L’editoria digitale e la scuola
di Dino Baldi e Bruno Mari. Incontro con Nicola Villa
Iniziamo con una domanda generale: sul ritardo dell’editoria digitale nel nostro paese rispetto ad altri paesi europei. Secondo voi da che cosa dipende? Perché l’abbattimento dei costi di produzione non ha portato a una diffusione maggiore di libri digitali a prezzo ridotto? E di che numeri reali parliamo quando intendiamo l’editoria digitale in Italia?
Il ritardo dell’editoria digitale in Italia è verosimilmente figlio della più generale arretratezza che caratterizza gran parte dei consumi culturali nel nostro Paese. Se pure nei cinque decenni successivi alla ricostruzione post bellica gli indici di lettura sono cresciuti, questo incremento non è stato coerente con le aspettative e assai inferiore a quello che ha caratterizzato i Paesi più sviluppati con i quali è sensato fare un confronto. In particolare per quanto riguarda i libri il problema vero è che i lettori in Italia non sono nemmeno la metà della popolazione. Inoltre, secondo la totalità delle indagini di settore che sono state rese pubbliche negli ultimi dieci anni, i lettori abituali, quelli cioè che leggono almeno una decina di libri nel corso di un anno, sono una minoranza ancora più esigua, stimata intorno al 5/6 % della popolazione.
Le cause di questo stato di cose sono molteplici. In primo luogo la forte insufficienza di interventi a sostegno delle biblioteche, i cui bilanci sono stati progressivamente tagliati. Altra grande responsabilità la porta la scuola, dove troppo spesso la lettura si riduce a essere un’occasione di ulteriori attività metalinguistiche e di verifica. A questo proposito non si può che auspicare che si possa arrivare alla totale eliminazione di tutte queste “torture” che hanno come risultato inevitabile di negare ogni piacere della lettura e finiscono spesso per allontanare per sempre i giovani dalla lettura. Infine non si può dimenticare l’inefficienza di un sistema distributivo costoso e squilibrato, in particolare nel Sud del Paese.
È difficile pensare che in questo contesto la diffusione dell’editoria digitale potesse marciare con un passo differente. Inoltre, poiché la domanda di un bene è sempre correlata all’offerta, non va trascurata la lentezza da parte degli editori nella digitalizzazione dei propri cataloghi. Se negli Stati Uniti nell’arco di un paio d’anni dal lancio di kindle l’offerta di titoli in lingua inglese ha superato il milione, in Italia dopo due anni, a fine 2012, l’offerta di titoli in formato digitale non arrivava a 40.000 referenze (dati AIE). Sempre negli Stati Uniti, dopo tre anni dal primo lancio di kindle (autunno 2007) le vendite di eBook avevano raggiunto una quota del mercato vicina al 15%. Il mercato italiano, partito nel 2010 a distanza di tre anni da quello statunitense, nel 2013 valeva intorno al 3% (circa 30 milioni di euro; si tratta in questo caso di una stima, perché Amazon, il principale rivenditore di eBook, non rilascia alcuna informazione quantitativa disaggregata).
Un elemento di criticità da considerare è quello dei limiti tecnologici. Infatti la tecnologia attualmente disponibile (ci riferiamo ai formati ePub e mobipocket con i quali si realizzano gli eBook) consente di realizzare con risultati soddisfacenti una versione digitale a prezzi contenuti dei libri di solo testo, mentre per i libri illustrati gli attuali standard sono o poco performanti o molto costosi e difficilmente remunerativi. Per questa ragione occorre essere molto attenti quando si parla di abbattimento dei costi di produzione, perché ripeto ciò vale unicamente per i libri di solo testo, non illustrati. Se si parla in particolare di libri per la scuola, che hanno nella maggior parte dei casi una struttura complessa, non solo non c’è una riduzione dei costi, ma un importante incremento. Infatti realizzare un corso scolastico in formato digitale – a meno che non si intenda il solo PDF che si realizza senza costi aggiuntivi a quelli della versione cartacea – comporta un processo complesso e, almeno per il momento, assai costoso che in questa fase non è assolutamente remunerato dai ricavi. Infatti, anche quest’anno, benché la legge che imponga l’adozione in formato solo digitale o almeno misto, l’attenzione riservata dal mondo della scuola alle proposte digitali degli editori è stata molto distratta. Tutti chiedevano se c’era anche la versione digitale, probabilmente per rassicurarsi sul fronte legale, ma pochissimi chiedevano una presentazione. Secondo le nostre stime non è irragionevole prevedere che l’adozione in formato solo digitale si sia attestata al di sotto del 5%.
