Lettera da Lesbo, un’isola di anime in attesa

È il 2015 quando la Commissione europea decide di far fronte alla crisi migratoria istituendo gli hotspot per l’accoglienza, l’identificazione e la registrazione dei richiedenti asilo e migranti. La Grecia, come l’Italia, è tra i primi paesi che si trovano a dover affrontare un’emergenza migratoria senza precedenti: solo nel 2015 sono più di 856mila gli arrivi nel paese di cui circa 500mila avvengono nell’isola di Lesbo, la più interessata dallo sbarco dei migranti. L’hotspot di Moria, nell’isola che diede i natali a Saffo, nasce per ospitare meno di 3000 persone ma solo nel 2020 ne arriva ad accogliere più di 19mila. Le condizioni di vita nel campo, all’indomani della sua apertura, si fanno mese dopo mese sempre peggiori a causa del suo sovraffollamento e la mancanza di adeguate strutture: i bagni troppo pochi per coprire un’utenza così elevata (si conta una doccia ogni 500 persone e un bagno ogni 200), si vive tutti ammassati, uno addosso all’altro, si fanno file chilometriche per la propria razione di cibo. Accanto al campo ufficiale ne nasce un altro contingente, estensione del primo ma più pericoloso e degradante, denominato da chi ci vive la “jungle”. Nei ricordi di chi ci ha dimorato, nella jungle la notte si dorme sempre con un occhio aperto: quando cala la luce le gang formate da cento, anche duecento, persone si sfidano a volte utilizzando solo le mani, altre volte armati di coltelli. Nella jungle si finisce per essere derubati e per le donne c’è anche il rischio di essere violentate. È una guerra fra disperati nella quale la polizia non interviene.
Condizioni igieniche deprecabili, malati costretti a ore di fila in piedi per ricevere assistenza medica, bambini e ragazzi privi della possibilità di accedere all’istruzione scolastica: questo era il campo di Moria fino all’incendio che lo distrusse a settembre del 2020. Prima del rogo, tra febbraio e marzo dello stesso anno, a inasprire questa situazione già incandescente arrivano da tutta Europa gruppi dell’estrema destra che, dichiarandosi come i difensori della popolazione locale, danno vita a manifestazioni violente, attacchi mirati contro rifugiati e volontari allo scopo di intimidirli. L’attacco più grande, in questo senso, lo subisce l’ong One Happy Family che il 7 marzo si vede appiccare il fuoco che distruggerà il suo edificio scolastico e i due uffici che ne componevano, insieme al giardino, una struttura aperta ai rifugiati: luogo dove ogni giorno migliaia di loro si recavano per frequentare lezioni, mangiare un pasto caldo e ricevere assistenza psicologica. Grazie all’aiuto dei donatori, per fortuna il centro è riuscito poi a riaprire.
L’incendio
L’incendio divampato a Moria l’8 settembre del 2020 non era il primo che si abbatteva sul campo. Pochi mesi prima, il 16 marzo, un altro rogo partito probabilmente da dei fornelli a gas sui quali i rifugiati cucinavano, aveva causato la morte di una bambina di appena sei anni. Un evento tragico che ha trovato poco spazio sulle pagine dei quotidiani ma di cui i profughi qui a Lesbo si ricordano molto bene.
L’incendio di settembre, dalle dimensioni decisamente più grandi, sebbene non provocherà vittime, porterà alla completa distruzione dell’hotspot più grande d’Europa. Sono ben 13mila i rifugiati che all’indomani dell’evento si riversano sulle stradine dell’isola chiedendo ai giornalisti e ai fotografi accorsi da tutto il mondo, che cosa ne sarà di loro. Donne, bambini e anziani dormono sul ciglio della strada, nei cimiteri, nelle fabbriche abbandonate per giorni e giorni. Sperano di poter essere ricollocati in terraferma, che le loro procedure per lo status di rifugiati si accelerino ma per la maggior parte di loro non sarà così. A giugno 2021, per l’incendio vengono condannati, a dieci anni di prigione ciascuno, quattro ragazzi afghani, indicati come i responsabili del rogo. Come riporta “The Guardian”, la sentenza avviene a porte chiuse, né giornalisti né rappresentanti internazionali sono ammessi in aula, a causa delle misure di sicurezza imposte dal Covid. I legali dei giovani hanno denunciato a più riprese che le accuse contro i loro assistiti sono state confermate da un solo testimone, un uomo afghano di etnia pasthun, e che i ragazzi incriminati sono di etnia hazara, una delle più perseguitate in Afghanistan. Inoltre, tre dei ragazzi condannati all’epoca dei fatti erano minorenni e avrebbero dovuto essere stati giudicati dal tribunale dei minorenni, cosa che non è avvenuta e che getta ombre sulla severa sentenza che li vede condannati con il massimo della pena.
