Le sinistre USA e la guerra contro Gaza
Quando guardiamo alle mobilitazioni che negli Stati Uniti hanno spinto in mille forme per un cessate il fuoco a Gaza e per cambiare il modo in cui l’amministrazione Biden si è comportata nei confronti della guerra condotta da Israele nella Striscia, forse dobbiamo parlare di identità e di generazioni. Nel corso dei mesi abbiamo assistito a dimissioni da posti apicali del Dipartimento di Stato, a prese di posizione forti da parte di politici ebrei quali Bernie Sanders o del leader del Senato Schumer, a manifestazioni, a campagne per manifestare nelle urne delle primarie lo scontento di segmenti dell’elettorato democratico. Queste mobilitazioni e l’atteggiamento sprezzante del governo Netanyahu nei confronti degli inviti a un briciolo di moderazione da parte americana, hanno contribuito a cambiare l’atteggiamento dell’amministrazione Biden, in evidente difficoltà internazionale e interna.
Mesi di sondaggi sull’opinione pubblica statunitense ci segnalano però che cambiare segno alla retorica senza compiere passi formali quali l’interruzione delle forniture militari non è una strategia credibile: Biden viene criticato da chi è inorridito da quanto capitato a Gaza e visto come un leader debole da chi approva e da chi contesta la carneficina portata avanti da Israele.
Quante identità vengono messe in gioco da un conflitto come quello israelo-palestinese in un paese dove sono tutti immigrati e dove le minoranze ebrea e musulmana rappresentano una porzione consistente della popolazione in diversi Stati? Non abbiamo dati ufficiali perché il censimento USA non fa domande sulla religione, ma sappiamo che gli ebrei sono circa il 2,5% della popolazione nazionale – molti di più a New York, Washington, in Florida, Massachusetts, California, New Jersey – mentre i musulmani l’1,2% – in Michigan, Minnesota, New York, Illinois, New Jersey sono molti di più (Michigan e Minnesota sono, fra l’altro, Stati in cui è necessario vincere per arrivare alla Casa Bianca). In ciascuno di questi Stati ci sono grandi città, un fattore non indifferente se parliamo di movimenti e manifestazioni. L’identità di queste minoranze è articolata: molti ebrei sono originari dell’est europeo, altri sono lì dalle grandi migrazioni, altri ancora sono anche israeliani. I musulmani, invece, sono anche afroamericani convertiti, sebbene la maggioranza non sia nata negli Stati Uniti, e sono la minoranza più giovane, in crescita e che, in percentuale maggiore rispetto al totale, frequenta l’università. Sono anche la minoranza per la quale la religione gioca un ruolo più importante (ISPU, American Muslim Poll 2022). Come si sentono questi milioni di persone quando vedono le immagini del 7 ottobre e quelle di Gaza? Come si rapportano a quel che capita a migliaia di chilometri, ma che coinvolge persone, posti, luoghi di culto centrali per la loro identità? E che rapporto hanno con essi? Cosa pensava chi ha scritto questo post dei National Students for Justice in Palestine (l’ombrello dei gruppi studenteschi che ha organizzato molte delle manifestazioni): “Con la loro forza e resilienza, i cittadini di Gaza hanno inferto il colpo più duro all’entità sionista e all’impero statunitense da decenni a questa parte. Da Gaza allo Yemen alle Filippine, il Sud globale si solleva contro l’egemonia statunitense”? E che rapporto hanno con Israele le Jewish Voice for Peace che tante manifestazioni hanno organizzato in questi mesi e si dicono anti-sioniste (spiegando però che quella è un’idea nata in un momento storico, che ha preso forme e pieghe diverse e che quindi non c’è un solo sionismo)? E ancora: come vivono le proteste quegli ebrei americani sdegnati dal modo in cui Netanyahu ha risposto al 7 ottobre, ma che hanno in casa una foto di Gerusalemme perché quella è come una foto di casa (o meglio, della potenziale ultima casa possibile nel peggiore dei casi)?