Si fa un gran parlare di “scuola digitale” sui mezzi d’informazione, dalle Lim alle Classi 2.0 che utilizzano tablet e computer per la didattica, ma a parte rari casi di scuole in zone ricche (Lombardia e Emilia Romagna), le risorse che lo Stato stanzia ogni anno per la scuola pubblica sono insufficienti per coprire tutte le scuole italiane. Per quanto riguarda l’editoria digitale come si stanno comportando gli editori che realizzano i manuali per scuole e università? Quali sono i numeri attuali e gli obiettivi nei prossimi cinque anni? È previsto un aiuto dallo Stato? E, soprattutto, l’editoria digitale a scuola garantirà un maggiore accesso allo studio, un risparmio per l’acquisto di libri, o rischia di escludere le fasce più povere?
Una parte del problema sta proprio nell’uso di espressioni quali “Scuola digitale”, o simili, come sinonimo generico di modernizzazione, mentre in realtà si tratta di un processo complesso, che si porta dietro un carico di temi e livelli di ragionamento anche antitetici di cui non c’è sempre piena consapevolezza neppure tra gli addetti ai lavori.
Di che ordine di scuola stiamo parlando? Tra primaria e secondaria cambia moltissimo. Sono davvero chiare le esigenze e i profili dei diversi attori in gioco? E sul piano dell’hardware, è chiara la differenza tra strumenti di lavoro individuale, come tablet e smartphone, e di uso collettivo come le LIM? Quando di parla di “contenuti digitali” ci si riferisce a risorse collegate al classico libro di testo, oppure alla sparizione dello stesso libro per andare verso risorse, come si usa dire, granulari, variate e liberamente aggregabili? Occorre pensare a forme specifiche di validazione per i contenuti esterni alla filiera editoriale tradizionale? E questi contenuti e risorse sono online (presupposto minimo per lo sviluppo di una didattica digitale) o necessariamente consultabili anche offline?
Si potrebbe andare avanti a lungo elencando tutte le condizioni di contorno, le scelte, i presupposti e le conseguenze spesso radicalmente diverse che ciascuna scelta si porta dietro: non solo le strategie a breve e medio termine, ma anche i problemi di tipo didattico, economico, gestionale; problemi, questi ultimi, ai quali si collega la questione del risparmio potenziale per le famiglie, della potenziale discriminazione per le fasce meno abbienti, del futuro dell’editoria scolastica; ma anche la differenza tra un’innovazione sostanziale o solo di facciata. Chi deve comprare l’hardware? Chi lo gestisce e lo aggiorna? Quali devono essere i confini dell’iniziativa privata (non solo gli editori, ma i nuovi fornitori di strumenti e di servizi come Apple, Google, Amazon)? E cosa dire della piattaforma che dovrebbe gestire le diverse componenti didattiche e amministrative della scuola digitale? È ipotizzabile una integrazione di qualche genere tra le piattaforme oggi rigorosamente separate dei diversi editori, o è meglio andare ancora oltre e puntare su una piattaforma pubblica? Chi gestisce le credenziali di accesso e i dati sensibili?
Dire “Scuola digitale” dunque non vuol dire niente, perché vuol dire troppe cose. A meno che non si delimiti esplicitamente il campo, intendendo, perlomeno in una prima fase, tutto quel complesso di azioni di tipo economico e amministrativo che portino ogni classe (e non, come oggi, metà delle classi) ad avere un collegamento internet e a poterlo utilizzare quotidianamente. Il compito della mano pubblica dovrebbe essere proprio quello di garantire le condizioni abilitanti, a partire dalle quali si possa sviluppare una pratica concreta e diffusa, prima ancora che dibattiti interessanti ma sterili.
