Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Le parole non bastano

8 Giugno 2013
Federica Lucchesini

La premessa breve è questa: la scuola media va a scatafascio e da nessuna parte troviamo una riflessione organica e intellettualmente armata per pensare questa crisi.

Si tratterebbe infatti di mettere in relazione due temi potenti: una teoria della preadolescenza da una parte e una teoria delle uguaglianze dall’altra. È stato così fin dall’inizio: il lunghissimo, e a modo suo sempre cieco dibattito che ha accompagnato la nascita e poi le riforme decisive della scuola media unica contemplava queste due espressioni: “la scuola del preadolescente” (o la scuola dagli 11 ai 14 anni) e “la scuola di tutti”. Eppure mai si è arrivati davvero a pensare un individuo in Europa a 11 anni e cosa significhi dare a tutti un accesso emancipatorio alla cultura. La pubertà è il momento della maturazione sessuale ed è anche quello in cui sorgono nuove facoltà cognitive e nuovi interessi speculativi: la società, il suo funzionamento, la complessità del mondo e il proprio possibile posto in esso. In definitiva la differenza fra sé e gli altri e le differenze sociali divengono l’interesse dominante; l’infanzia finisce e la legge, il potere, la cultura, le differenze diventano l’alfabeto da apprendere per parlare come membri attivi della città.

Per iniziare a imbastire una riflessione converrà dare per assodati due punti: 1) la scuola cambia davvero solo se cambia il mondo attorno ma intanto i ragazzini e le ragazzine non aspettano per crescere; 2) messa tra parentesi l’istituzione (che insiste su chi ci sta dentro con la pesantezza che sappiamo) bisogna vedere come farsi istituenti di pratiche e pensieri diversi, sia “lì dentro” che nelle non-scuole che nascono all’esterno, considerando entrambi questi ambiti generosi e rispettabili per chi abbia voglia di fare pedagogia o mestieri educativi.

C’è un libro molto bello di Françoise Dolto che si intitola Adolescenza. Esperienze e proposte per un nuovo dialogo con i giovani trai 10 e i 16 anni. È una raccolta disparata di articoli e interventi e ad avere la pazienza di leggerli tutti se ne esce con una impressione molto profonda di come sia e di come si possa trattare una persona nella fascia d’età compresa tra la fine dell’infanzia e l’adolescenza vera e propria.

La grande psicoanalista infantile dice sostanzialmente quattro cose: vorrebbero usare del denaro; vorrebbero usare dell’amore e del corpo sessuato; vorrebbero diventare grandi e dire addio all’infanzia senza esser divorati dalle paure, sia quelle di ieri che di quelle di domani; vorrebbero che si sapesse stare loro vicini ma anche lontani.

E poi più volte ribadisce che l’inizio dell’adolescenza è un periodo delicatissimo e decisivo come quello dei primi mesi dopo la nascita: il paragone ritorna decine di volte, ogni volta declinato diversamente e ogni volta rafforzato. La “muta” adolescenziale è muta davvero, dice: le/ i preadolescenti in seduta analitica ad esempio parlano pochissimo, sebbene non se ne rendano conto e abbiano anzi l’impressione contraria. Bisogna sapere che sono come crisalidi: se le apri forzando c’è dentro acqua, cioè nulla; se ci parli, se ascolti, se agisci nella relazione devi sapere usare un grande tatto perché all’apparenza non succede niente ma in realtà intervieni in una fase della formazione molto delicata. E poi Dolto specifica sempre che in questo secondo venire al mondo servono altri adulti oltre alla famiglia, che se hai un una famiglia chiusa, con pochi scambi sociali, che ti impedisce incontri costruttivi con altri adulti, in questa fase tu rischi di marcire come un feto che non viene alla luce. È un linguaggio crudo e immaginifico, che qui parafraso alla meglio, ma che è davvero molto utile per entrare in situazione e comprendere.