Ciascuno guarda a sé stesso, alla propria storia personale e identità quando osserva i fatti del mondo. Vale per gli afroamericani che solidarizzano con la Palestina (che ha sempre ricevuto solidarietà dagli ebrei americani di sinistra) perché sono stati e sono oppressi; vale per gli under 30 americani che conoscono solo la crisi (Iraq, 2008, Trump, Covid, Ucraina) e la polarizzazione crescente, i toni sopra le righe e l’uso dei social network come armi – e forse per questo, spesso a sinistra, si sono lasciati andare a commenti più che discutibili. La sezione di New York dei Socialisti Democratici d’America ha promosso una manifestazione in cui gli oratori hanno elogiato l’attacco del 7 ottobre, mentre Black Lives Matter Chicago ha postato la foto di una figura in parapendio come quelli usati da Hamas durante l’attacco. Difficile definire come politiche queste posizioni: si tratta di reazioni emotive che somigliano a quelle degli ebrei americani in ansia per parenti o amici israeliani. Inoltre, non sono politiche nel senso che non è questo tipo di azioni e proteste che ha contribuito a cambiare la posizione dell’amministrazione Biden. Le ragioni vanno cercate negli scenari regionali e nelle preoccupazioni per il voto di novembre.
Tante manifestazioni degli ebrei americani, ad esempio, richiamano un’idea dell’essere ebreo che non è necessariamente legata all’essere pronti a difendere i comportamenti di Israele sempre e a qualsiasi costo. Con le loro iniziative e con un certo coraggio, segmenti della società ebraico-americana hanno contribuito a dare una copertura alle posizioni critiche nei confronti di Israele, tant’è che negli USA le accuse di antisemitismo a chiunque protesti per Gaza sono meno frequenti che in Italia o in Germania.
Il discorso sull’identità vale anche per quegli arabi americani del Michigan e del Minnesota che dall’interno del partito democratico hanno organizzato una campagna per segnalare a Biden la loro disapprovazione nell’urna, invitando i democratici che votavano alle primarie a scrivere “uncommitted”, che è come dire “nessun candidato”. A fine gennaio, Waleed Shahid, figura chiave/stratega dei Justice Democrats, l’ala sendersiana/ocasiana del partito, proponeva di usare un sistema simile a quello usato in Michigan da Obama contro Hillary Clinton (per ragioni procedurali Obama era stato escluso dalla scheda), ossia non dichiarare la propria preferenza alle primarie per “dimostrare quanto ampio sia il rifiuto al sostegno e finanziamento del presidente Biden alla guerra del governo israeliano a Gaza”. Gli uncommitted sono stati 100.000 in Michigan e quasi il 20%, risultati sopra la media, in genere il 7%, si sono avuti anche in Massachusetts e Colorado. Gli arabi americani per settimane hanno organizzato manifestazioni, fatto oltre 500.000 telefonate e inviato più di 600.000 SMS agli elettori solo in Michigan, con l’obiettivo di raggiungere i 10.000 voti – numero con cui Biden ha vinto nello Stato.
Sono state coinvolte organizzazioni della sinistra, ma anche comunitarie come Emgage, che lavora per aumentare la partecipazione politica degli arabi americani. Lo sforzo ha portato 200 sindacati nazionali – come i metalmeccanici della UAW o quello delle infermiere – e decine di “local”, cioè sezioni locali, a chiedere un cambio di rotta da parte dell’amministrazione. I 100.000 voti incassati sono un successo enorme e insperato che ha portato al rilancio, prima in Minnesota e poi altrove.
Il Minnesota ha pure una grande comunità musulmana e somala e, come il Michigan, ha eletto una rappresentante donna, di origini straniere e musulmana – la somala Ilhan Omar, mentre in Michigan è emersa la palestinese Rachida Tlaib. Anche qui lavoro nelle moschee, migliaia di telefonate, coinvolgimento di organizzazioni che lavorano sul territorio. Anche qui un risultato oltre le aspettative. Nel frattempo Amnesty, Oxfam America, MoveOn (che è una piattaforma di mobilitazione e organizzazione della sinistra USA) hanno raccolto più di un milione di firme. Gli arabi americani e la sinistra democratica, insomma, la politica l’hanno fatta eccome.
A proposito di uncommitted, le analisi del voto delle primarie ci indicano che quei voti nell’urna sono arrivati nelle aree a grande presenza arabo-americana come l’area di Ann Arbor in Michigan, ma anche in quelle dove vive un’alta quota di giovani. Lo sforzo, insomma, ha segnalato che la politica di Biden è impopolare non solo per ragioni comunitarie.
L’elettorato giovane è anche quello che si è avvicinato alla politica e alla sinistra perché un vecchio ebreo di New York trasferitosi in Vermont ha saputo parlare loro di giustizia sociale e ambientale. Bernie Sanders ha giocato un ruolo cruciale nel proporre ordini del giorno al Senato che congelassero gli aiuti militari, ordini del giorno bocciati ma votati da 11 senatori democratici appartenenti alle varie anime del partito. Dietro Sanders si sono mosse Tlaid, Omar e le altre elette della “Squad”, il gruppo di giovani donne portate in Congresso dai Justice Democrats, gruppo cruciale per alimentare la voglia di partecipazione e mobilitazione delle giovani generazioni.