Occorrono dunque infrastrutture, formazione e, sul piano legislativo, una normativa scarna, poco intrusiva, che lasci spazio all’autonomia degli insegnanti e degli editori, alla quale si affianchino linee guida di orientamento, come in Francia e altrove, che indirizzino i docenti nella scelta degli strumenti sulla base della propria esperienza di insegnamento. Ad oggi invece l’intervento pubblico è stato ambiguo e insicuro, troppo ambizioso e al tempo stesso troppo debole e frammentato, indeciso tra una spinta dall’alto, nella convinzione che la scuola non ha le forze per cambiare da sola, e una strategia dal basso, che cerca di tenere conto del quadro di realtà. Dal 2009 ad oggi si sono succeduti quattro ministri dell’Istruzione; tutti, a eccezione dell’ultimo, hanno emanato una propria legislazione sul libro digitale, stabilito termini puntualmente procrastinati per l’innovazione (l’obbligo di adozione del cosiddetto libro misto carta-digitale), definito regole e linee guida o troppo generiche o troppo puntuali, spesso in conflitto le une con le altre.
Questa mancanza di chiarezza e stabilità, insieme con l’incertezza sugli obiettivi e sui modi di raggiungerli, è un problema serio, perché ha autorizzato tutti (in primo luogo gli editori) a difendersi interpretando la normativa in termini burocratici prima che sostanziali. Non si tratta solo di generico misoneismo o di difesa di un privilegio (che pure in molti casi c’è), ma appunto della capacità della scuola italiana, così come è oggi, di fare propria un’interpretazione che non sia più che formale di un decreto, limitando se non annullando di fatto gli effetti della “rivoluzione” di cui tanto si parla. Può piacere o meno, ma l’atteggiamento degli editori scolastici di fronte al nuovo è uno specchio fedele di quello della scuola nel suo insieme: il dovere di un editore non di nicchia è quello di realizzare contenuti utilizzabili dalla maggior parte degli insegnanti, e non solo da una ristretta élite di illuminati. Fino a quando, progettando i propri libri online e misti, l’editore sarà costretto ad assestarsi sul contesto meno evoluto e sul profilo utente meno maturo, non si riuscirà mai ad uscire dalla logica della sperimentazione che da troppi anni caratterizza il rapporto tra scuola e tecnologie; mentre sarebbe ora di passare, certo gradualmente, ma senza incertezze, verso una strategia di applicazione strutturale dell’innovazione.
Tuttavia, se è vero che la scuola non si cambia per decreto, è altrettanto vero che gli editori dovrebbero abbandonare l’attitudine difensivistica con cui in molti casi interpretano questa fase di transizione. La dialettica tra “innovatori” e “conservatori” all’interno delle case editrici è sana e va incoraggiata, perché contribuisce al riequilibrio delle visioni estreme; eppure è vero che c’è una naturale inclinazione a dar credito prima di tutto alle frange più conservatrici e retrive del corpo insegnante, con l’effetto di assecondare reciprocamente gli istinti più tradizionalistici e polemicamente ostili al nuovo e di creare un fronte di resistenza passiva che non potrà che avere conseguenze negative per tutti, editori, insegnanti e studenti.
Per queste ragioni fare previsioni sull’evoluzione di questo quadro è molto difficile e certamente pur considerando la migliore delle ipotesi, quella che la mano pubblica faccia quanto le spetta – non certo dare aiuti agli editori – cioè investire quanto serve per la formazione e per creare le infrastrutture necessarie, resta comunque una forte preoccupazione per i rischi di discriminazione sociale che questo processo potrebbe facilmente implicare. Infatti per sfruttare a pieno l’innovazione tutti gli studenti dovranno avere la disponibilità di adeguati dispositivi il cui costo per molte famiglie potrebbe essere proibitivo.
Parliamo dell’apprendimento, altro tema di dibattito sui media. La formula “nativi digitali” ha avuto una fortuna immediata per descrivere le nuove generazioni come “figlie di internet”. Mentre Roberto Casati ha parlato nel suo libro per Laterza di “coloni digitali”, che critica una delega digitale e tecnocratica che si sta imponendo. Qual è, secondo il punto di vista privilegiato di editore di scolastica, l’atteggiamento degli insegnanti verso i nuovi media e quello degli studenti? Come sta cambiando l’apprendimento e come cambierà nei prossimi anni quando entreranno nel mondo della scuola nuove generazioni di educatori? Esistono oggi esempi virtuosi in Italia all’avanguardia?
Al di là della sua dubbia fondatezza scientifica, questa fissazione per i “nativi digitali”, fortunatamente in calo, è prima di tutto controproducente. L’idea che gli studenti abbiano una conoscenza innata delle tecnologie stabilisce una distanza paralizzante tra chi insegna e chi impara, fornisce un alibi agli insegnanti meno aperti al nuovo e sottrae la scuola dall’impegno della media education, che invece è necessaria e urgente, perché non si può confondere la capacità empirica nell’utilizzo di uno strumento con la competenza che sola ne consente un uso consapevole e avvertito. È vero, come fa notare Casati, che c’è un rischio reale nel far entrare in classe le tecnologie digitali in maniera acritica: un tablet non è solo un oggetto tecnologico, ma un sistema invasivo che, una volta introdotto, influenza a cascata ogni scelta successiva.
