Le nostre favolacce

incontro con Nicola Villa
In un sobborgo di Roma sud, che potrebbe essere Casal Palocco, in un gruppo di villette a schiera, vivono tre famiglie ex-proletarie, oggi piccolo borghesi, con i loro figli. Si avvicina l’estate, fa caldo, non succede nulla: la vita va avanti con il lavoro che c’è e non c’è, le invidie del vicinato, la novità della piscina gonfiabile nuova; la paura dei rom e le nuove credenze si impongono (meglio passarsi il morbillo del vaccino). Sembra apparentemente tutto normale, tutto soporifero, ma lentamente lo sguardo si sposta sui bambini che stanno progettando qualcosa di estremo. È questo il contesto raggelante da fiaba dark di Favolacce, secondo film dei registi fratelli gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, rivelazione nel 2018 a Berlino con il loro esordio La terra dell’abbastanza. Li abbiamo incontrati e abbiamo visto il film in anteprima, poco prima della loro partenza per il Festival di Berlino, per la presentazione di questo nuovo lavoro.
Il rapporto, il debito con Pasolini appare evidente. Il film sembra raccontare il popolo di Accattone oggi. Qual è il vostro rapporto con il poeta?
Damiano: siamo sempre stati disordinati nelle visioni dei film, anche da piccoli, e ci siamo sempre divisi sui gusti. Per quanto strano possa sembrare, Pasolini non l’abbiamo mai visto molto. Per esempio ho visto tre volte Teorema con un senso di strana disubbidienza, una sorta di antipatia verso quello che succedeva che, devo essere sincero, non mi interessava. Quando ho visto Salò mi ha dato un fastidio allucinante, quindi vuol dire che si tratta di un film strepitoso. Più in generale ci associano a tanti autori e film: ci hanno detto che abbiamo fatto un omaggio alla tabacchiera di Amarcord, quando la ragazza si scopre il seno per offrire il latte al bambino che sta mangiando i biscotti.
Fabio: È vero, spesso capita che ci associno a registi che non conosciamo molto bene. Con Pasolini c’è anche una ragione famigliare alla base della nostra diffidenza. Nostro padre è appassionato di tutte le sue opere, film, libri e poesie, e ci siamo come cresciuti, era una presenza costante nella nostra libreria: Pasolini è come se fosse nostro zio, però uno zio distante come lo zio d’America che non hai mai incontrato. La prima cosa che ho letto è stato il romanzo Petrolio e sono rimasto affascinato dal fatto che sia rimasto inedito e mutilato ed è ciò che lo rende così bello. Per noi questo approccio con il passato è una forma d’ignoranza che va preservata: almeno se copi lo fai in maniera originale.
Damiano: quando parliamo d’ignoranza è anche quella a livello sentimentale. Ci sono degli autori importantissimi per nostro padre ed è come se non ci sentissimo in diritto di imbatterci in loro. Ad esempio Viaggio al termine della notte è il libro preferito da nostro padre, che ha sempre sul comodino, benché lo sappia io faccio fatica ad affrontarlo, come se ancora non avessimo il permesso.
Un altro padre nobile è Sergio Citti come suggerisce il titolo e forse anche il racconto corale?
Damiano: La prima volta che ho visto Citti è stato su Youtube quando ho visto i video di Carmelo Bene al Maurizio Costanzo show: a un certo punto appare questo personaggio così vivo, in un posto in cui erano tutti consapevoli delle loro idee e quindi così deludenti. Lui interveniva dal pubblico e sbagliava i verbi, smozzicava le parole e sudava perché voleva dire a Carmelo davvero quanto gli volesse bene e apprezzasse il suo lavoro. Un montatore che contattammo prima di trovare la nostra montatrice (noi per sceglierli non vediamo i loro film ma ci piace parlarci) ci disse: “il titolo è l’unica cosa che non mi piace mi ricorda Casotto di Citti”, che ancora non avevamo visto. Nei lunghi anni in cui cercavamo disperatamente di trovare un interlocutore che leggesse il copione e provasse a svilupparlo ci imbattemmo in una produttrice folcloristica. A me affascinava molto ed era stata la produttrice degli ultimi film di Citti. Lei fece la richiesta al ministero per ottenere i soldi dal ministero e quando abbiamo fatto l’audizione ci ha presentato in maniera molto roboante come i nuovi Sergio Citti e noi lo avevamo visto pochissimo e non sapevamo che dire.
Raccontare quel popolo, che un tempo era sottoproletario e oggi è una classe media indefinita, è una cosa molto rara nel cinema di oggi. Da cosa è nata questa curiosità?