Torniamo ai numeri. Se guardiamo all’effetto della guerra sui sondaggi in rapporto alla questione israelo-palestinese scopriamo che la logica novecentesca di Biden non funziona con i segmenti giovani dell’elettorato USA. Nel 2023, il 64% dei giovani americani aveva un’opinione positiva di Israele, nel 2024 lo stesso sondaggio Gallup rilevava che quegli stessi giovani avevano cambiato idea e che solo il 38% apprezzava lo Stato ebraico. Anche l’opinione nei confronti dell’autorità palestinese è cambiata in peggio, passando dal 38% al 34% dei favorevoli. La guerra non ha cambiato granché i punti di vista sul conflitto israelo-palestinese (quindi non in questa guerra in particolare), con il 51% che si sente più solidale con gli israeliani e il 27% con i palestinesi. Ma nel 2020 erano rispettivamente il 60% e il 23%. I palestinesi, insomma, guadagnano leggermente in simpatie e gli israeliani perdono amici. Un fenomeno non cominciato ieri che coincide pressappoco con l’ultima avventura di Netanyahu al governo. Il premier israeliano non è mai stato così impopolare tra gli americani: il 33% ha di lui un’opinione favorevole, mentre il 40% ritiene che l’amministrazione Biden non stia facendo abbastanza per porre fine alla guerra. A novembre, cioè poche settimane dopo la strage del 7 ottobre, il 50% approvava la risposta di Israele, una percentuale piuttosto bassa se pensiamo che l’impatto emotivo dell’attacco era ancora forte. Per gli under 30 la politica di Bibi, il suo disprezzo per qualsiasi soluzione negoziata al conflitto e il suo sostegno ai coloni sono una macchia. Le percentuali di disappunto per la guerra, così come l’opinione negativa nei confronti di Israele si impennano tra gli under30 e Biden, ricordiamolo, ha vinto le elezioni anche grazie a un vantaggio di 24 punti su Trump tra i giovani. Tutti i sondaggi del 2024 mostrano maggioranze a favore di un cessate il fuoco e uno di YouGov, che chiede specificamente se sia il caso di bloccare l’export di armi verso Israele, vede il 52% rispondere affermativamente e il 27% rispondere “No”.
Questi dati ci raccontano come Biden e i democratici dovrebbero essere grati a chi ha organizzato le campagne e le manifestazioni dando modo ai giovani e agli arabi americani di esprimere il loro giudizio nell’urna. Se Biden si è progressivamente spostato è proprio grazie alla politica e alla capacità organizzativa di questi segmenti della sinistra. Un video rubato diventato virale sui social, mostra una militante “dura e pura” che insegue Alexandria Ocasio-Cortez, rappresentante di New York, chiedendole: “Perché non hai chiamato genocidio quel che succede a Gaza?”. Dopo un batti e ribatti Ocasio risponde che “così non aiuti quella gente, non aiuti chi soffre a Gaza”. Tre settimane dopo, Ocasio parlerà di genocidio in un discorso alla Camera dei rappresentanti. Ma tre settimane di guerra a Gaza hanno cambiato il quadro: c’è stato il blocco degli aiuti, la fame e la sordità totale di Israele a qualsiasi appello umanitario.
Quel che la rappresentante di New York rispondeva ai newyorchesi che la inseguivano per le scale mobili di un cinema, ha invece senso politico e ci richiama ancora alla questione dell’identità. L’uso della parola genocidio, l’accusa a Israele di essere “nazista” e toni simili, sembrano pensati apposta per mettere in difficoltà, o far tacere, gli ebrei che non risparmiano critiche a Israele e detestano Netanyahu. Se si escludono gli antisionisti militanti, gli ebrei si troveranno in difficoltà a manifestare assieme a chi ha come obbiettivo primario quello di gridare in piazza “genocidio”. D’altra parte, anche l’equivalenza tra la critica durissima di Israele e l’antisemitismo è una sciocchezza o una furbizia cinica. Detto meglio con le parole di Michelle Goldberg, opinionista del New York Times: “Dopo aver sostenuto per anni che l’intenzione dietro parole offensive conta meno degli effetti che queste hanno, la sinistra dovrebbe essere attrezzata per usare un po’ di sensibilità nelle discussioni sugli ebrei e sul sionismo. Rifiutarsi di farlo non aiuta i palestinesi. Convince solo troppi ebrei che le grida di liberazione dei palestinesi rappresentino una minaccia”.