Le Lezioni di storia di Seamus Deane
Lezioni di storia, titolo della sua terza raccolta poetica, potrebbe essere definizione appropriata dell’eredità che ci lascia Seamus Deane, scomparso a Dublino lo scorso 12 maggio. La misura della perdita è rimarcata ora dall’uscita del suo ultimo libro, Small World: Ireland 1798-2018 (Cambridge University Press, 2021), che ripropone alcuni dei suoi saggi più noti (tra questi i due Field Day Pamphlets, Civilians and Barbarians e Heroic Styles, che tante discussioni suscitarono all’epoca) insieme con nuovi interventi su figure e problemi che hanno costituito le preoccupazioni di una vita, nuclei genetici per l’esercizio di una curiosità e di un’intelligenza critica tali da conferire all’opera di questo studioso curiosissimo e instancabile un carattere di tipo, per così dire, rifondativo, nel campo della storia culturale irlandese e di assoluto rilievo in quello della riflessione sul complesso fardello che paesi postcoloniali, quali l’Irlanda, si trovarono costretti a elaborare una volta conquistata l’indipendenza.
Poeta, romanziere, critico letterario, internazionalmente noto non solo nel mondo di lingua inglese, coniugava la ricerca storico-filosofica (suoi campi di formazione la filosofia dell’Illuminismo e l’opera di Edmund Burke) e quella letteraria, rivolgendo l’indagine non soltanto a scandagliare i disastri della colonizzazione, ma anche a esaminare, come aveva fatto Franz Fanon, le derive autoritarie o involutive del nazionalismo, sviluppato in modo reattivo, dai colonizzati stessi.
Questo suo impegno, che finiva per rivelare verità scomode e amare, non mancò di generare un dibattito pubblico su questioni centrali della cultura irlandese, dal riesame dei diversi destini delle letterature in gaelico e in lingua inglese, determinati da quattro secoli di dominio, agli opposti miti di cui si erano nutrite entrambe le comunità – quella cattolica, repubblicana, e quella protestante, unionista, e i cui dannosi effetti erano visibilmente alla base dei Troubles, dopo essere rimasti a lungo non diagnosticati, o colpevolmente rimossi, sia nell’Irish Free State, sia in Irlanda del Nord.
L’analisi di tali processi subisce una decisa accelerazione nel corso degli anni Ottanta grazie all’incontro e alla collaborazione di un gruppo straordinario di figure, già affermate nei rispettivi campi, quali, oltre a Deane, il poeta e futuro Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, il drammaturgo Brian Friel, l’attore Stephen Rea, il poeta e critico Tom Paulin, il musicista David Hammond, che nel 1980, a Derry, si riuniscono intorno alla Field Day Theatre Company.
Scegliendo come base la città di Derry, simbolo del secolare assoggettamento di una maggioranza cattolica da parte di una minoranza unionista, la Compagnia intendeva, come lo stesso Deane affermò in un’intervista pubblicata su “Linea d’ombra” nel 1988, “creare uno spazio che ancora non esiste, uno spazio per la riflessione e l’analisi, uno spazio per chi scrive (…). Ciò che noi vogliamo rimarcare è che gli ordinamenti esistenti sono il prodotto di un processo storico che è ormai quasi giunto al suo termine (…). Noi cerchiamo di anticiparne la scomparsa o la revisione perché esiste la possibilità di guardare all’Irlanda in un modo diverso, più ecumenico e ospitale per le varie sezioni della popolazione che si trovano ora in conflitto”. Illuminanti nel repertorio della compagnia teatrale le rappresentazioni delle opere di Brian Friel – molte delle quali centrate sulle conseguenze a lungo termine del dominio britannico.