Moria 2.0
All’indomani dell’incendio, dopo giorni trascorsi per strada, i profughi vengono ricollocati nel nuovo campo di Mavrovouni, rinominato ben presto “Moria 2.0” per la persistenza di condizioni di vita disumane. 5,36 milioni di euro: questa la somma che l’Unione europea stanzia per la costruzione del sito. Il campo sorge di fronte al mare, è sorvegliato giorno e notte dalla polizia, che controlla il suo perimetro e i suoi ingressi. L’accesso ai visitatori è vietato. La mancanza di docce costringe i suoi ospiti a doversi lavare in mare per un intero inverno, mettendo le donne in primis in condizioni di vulnerabilità. Quando piove le tende si allagano, i vestiti e i pochi oggetti posseduti si bagnano, i pochi metri quadrati nei quali si vive diventano una poltiglia di fango e miseria. Ai migranti è consentito uscire dal campo solo in certi orari e giorni prestabiliti ma, come ci riferiscono, la maggior parte delle volte si tratta di scelte arbitrarie dei poliziotti che all’ingresso decidono chi esce e chi no. Vengono rilasciati permessi speciali per le visite mediche e/o appuntamenti legali, i quali per la maggior parte delle volte hanno luogo a Mitilene, capoluogo dell’isola. Allora li si vede percorrere, d’inverno sotto la pioggia e d’estate con il sole cocente che batte sulle loro teste, quella strada senza marciapiede che conduce in città. Carovane di gente che trascinano buste della spesa, tengono in braccio i più piccoli, spingono passeggini sul ciglio della strada accanto a macchine che sfrecciano ad alta velocità. D’estate, oltre agli appuntamenti, è il caldo torrido che li costringe a doversi allontanare dal campo e a cercare sollievo nell’ombra degli alberi del centro o tra gli edifici della città. Se non hanno le forze per intraprendere questa lunga camminata, spendono le loro ore in luoghi più vicini come nel grande parcheggio della Lidl o nelle ong che operano vicino al campo, a circa 10 minuti a piedi, e che offrono loro dei corsi da frequentare o semplicemente un’area riparata dal sole dove poter chiacchierare bevendo un caffè. È in una di queste che incontro Jameela, una bambina nata nell’isola un paio d’anni fa. Lei che nella sua vita ha visto solo le tende del campo profughi di Moria prima e quelle di Mavrovouni poi, riesce ancora a sorridere e a emozionarsi quando le tendo con il braccio un semplice peluche.
Qui a Lesbo i bambini non posseggono giocattoli. Giocano tra di loro, si inseguono sotto il sole in sella a biciclette sgangherate e arrugginite; si sollazzano accarezzando i gatti randagi che vagano per l’isola o andando a caccia di cavallette. Come Alì, che le insegue tutti i giorni insieme al fratellino. Quando le avvista gli si illuminano gli occhi, le indica e poi con fare deciso le cattura tra le mani. Me le mostra orgoglioso dicendomi qualcosa in farsi che io, purtroppo, non posso capire. Poi la caccia riparte finché non riesce a catturarne almeno due o tre. Le trattiene tra le dita e le avvicina per farle lottare tra loro: questo è il massimo del divertimento per Alì e per i tanti bambini che come lui sono costretti a trascorrere qui a Lesbo delle ore infinite. I più “fortunati” sono giunti qui con i propri genitori, i quali si sforzano ogni giorno per far apparire una tenda una casa. I meno fortunati, invece, sono arrivati da soli o hanno perso i genitori lungo il viaggio. Come Maahir, diciottenne che porta incisi nel volto e nel corpo i segni dell’ingiustizia dei quali, un giorno, anche noi europei saremo chiamati a rispondere. Maahir è partito dall’Afghanistan a soli 14 anni. Sua madre se n’è andata pochi mesi dopo la partenza. Con suo padre è riuscito a raggiungere la Turchia. Da qui, in una notte di primavera, si sono imbarcati insieme ad altre 73 persone per raggiungere l’Europa ma una nave, molto più grande del piccolo gommone col quale navigavano, ha urtato di lato la malcapitata imbarcazione facendola rovesciare. “Tutti annegati” dirà il bollettino della guardia costiera, tranne Maahir che mentre mi racconta la sua storia volge lo sguardo verso quel lembo di mare che separa Lesbo dalla Turchia dove è ora sepolto suo padre. La Turchia è vicinissima da qui, la si vede ogni giorno. Dista poche miglia dall’isola greca eppure solo nei fondali di quella striscia di mare giacciono, irrecuperabili, i corpi di centinaia di persone che hanno rischiato tutto, persino la vita, pur di raggiungere la nostra Europa.
È sempre sull’isola che incontro Marzieh, madre cinquantenne che per sottrarsi all’orrore dei taleban, ha trascinato sulla schiena i suoi due figli fin qui. È straziata mentre mi racconta che le hanno negato la richiesta d’asilo per ben tre volte e che adesso è in attesa dell’ultimo colloquio dopo il quale, se verrà respinta nuovamente, sarà costretta al rimpatrio. Non è l’unica in questa situazione, come lei ci sono anche Abdul, Farahmas, Bilal, Mustafa, Imaad, Najeeb, i quali però mi dicono che non si arrenderanno. Che tenteranno più e più volte finché i cancelli della nostra Europa non si spalancheranno. Perché, quando si sono camminati migliaia di chilometri a piedi, si sono attraversati confini dove i cecchini sparano a vista, si è navigato in mari impervi tappando le orecchie ai propri figli per non sentire le urla, le lacrime e le preghiere, non c’è nessuna legge, nessun poliziotto o nessun muro che possa mettere paura.
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