La metafora dell’inizio della pubertà come seconda nascita è antica. Ne scrive già Rousseau nell’Emile. E poi la riprendono in maniera attentissima la Montessori e la Dolto, per l’appunto. Le due scienziate concordano in più luoghi: come il neonato la/il preadolescente è sensibilissimo e impressionabilissimo. Come il neonato, aggiungerei, è muta/o e ci vuole molta pazienza, molta fiducia nel tempo e nella bontà di quello che si fa anche in assenza di risposte evidenti e immediate. Chiunque lo sa: è molto più facile e piacevole stare (o fare cose) con un bambino di 8-9 anni o con un adolescente di 16-17 che con un/una mutante di 12-13. Sembrano non ascoltare (bene), non capire (bene), non parlare (bene) e invece tutto quello che “butti dentro” in questo giro d’anni (come nel primo e secondo di vita) ti torna indietro potentemente.

Sono anche gli anni, del resto, in cui nascono le vocazioni, vengono alla luce le inclinazioni. Si sceglie davvero e di nuovo qualcosa per sé. Quindi la media, o secondaria di primo grado, sarebbe effettivamente la scuola dell’orientamento, non era sbagliata l’idea di un grado d’istruzione apposito per lasciar affiorare, in condizioni paritarie ed eccellenti, il carattere e l’inclinazione di ciascuno. Ma ovviamente è ridicolo pensare di consentire questa emergenza valutando i risultati dell’apprendimento per ogni materia, peraltro insegnata assurdamente come ancora si fa cioè sui libri e seduti nell’aula per ore, mentre il corpo e l’intelligenza scalpitano. Questa è l’età in cui si scopre la differenza e si diviene differenti e sarebbe totalmente incongruente aspettarsi, una volta ottenuta una preparazione di base leggere-scrivere-far conto, che tutte/i si riesca ugualmente in tutte le discipline. Solo da una lunga osservazione globale nell’approccio a un sistema integrato di approfondimenti culturali si potrebbe contribuire a una funzione di orientamento. Ma su questo e sulla forma attuale della scuola media ritorniamo.

Non sorprende che sia la Montessori che la Dolto derivino dai loro assunti la proposta utopica di una scuola per la preadolescenza totalmente imparagonabile a quella esistente. Se è l’età in cui si può trovare la propria forma e il proprio campo di espressione (forma ed espressione pubbliche, civili, adulte) non può che avvenire in un ambiente in cui si facciano esperienze complesse e protette di socialità e mondanità, sufficientemente lontano dalla famiglia che ci ha de-formato e dalla quale tocca emanciparsi sotto la guida delicatissima di altre/i adulti. Le scuole campagna o le scuole residenza sono i modelli che hanno in mente le grandi pedagogiste, luoghi di ricche esperienze di autogestione e autogoverno e di alte rielaborazioni culturali che rispettino sempre le inclinazioni personali e l’educazione civile.

Se si guarda al discorso psicoanalitico e psicologico contemporanei si trovano gli stessi temi di cui sopra. La preadolescenza è la fase in cui la differenziazione sessuale (lo sviluppo puberale per intenderci) riattiva i conflitti infantili: dopo la fase di latenza dell’infanzia riemergono i contenuti psichici irrisolti ed è, secondo la letteratura più recente, proprio la fase di ricapitolazione quella in cui è possibile per l’ultima volta “fare davvero una bella riparazione”. Mai più infatti l’individuo vivrà una fase di riorganizzazione così generale, mai più sarà così disponibile ad ascoltare e farsi aiutare e mai più sarà possibile sostenere una fase di ristrutturazione identitaria così forte. Specularmente accade che traumi o choc (come divorzi o violenze ma io penso anche alle umiliazioni, alle bocciature, ai commenti) in questa epoca siano più dannosi.