La compagnia teatrale fu, inoltre, il motore di altre iniziative, tra le quali l’impegnativa impresa della Field Day Anthology of Irish Writing. Il progetto dell’antologia era a tal punto focalizzato sull’esplorazione impietosa degli stereotipi frusti e ripetitivi degli opposti nazionalismi, che finì per trascurare o sottorappresentare la componente femminile e con essa, paradossalmente, quella importantissima in gaelico, costituita per gran parte dai racconti di una donna, Peig Sayers. Deane riconobbe subito l’errore, egli stesso – ammise con onestà – vittima del sistema che intendeva mettere sotto accusa, e si impegnò a porvi rimedio. Nel giro di pochi anni altri due volumi curati da donne si aggiunsero ai primi tre.
Pur impegnato nell’insegnamento, prima alla University College Dublin e poi alla alla University of Notre-Dame, Deane trovò la concentrazione e il tempo necessari a pubblicare nel 1996 il romanzo cui lavorava da tempo – Reading in the Dark (Le parole della notte, Feltrinelli) – che gli valse il Guardian Fiction Prize e l’inclusione nella rosa dei candidati al Booker Prize. Egli vi ricrea, con assoluta e, per un critico letterario, sorprendente padronanza del mezzo narrativo, un’infanzia vissuta nel Bogside di Derry, il ghetto in cui era confinata la minoranza cattolica, all’interno di una famiglia che custodisce e nasconde un segreto che condiziona sottotraccia la vita dei protagonisti.
Nel suo ultimo libro, la disamina dei vari tipi di nazionalismo e delle tradizioni repubblicane in Irlanda è condotta sviscerando le ragioni dei fallimenti a partire da quello della rivolta degli United Irishmen, guidata da Wolfe Tone, e al contempo rilevando i germi di riscatto che in quella esperienza erano pur presenti, in particolare nel superamento allora del pregiudizio nei confronti dei cattolici, da parte protestante, e nell’aspirazione a un’azione comune nella lotta per l’indipendenza. Un’acquisizione che si perderà, superata degli eventi e dalle divisioni settarie, ma la cui lezione sarà ripresa da Tom Paulin, poeta e critico anch’egli d’ambito protestante, che quel sogno rivendica nelle sue opere.
Il libro riprende l’analisi del ruolo svolto nella storia irlandese da scrittori e pensatori quali Swift e Burke, registrandone le aspre critiche contro la loro stessa classe, l’ascendency, che perpetuava “uno stato di guarnigione” al fine di conservare i propri privilegi.
Non sorprende l’attenzione dedicata a Joyce (della cui opera Deane era diventato general editor per la Penguin). Colpisce l’esclusione di Yeats anche se il suo nome e la sua opera ritornano inevitabilmente nella discussione degli altri autori trattati. In disaccordo con Edward Said, che in un Field Day Pamphlet (Yeats and Decolonization) aveva riconosciuto al poeta un suo ruolo nel processo di decolonizzazione, Deane rimase fedele al giudizio espresso in Celtic Revivals e in A Short History of Irish Literature (usciti rispettivamente nel 1985 e nel 1986), che lo vedeva come una figura che, aldilà dei meriti poetici innegabili, aveva condotto una lotta di retroguardia, anacronistica. Il libro contiene due saggi dedicati a Elizabeth Bowen e Mary Lavin, la ristampa di un lungo articolo su Seamus Heaney (“The Famous Seamus”, uscito nel 2000 sul New Yorker), che getta luce sui percorsi formativi di entrambi e imprime un senso più personale ai capitoli precedenti e per l’ulteriore luce che getta e sulla formazione di entrambi e sulla loro amicizia.
Ma è l’ultimo capitolo, “The End of the World”, che merita un esame meno fuggevole. È un tributo ultimo del grande critico alla lingua gaelica e ai tesori letterari e etnografici che fu possibile sottrarre alla scomparsa definitiva, e a quella società basata sui valori comunitari di un’epoca arcaica. Deane si sofferma sui problemi posti dalla salvaguardia, prima, e dalla traduzione, poi, di quanto salvato: le storie orali e i complessi rituali ad esse associati, le testimonianze, i problemi esistenziali di una comunità minacciata costantemente dall’estinzione per le ricorrenti carestie, precedenti e successive a quella del 1845 (“The Great Famine”, che tra il 1845 e il 1852 provocò la morte di un milione di persone e l’esodo di almeno due milioni di superstiti) e sui diversi approcci di quanti nel Novecento – irlandesi e non – armati delle migliori intenzioni, si misero al lavoro per salvare e custodire quanto ancora possibile.