Più in generale, non dovrebbe esserci bisogno di ripetere che non c’è nessuna relazione diretta fra nuove tecnologie e progresso nella didattica. Dotare una scuola di strumenti e contenuti digitali non offre nessuna garanzia di reale innovazione e di un migliore apprendimento: ci sono anzi evidenze del contrario, nei casi in cui le tecnologie non siano legate a un progetto o nascondano dietro un’apparenza scintillante paradigmi di apprendimento obsoleti.
Ma cosa si intende realmente per innovazione? Gli strumenti digitali possono aiutare a fare meglio (più rapidamente, con minore spesa) quello che già si fa, oppure possono essere utilizzati per fare cose nuove. Non c’è nulla di sbagliato nell’utilizzo del digitale per supportare una didattica ancora tradizionale, ed è per contro molto dubbio che si riesca a cambiare la didattica senza passare da una fase di alfabetizzazione larga e diffusa, un’abitudine all’uso della rete e degli standard di base della comunicazione e interazione digitale. Questo significa in primo luogo introdurre nuovi, semplici strumenti nella cassetta degli attrezzi dell’insegnante, il quale poi ne farà l’uso migliore in base alla propria esperienza e allo specifico contesto.
Quanto tempo ci vorrà perché un insegnante che utilizza sussidi multimediali in classe, una biblioteca di video didattici ad esempio, comprenda che il suo ruolo non può ridursi ad attaccare un cavo e premere play? Quanto ci vorrà perché si renda conto da solo che i contenuti multimediali “passivi” possono essere più utilmente fruiti dagli studenti a casa, liberando spazio, in classe, per l’approfondimento, la discussione, l’esercitazione? Banalizzando all’estremo, è il tema della classe capovolta (flipped classroom), di cui oggi si parla molto e che ha indubbiamente elementi di interesse. Ancora una volta, la priorità sembra essere quella di mettere gli attori in gioco (dirigenti, insegnanti, editori) nella condizione di fare una scelta: tutti, non solo le frange privilegiate (dal punto di vista delle dotazioni e della cultura digitale). Questa scelta, è inevitabile, in alcuni casi potrà essere di retroguardia: sarà lo stesso contesto (quello vero, non quello percepito o inventato ad arte) a “giudicare” i docenti e gli editori più arretrati e inadeguati.
Ma come valutare questa arretratezza? Allargando ulteriormente il campo, se la strada verso il digitale è ormai tracciata, si rende necessaria una riflessione sul ruolo della scuola e sul suo rapporto con il mondo esterno. L’apertura che il digitale si porta naturalmente dietro non riguarda solo la classe, ma lo stesso libro di testo, obbligatorio o meno, e l’offerta dell’editore, che dovrà accettare prima o poi di mettere in relazione i propri contenuti con altri sui quali non ha pressoché nessun controllo, creati da altri editori, dagli stessi insegnanti o genericamente derivati dalla rete. Analogamente, attivare un collegamento internet in un’aula non significa soltanto portare una connessione di rete: significa spezzare l’autoreferenzialità dell’ambiente classe e aprirla al mondo esterno in un modo mai sperimentato prima. Significa rinegoziare il proprio rapporto con il mondo esterno, farsi di nuovo delle domande su quale deve essere il rapporto tra dentro e fuori: di totale equivalenza, come sembrano chiedere gli innovatori radicali, oppure un rapporto che presupponga la classe come un ambiente protetto e controllato?
Rinegoziazione non significa necessariamente capitolazione. Oggi, a maggior ragione, dovrebbe essere garantito alla scuola il diritto all’inattualità: un “disallineamento” rispetto al mondo esterno che non significa arretratezza, ma la possibilità di porsi in maniera critica, dialettica, rispetto a questo mondo, senza ridursi ad esserne una maldestra parodia.
In un saggio di quattro anni fa, Che fine faranno i libri (Nottetempo), Cataluccio affrontava con realismo le inevitabili trasformazioni che la rivoluzione digitale comporterà per la produzione, distribuzione e fruizione dei libri in futuro. Quale previsione è ragionevole oggi? Che fine faranno i libri?