Damiano: Io e mio fratello siamo stati abituati alla cattiveria, perché siamo nati non in un sobborgo ma in una periferia di Roma, Tor Bella Monaca, e poi abbiamo vissuto in un posto tendenzialmente più comodo e bello, Anzio, che è pieno di fascistelli in borghese che non palesano questa aspirazione ridicola di vita e si atteggiano a romani urbani pur non essendolo. Crescere ad Anzio vuol dire entrare in contatto con questo contesto. Quando andavamo a scuola all’uscita vedevamo i genitori dei nostri compagni – io e mio fratello tornavamo insieme a piedi – ed erano genitori brutti. “Brutto” è un aggettivo che comprende tante sfumature: ignoranza, antipatia, barbarie ideologica e queste cose le noti anche se sei un bambino. Volevamo raccontare queste persone, appunto, dal punto di vista dei bambini che è quello più complesso e più vasto. Spesso noi adulti abbiamo una benevolenza verso il nostro passato che è quasi una benevolenza carceraria: invece con questo film non volevamo dirimere il dolore di quando eravamo bambini. Quand’ero piccolo, in maniera molto consapevole, vedevo già tutto lo schifo della vita. Da adulti si diventa più accomodanti e si tende ad annacquare il passato, mentre da bambino lo sguardo è lucido, affilato e pulito ed è quello giusto. Quindi la nostra intenzione era mostrare, dal punto di vista dei bambini, l’orrore della nostra società contemporanea che più o meno viviamo tutti senza scuse e alibi.
Il film è durissimo e pessimista soprattutto perché affronta alcuni tabù. Cosa vi ha spinto a trattare argomenti così delicati e come ci siete riusciti?
Fabio: abbiamo scritto il copione che avevamo 19 anni ed eravamo nel pieno della rabbia verso il mondo: un periodo in cui subisci delle ferite ma infliggi anche dei colpi dolorosi, nessuno è vergine da questo punto di vista. Favolacce è un film scritto un anno prima della Terra dell’abbastanza. Sapevamo che un produttore avrebbe capito molto più facilmente un film come quello, che era molto più lineare, rispetto a un soggetto che poteva risultare troppo pessimista ed era comunque uno dei nostri primi tentativi di scrivere un copione. Noi siamo cambiati nel tempo, ma il testo di Favolacce è rimasto quello. La nostra visione del mondo era molto disillusa: vedevamo anche le famiglie più compiute e serene come una sorta di menzogna e quindi avevamo pensato all’idea di questo gruppo di bambini (noi) che comprendono le regole della falsità (le vedono applicate giornalmente dai loro genitori) e scelgono in maniera naturale di uscire dalla scena, come attori che vogliono uscire dal palco. I bambini del nostro film non esibiscono una cattiveria, compiono una scelta che si può definire giusta: uscire da questa trappola. Decidono di mettere un punto a una catastrofe che è inarrestabile. Un bambino commette delle cattiverie estreme e senza un retro-pensiero e ci arriva poi con l’età adulta, ecco perché tanti bambini hanno traumi in età infantile. Sono degli schemi naturali e animali. Il dono più grande che può fare un regista è premiare la curiosità di chi guarda. Ciò ci ha spinto a scrivere con grande pazienza e oculatezza, perché avevamo chiaro il rischio di diventare sloganistici e di fare un film a tesi.
Una costante nel film è il sesso, i personaggi ne sembrano ossessionati, ma questo corrisponde a un’esposizione dei corpi che provoca repulsione. Perché avete voluto dare questa cifra?
Fabio: Il film è pieno di scene con rimandi sessuali, insulti sessisti e mette alla berlina il maschilismo dilagante di oggi. Sono contro il finto perbenismo dei nostri giorni. Alla mia compagna dico sempre: “tu mi reputi una persona gentile ma se sapessi quello che io penso tutti i giorni, i pensieri orribili che riesco a fare nella mia testa, mi vedresti come il peggiore dei criminali”. Ad esempio c’è una scena in cui Elio Germano sentenzia quelle porcherie rispetto a una vicina che vede attraverso la porta-finestra. Mentre giravamo la scena non funzionava, perché Germano e l’altro attore, Malatesta, si rifiutavano di dire certi termini, ci giravano intorno. E noi ogni volta andavamo là da loro e precisavamo che dovevano dire proprio quelle parole. Piano piano tutta la troupe si è così imbarazzata, che abbiamo constatato sul campo che c’è sempre un’autocensura data dal fatto che non riusciamo ad ammettere che tutti facciamo questi pensieri. Appena abbiamo detto “stop la scena è stupenda” abbiamo visto tutti i macchinisti, grossi omoni con i tatuaggi con la testa abbassata. Avevamo colpito il loro machismo. Ci siamo abbracciati alla fine della scena, io e mio fratello, perché eravamo consapevoli di aver girato quella scena contro tutto il set ed era stato molto soddisfacente.