Comunque non è solo nel campo affettivo e psicologico che si trovano simili indicazioni. Dal punto di vista cognitivo è fin dagli studi degli anni cinquanta di Piaget che l’avvento della pubertà è identificato con quello del pensiero cosiddetto ipotetico deduttivo. Finita l’infanzia la ragazzina/il ragazzino inizierebbe a manipolare le idee e le ipotesi astratte sul funzionamento del mondo e dell’umanità; ragiona in maniera differente dal bambino, più astratta e complessa, immaginando altre possibilità presenti e future su di sé e sugli altri. Cambiano interessi e facoltà intellettuali, progressivamente e in tempi unici per ciascuno. È detto sinteticamente ma è pressappoco così e le neuroscienze confermano questo genere di rilievi in maniera sempre più precisa.

Di nuovo chi ci sta lo sa: paiono distratte, paiono irrequieti e incontinenti o superficiali, sono gli anni della “esplosione spazio-motoria” in cui il bisogno di andare, muoversi, vedere, usare il corpo in mutamento ostacolano la concentrazione. In realtà da ogni parola che sentono derivano idee molto complicate sullo stato delle cose: ciò che in assoluto gli preme è quello su cui per la prima volta mettono gli occhi e a cui vogliono lentamente ma precisamente essere condotti, finché potranno non solo pensarci ma anche toccare: il sesso, il denaro, il potere, la città.

Ciò che serve nella scuola media è dunque un’elaborazione culturale e politica dell’esperienza durante la fase decisiva dell’apprendistato sociale. Ci vorrebbero tutte e tre le cose: l’esperienza; la mediazione di questa in termini culturali; la presa di parola e di responsabilità nel gruppo autogestito e istituzionale.

In termini realistici accade questo: nei paesi nord europei si prende atto del fatto che il ragazzino/la ragazzina non sono più bambine ma che non sono ancora adulti e che hanno diritto alla loro fase di moratoria e quindi non vi è frattura tra la primaria e la secondaria. Fino a 13-14 anni è un ciclo unico.

Nei paesi diciamo di area tedesca, come Germania Austria Belgio, dove c’è un’altra visione del rapporto stato-cittadino, si esclude che tocchi alla scuola, bensì al governo di tutti gli aspetti della vita associata, farsi carico di temperare le differenze sociali e si opera una selezione orientativa alla fine delle elementari, a 10-11 anni. Come è ovvio le carriere formative rispecchiano quasi sempre le provenienze socio culturali ma solo recentemente questo inizia ad essere percepito come un problema.

Nei paesi dell’Europa del sud, tipo Italia Francia Spagna, una tradizione diversa dei concetti di persona e di cultura ha fatto sì che si pensasse a un ordine d’istruzione separato e unitario, come la nostra la scuola media unica appunto. Una scuola dell’orientamento, una scuola della cittadinanza e una scuola che permettesse a tutti di avere accesso a una formazione culturale secondaria, qualunque fosse poi il destino sociale scelto.

In Italia concretamente abbiamo oggi una scuola dove le docenti più anziane e meno preparate insegnano materie e discipline ripartite assurdamente in orari e curricoli, in modo esclusivamente libresco, con effetti frustranti e immiserenti su tutti e in particolare come è ovvio su chi ha meno chance socio-culturali. Sono cose stranote ma sono anche così gravi oramai, è tale lo spreco e il danno che subisce chi si affaccia per la prima volta sulla realtà politica e sociale dove vivrà, che l’argomento è messo in agenda anche a livello politico istituzionale.

Intanto è difficile non farsi prendere dal furore utopico, l’unica reazione veramente sensata.

I kindersezen montessoriani, scuole fattoria dove ci si gestisce l’organizzazione domestica, materiale ed economica mentre si studia dal vero e in comunità, per adesso non sono a portata di mano se non nella ricerca preziosa e difficile di piccoli gruppi. Nella scuola media di città vanno ogni giorno persone in carne e ossa e qualcosa bisogna pure ingegnarsi a fare, sapendo anche che per le/i giovanette/i nelle città di oggi, così povere di spazi e attività loro dedicate, la scuola è anche un’opportunità di incontro sociale unica. A meno che anche questo aspetto non sia deformato e reso non godibile da un corpo docente particolarmente gretto, ignorante, razzista quale si può ad esempio incontrare facilmente in certe scuole delle periferie urbane meridionali come ha spiegato benissimo sulle pagine di questa rivista Giuseppe Montesano (Tra peluche e cinismo,“Gli asini”, n. 11, agosto/settembre 2012). Al proposito sarebbe davvero opportuno che le vagonate di finanziamenti disposte dall’ultimo sottosegretario Rossi Doria per la dispersione scolastica al sud siano monitorate nel loro impiego in maniera assai differente da come è avvenuto in precedenza, dato che in quelle mani finiranno e se sulla carta risulteranno spese bene in realtà nulla giungerà a coloro ai quali erano destinati, già sempre ultimi.

