero le follie
di Carroll, l’ambiguità morale di Stevenson, le ombre di Collodi,
fino alle efferatezze di Dahl. Ed esiste tuttora, per fortuna, ma ha
vita davvero difficile perché il gioco è diventato più sottile,
per l’ambiguità e la varietà di sfumature sotto cui si travestono
il desiderio di controllo e la protervia adulti. E davvero penso che
tanti capolavori, riconosciuti tali proprio per la forza rapitrice
dell’universo che raccontano, per la loro capacità di
rappresentare l’irruzione dell’estraneo grazie alla natura e alle
scelte dei personaggi o alle loro sperimentazioni linguistiche e
formali, sarebbero osteggiati oggi da molti addetti ai lavori.
Un
esempio per tutti: sono appena usciti per Bompiani due spassosi
volumetti scritti negli anni Settanta da Florence Parry Heide e
illustrati ora dal bravo Sergio Ruzzier, Favole
a cui non badare troppo
(coautore William C. Van Clief III) e Storie
per bambini perfetti.
Si tratta di raccolte di brevi apologhi “immorali” con animaletti
come protagonisti: dichiarate parodie dei racconti morali
sette-ottocenteschi in cui chi si comporta bene, per generosità,
altruismo, buon senso, ha sempre la peggio. Non sono una novità e si
pongono sulla linea di Storia del bambino buono e Storia
del bambino cattivo
di Mark Twain. Abbiamo proposto queste letture a un corso di
aggiornamento per insegnanti e bibliotecari in vista di una
discussione collettiva. Dovremo armarci di buone strategie difensive
perché sono già fioccate numerose critiche e una condivisa
preoccupazione sugli effetti che potrebbero avere sui piccoli
lettori. Eccola l’ipocrisia, forse inconscia ma non per questo meno
prepotente: con il nobile desiderio di proteggere i nostri bambini si
nega loro la fiducia di individui ragionanti, dotati della capacità
ironica di cogliere il ribaltamento parodico, si nega loro il
divertimento di lettori oggi in vista di quello che potrebbero
diventare domani. Una negazione di intelligenza, autonomia, gioco,
dignità di soggetti.
Meglio allora affidarsi alle Storie
della buonanotte,
ancor meglio se per “bambine ribelli”. I due volumi ideati da
Francesca Cavallo e Elena Favilli sono l’ultimo grande caso
editoriale internazionale, anche italico, per numero di vendite. Si
tratta di ritratti di donne importanti nella storia in ogni settore
del sapere e dell’agire umano, raccontati brevemente nell’arco di
una pagina e con un’illustrazione accattivante. Non vogliamo qui
discutere sulle scelte dei singoli personaggi o sulle omissioni di
informazioni nelle vite di alcuni di essi, che sanno di tradimento
nei confronti dei presupposti annunciati e dell’infanzia stessa.
Conta ancor più il valore di indizio: sono perfetti esempi di
un’alleanza tra adulti che fa leva sull’idea di utilità della
letteratura per l’infanzia e su un’esigenza di rivendicazione
politicamente corretta. Sinceramente non so quanto interessi alle
bambine e ai bambini addormentarsi con un santino abbozzato di
Cleopatra o di Virginia Woolf, quello che conta è la soddisfazione
nostra. È uscito un terzo volume, criminale per la svendita che si
fa dell’atto e della parola di ribellione e per il narcisismo a cui
induce, Io
sono una bambina ribelle
(Mondadori 2019):
è un activity book, in cui si è invitati a disegnarsi come ci si
vede, a fare l’elenco dei propri diritti, a scrivere pensieri
affettuosi per le proprie parti del corpo preferite, a nominare i
cattivi che si sconfiggeranno, a inventare gli slogan nei cartelli
delle proprie manifestazioni di protesta. L’introduzione, esemplare
per l’ipocrisia mascherata che vi regna, si chiude in questo modo:
“Io sono una bambina ribelle è pensato per aiutarti ad allenare il
tuo spirito ribelle, abbracciare il tuo potenziale con gioia e
determinazione, ed essere una fautrice del cambiamento. La serie
delle Storie della buona notte per bambine ribelli parla degli atti
di eroismo di molte grandi donne. Io sono una bambina ribelle parla
di te, della tua storia, della tua rivoluzione”. Il “tu” tante
volte ribadito alla giovane interlocutrice rivela tutta la sua
falsità a leggere il “noi” dei ringraziamenti finali, doverosi
perché i libri sono nati tutti con un finanziamento di crowdfounding
che per il primo volume è andato alle stelle ben oltre le necessità
ed è stato replicato anche per le altre uscite, nonostante non ce ne
fosse economicamente bisogno. Il fatto è che bisogna far sentire che
si è tutti insieme in questa missione: “Un grazie di cuore alla
nostra incredibile comunità di ribelli, che ancora una volta ha
supportato la campagna di Kickstarter con enorme generosità ed
entusiasmo. Non esiste sensazione migliore di sapere che non siamo
sole e che così tante persone stanno combattendo per la libertà e
l’uguaglianza, ognuna a modo suo. Alla nostra squadra, grazie per
ispirarci ogni giorno. Grazie per il vostro duro lavoro, per la
vostra ironia, per prendervi cura l’uno dell’altro, e per non
fermarvi mai di fronte alle sfide. Siamo orgogliosissime del team che
stiamo costruendo insieme”. Una vera e propria congiura degli
adulti, verrebbe da dire.