Tra i protagonisti, oltre al drammaturgo John Millingtone Synge, che per primo si recò alle isole Aran, Deane ricorda Thomas MacDonaugh (con il suo fondamentale Literature in Ireland: Studies Irish and Anglo-Irish (1916), fucilato dagli Inglesi nel 1916, Daniel Corkery (Synge and Anglo-Irish, 1931) e l’inglese Robin Flower (The Irish Tradition, 1947, ma i saggi risalgono agli anni Venti e Trenta).
È significativo che l’ultimo, in ordine di tempo ma non per importanza – George Thomson – sia un inglese, e che a lui Deane dedichi l’omaggio più sentito. Thomson, grecista dell’Università di Birmingham, nel 1923 aveva visitato le isole Blasket e vi aveva scoperto, come lui stesso racconta in An Blascaod a bhí (The Blasket that Was, 1977), un mondo comunitario perduto, imprigionato nella povertà dal capitalismo industriale, che era per certi versi “medievale” e tuttavia, a causa della sua storia, più di qualsiasi altro simile al mondo “pre-capitalistico” della Grecia di Omero.
È illuminante quanto Thomson scrive nella prefazione al suo libro Aeschylus and Athens riconoscendo il suo debito verso i suoi amici isolani: i contadini-pescatori delle isole Blasket nel West Kerry, che mi hanno insegnato… cosa significhi vivere in una società pre-capitalistica… e in generale che le loro tradizioni, in particolare la loro poesia, risalgono a un’epoca in cui le relazioni sociali erano profondamente diverse da quelle in cui sono stato educato.
Era affascinato, così lo descrive Deane, “dai protocolli di conversazione degli isolani”, il cui svolgimento assomigliava fortemente “alla partecipazione a un rituale”. “Le caratteristiche formali e rituali sono primarie, non secondarie. I riti vengono ripetuti esattamente in modo che il loro significato specifico sia espresso e preservato nella ripetizione. Non esiste una lingua di destinazione in cui tradurli”. Thomson era stato probabilmente influenzato dalle ricerche della “Scuola di antropologia di Cambridge”, fondata da Jane Harrison. E in particolare del punto centrale della ricerca della Harrison, contenuta in Ancient Art and Ritual (1913), vale a dire l’idea che il mito sia fondato sul rituale. Questo incoraggiò Thomson a concentrarsi sulla poesia e sulla parola e, naturalmente, sulla lingua irlandese del popolo delle Blasket.
La purezza del genere narrativo (in particolare quello di Peig Sayers) costituì per lui una rivelazione sulle origini della civiltà europea, qui rievocata al suo termine. Da marxista, sollecitò il nuovo Stato irlandese a preservare quell’ “arretratezza”, purché tale operazione fosse accompagnata da una compatibile forma di sviluppo economico. Per tutta la vita si batté perché gli isolani ottenessero “l’aiuto economico di cui necessitavano (e non ottennero) e l’aiuto culturale di cui la lingua aveva bisogno per sopravvivere”.
Così conclude il suo saggio Deane: il significativo senso di lieve anomalia, Irlanda come Grecia, appare commovente nella scelta di Thomson di dedicare la sua grande edizione dell’Oresteia (1938) di Eschilo al suo amico, Muiris Ó Súileabháin. Egli apprese il greco moderno, così come l’irlandese moderno, al fine di poter conoscere la continuità di entrambe le culture; fu “nell’inconscio culturale di contadini e pescatori che scoprì la sopravvivenza di antichi culti e pratiche”. In entrambi i casi, tuttavia, e più in particolare nel caso irlandese, la sua fede nella continuità fu provocata dal senso simultaneo e inevitabile di una fine. Difficilmente avrebbe potuto immaginare che quella comunità sarebbe finita a Springfield, nel Massachusetts, nel mondo non del greco Omero, ma di Homer Simpson.
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