Un’altra battaglia fondamentale, da condurre sia dentro che fuori la scuola media, riguarda l’elaborazione culturale cioè in soldoni il curriculum, i contenuti culturali e la maniera per elaborarli in gruppo. A coloro che per la prima volta si avvicinano con capacità, strumenti e domande nuove al sapere viene ammannita una roba miserrima. Prendete in mano i libri di testo di seconda media, i manuali di storia o di grammatica o di scienze e verificatene il linguaggio, la qualità scientifica, sintattica, iconografica: se non è bassa, è di certo inadeguata ai destinatari. In piena crisi della cultura alfabetica e democratica non viene investita un’oncia di creatività per l’accesso costruttivo alle conoscenze. Tutto è immobile e distante dall’esigenza di crescita, comprensione, partecipazione culturale e scientifica. Bisogna mettere in campo uno sforzo culturale elevato per narrare e apprendere in maniera interdisciplinare e laboratoriale, utilizzando ogni risorsa artistica e multimediale.

Queste cose la migliore ricerca le afferma da anni eppure sono anche anni che sappiamo quanto le tecniche della pedagogia attiva debbano essere riviste, in particolare per la fascia d’età che ci interessa e dall’avvento delle tecnologie della comunicazione e informazione. Mancano i materiali e le tecniche di gestione delle attività di studio antiautoritarie nelle classi delle istituzioni. C’è da faticare molto, da farlo in rete, da farlo forse in maniera semi clandestina e di certo autorganizzata, fregandosene dei concorsi e dell’Invalsi e persino inventandosi mecenati, autofinanziamenti o altro pur di proporre alternative radicali ed efficienti.

Intanto mentre stiamo nella scuola ripetiamoci quello che abbiamo sempre detto: non smettere di chiamare gli artisti, gli intellettuali e i lavoratori che conosci perchè vengano a raccontare esperienza e a fare cose assieme. Non smettere di studiare le leggi per riuscire a portarli fuori il più possibile. Hanno bisogno di vedere la città, le fabbriche, le sedi del governo, fai più gite possibili. Studia e studia quello che ti piace e porta loro quello che studi. Studia soprattutto ogni maniera per fare lavoro cooperativo, Freinet va digitalizzato, non il giornale con i caratteri mobili ma il giornalino con computer e le foto e la pittura digitale e la crossmedialità, tutta la pedagogia attiva e istituzionale (Fernad Oury sempre e ancora) sono vere e vive ma ci vuole uno sforzo di immaginazione e di cooperazione nuovo da parte nostra. Mettiti in rete con chi in altre scuole della città pensa in sintonia, facciamo le corrispondenze interclasse, diamoci appuntamento a una mostra. Una rete di precari/e e fissi/e di varie materie che progettino moduli trasversali assieme. Trovare un/a dirigente illuminata e cercare di creare un gruppo di colleghe affine in quella scuola, sperimentando un coinvolgimento positivo delle famiglie.

Ricordarsi infine sempre che questa è l’età in cui nasce la sensibilità alle differenze, in primo luogo a quella sessuale che di tutte è figura e chiave. Fare sport, giocare anche se si sentono grandi, andare a camminare e sudare sono cose importantissime. Smontare gli stereotipi, essere non conformi, anche a scuola presentarsi come adulti non conformi vale educativamente più di molte parole. Fargli produrre artefatti in continuazione e vedere un sacco di buon cinema. La parola sì ma anche tutto il resto.

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