Favolacce è molto diverso dalla vostra prima prova, La terra dell’abbastanza, ma sono entrambi due film realisti che non concedono nulla a scorciatoie oniriche o sperimentali. Sembra che siano accomunati da un modo di girare lineare che si potrebbe definire “classico”, anche nel lavoro con gli attori. Vi riconoscete in questo aggettivo?
Damiano: Più che classico il nostro è un film narcotizzante. Si raccontano i vari nuclei famigliari ma solo dopo si comprende l’elemento che li unisce, che sono i figli. La prima ora è ipnotica, di stallo e aiuta tantissimo il film e ce ne siamo accorti mentre montavamo. Il copione ti dice il modo in cui il film va girato, l’importante è non tradire mai il testo, non cercare di arrivare a situazioni che possono sembrare più affascinanti e sbalorditive. Ci guida il fatto di cercare di raccontare in maniera chiara, come farebbe un illustratore. È un film che racconta di un’esplosione estremamente igienica e ordinata, quindi ovviamente bisogna essere compassati da un punto di vista linguistico. I nostri storyboard rispecchiano esattamente il film, che quindi esiste pure su carta. Il primo giorno di riprese c’è stato un problema di comunicazione e tutti prendevano la parola, che è la cosa più dannosa che può accadere. Quindi la scena girata il primo giorno non l’abbiamo nemmeno fatta vedere alla montatrice, l’abbiamo buttata e basta. Il giorno dopo avevamo appuntamento sul set alle 15. Io e mio fratello alle 9 di mattina ci siamo messi a disegnare le scene e le abbiamo mandate a tutti i collaboratori del set e questo ha pagato. Abbiamo capito che era il metodo da adottare per questo film, perché nessuno più metteva bocca. La storia andava raccontata nel modo in cui io e Fabio l’abbiamo sempre immaginata. È un film che si basa meno sull’attore, di improvvisato c’è pochissimo. Un retaggio teatrale che ci portavamo dietro era di trovare i dialoghi lavorando con gli attori, ma non in questo film. Durante le riprese dicevamo agli attori semplicemente: “di’ questa battuta”. Gli attori non improvvisano: gli attori hanno somatizzato un nostro modo di lavorare che è sempre ricerca e inclusività. Elio Germano pensava di potersi permettere di andare sul dialogo, sull’improvvisato. Ma il dialogo ti porta al quotidiano e il quotidiano non è mai interessante. Il problema degli attori è che gesticolano, noi non vogliamo che lo facciano. Una volta date queste direttive hanno ascoltato. Ogni storia va raccontata in un modo specifico. Se nel primo film dovevamo fare un po’ squadra e crearci un nemico immaginario, che in quel caso erano i produttori, in questo film è stata tutt’altra storia. Gli attori più li lasciavamo stare e meglio era: più si sentivano trascurati e meglio andava il lavoro sul set, perché noi volevamo far uscire da parte loro quel senso di nervosismo che permea la prima parte. Questo mi ricorda un aneddoto su Altman che quando girò Gosford Park agli attori che interpretavano i personaggi ricchi dava da mangiare sul set cose buonissime, agli altri quasi nulla perché aveva capito che gli attori devi farli stare in quella situazione coerentemente.
Era la prima volta che lavoravate con i bambini: che approccio avete usato?
Fabio: Ci hanno più volte detto “bella l’idea del film, ma ci sono troppi bambini”. Abbiamo fatto il casting e quando abbiamo trovato i bambini adatti ci hanno detto che in Italia si usa l’acting coach, una sorta di supporto per i bambini non professionisti. Da subito abbiamo capito che non ci serviva a nulla, perché così si cerca di indottrinare un bambino verso un metodo. Noi cercavamo la purezza della prima volta: le scene gliele davamo il giorno stesso in cui eravamo sul set. Essere bambini è un privilegio perché ogni cosa è nuova. Con i bambini devi essere più parsimonioso col tempo (dalle 10 ore di lavoro si passa alle 8), hai dei ciak che vanno completamente a vuoto, ma questa era una scommessa che ci siamo presi e volevamo stare alla loro altezza.
La foto è tratta da Farmacia notturna dei fratelli D’innocenzo (Contrasto 2019).