In ambito digitale quattro anni sono un tempo molto lungo, tale per cui usualmente molte previsioni vengono smentite o superate. Ad esempio c’era chi per l’appunto nel 2010 decretava, non senza sadici sorrisetti, la inevitabile e rapida fine dei libri di carta. Naturalmente ciò non è accaduto, ma non solo, negli Stati Uniti, dove gli eBook hanno avuto la più rapida crescita (per altro assestatasi nel 2013 e nel 2014), le vendite in formato digitale sono state per oltre i due terzi aggiuntive e non sostitutive delle vendite di libri di carta. Quanto al mercato italiano, la crisi che a partire dal settembre 2011 ha pesantemente colpito la vendita dei libri, ha tutt’altre ragioni che la concorrenza degli eBook. Infatti, secondo i dati Nielsen (per molti persino sottostimati) tra il 2011 e il 2013 il mercato ha perso intorno al 16% e nel 2014 la tendenza è ancora in calo di altri 4 punti circa. Confrontiamo quindi un calo del 20% con il valore del mercato eBook che non arriverà nel 2014 al 5%. Le ragioni di questo pesante e pericoloso calo stanno evidentemente nella crisi economica generale che condiziona le capacità di spesa in tutti i settori.
Alla domanda che fine faranno i libri è difficile dare una risposta univoca. Il futuro dei libri, come di gran parte dei prodotti editoriali, sarà verosimilmente sempre più digitale, soprattutto perché il digitale apre la strada a nuovi prodotti editoriali profondamente diversi dal libro tradizionale, sia per struttura che per modalità d’uso. Se la scrittura, praticamente da quando è stata inventata e indipendentemente dal supporto d’uso (tavoletta, volumen, codex, libro), è sempre stata caratterizzata da una modalità di lettura fondamentalmente sequenziale, nei “libri del futuro” i contenuti saranno gestiti da programmi informatici che rendono possibili, oltre alla normale lettura sequenziale di un testo, altre importanti funzionalità come la multimedialità, l’ipertestualità e l’interattività. Funzionalità certamente non nuove, già fruibili da quando c’è internet, ma con la differenza sostanziale è che oggi sono disponibili in mobilità.
Il futuro digitale si fonderà sicuramente su un modello industriale profondamente diverso da quello che ha governato l’economia dei prodotti fisici. Certamente sarà un’economia che vedrà una presenza prepotente dei “Lord del web” (Google, Apple, Amazon e tutti i social network) che cercheranno di occupare i “nuovi spazi” di mercato con tutta la forza economica che i forti guadagni consentono loro. Sarà un’economia che dovrà subire il condizionamento di una pirateria che, al momento, non sembra in nessun modo controllabile. Infine quella digitale, ancor più di quella fisica, sarà un’economia globale. Quello digitale, un mercato per sua natura virtuale, non solo non subisce il limite della lunghezza dello scaffale, sul quale più che tanti libri non ci possono stare, ma è anche un luogo accessibile in qualsiasi momento e da qualsiasi postazione al mondo connessa al web. Sarà un’economia i cui parametri si modificheranno radicalmente: molti costi (preprint tecnico, stampa, imballo, spedizione, magazzinaggio, rese e naturalmente alcuni costi commerciali) sono destinati se non a azzerarsi, certamente a essere molto ridimensionati. Ma oltre a quella dei costi si modificherà anche la struttura dei ricavi. Due soli esempi. La natura globale del mercato consentirà di poter diffondere il proprio copyright in modo diretto senza l’intermediazione di partner nei vari territori (a patto di sostenere i costi della traduzione). Inoltre i libri non andranno più fuori catalogo e si potranno vendere nel tempo e nello spazio per sempre.
Indubbiamente l’ecosistema del libro dovrà trovare un nuovo equilibrio ma, almeno nel breve medio periodo, la carta potrebbe conservare un suo ruolo, in dialogo e collaborazione con gli strumenti digitali che le sono complementari e in molti casi non necessariamente sostitutivi. Sul fronte della scuola, ma più in generale della formazione e della didattica, la relazione tra digitale e carta, applicazioni e ambienti di apprendimento digitali, dove le differenti risorse si devono integrare in modo produttivo, è già uno scenario concreto.
Dino Baldi responsabile del dipartimento digitale Giunti scuola
Bruno Mari vicepresidente Giunti editore