Le favolacce dei fratelli D’innocenzo

Visioni di alberi, una casa, avanzi di un pasto; una voce fuori campo spiazzante, iper-letteraria ma con accento romanesco, dice che questa è una storia vera tratta da una storia falsa. Un distanziamento dalla materia narrata, e una prossimità iperrealistica ai dettagli: le prime scene di Favolacce, secondo film dei fratelli D’Innocenzo, stabiliscono subito una dimensione visiva netta, quasi oppressiva, sulla quale si varierà per spostamenti impercettibili, fino a una specie di effetto-valanga.
Siamo a Spinaceto, in un mondo di villette suburbane che potrebbero essere ovunque. La vita di alcune famiglie scorre in apparenza tranquilla, ma la regia, attraverso la musica e il soffermarsi sui dettagli dei corpi e dei luoghi, costruisce un senso di inquietudine. Una cena con alcune famiglie insieme, con differenze sociali che risaltano tra le pieghe: chi sta avendo qualche successo (o lo millanta), chi annaspa senza lavoro, si crede (o è) un fallito. Un bambino si strozza col cibo. Un altro è attratto da una sensuale vicina di casa. Una prende i pidocchi e viene rasata; un altro, il morbillo. Un genitore monta la piscinetta nel giardino, e poi di nascosto la buca. I ragazzini guardano la cronologia del cellulare del padre, con i video porno.
La narrazione procede per piccole scene, in apparenza giustapposte, con i personaggi che si incrociano e si dissociano. Una notizia iniziale (un suicidio collettivo: due genitori hanno annegato la figlia e poi si sono uccisi) getta un’ombra minacciosa su tutto quello che vedremo, e tutti i piccoli episodi lo ribadiscono. Sempre più diventano protagonisti i bambini: dire che il punto di vista è il loro è forse troppo; non c’è nessun ricattatorio “i bambini ci guardano”, qui. I bambini, si potrebbe dire, hanno smesso di guardarci, hanno già visto e giudicato il loro futuro e il nostro, e hanno visto che, semplicemente, non c’è.
Favolacce fa compiere un passo avanti al nostro cinema; è, in certo modo, un film che aspettavamo. Il genere del melodramma sociale, della storia di periferia (meglio se romana o meridionale) era diventato un genere, con titoli notevolissimi, tra i migliori degli ultimi anni, da Di Costanzo a Carpignano, ma anche Fiore di Giovannesi, Manuel di Albertini, il film precedente dei D’Innocenzo stessi (La terra dell’abbastanza) e molti altri, fino a epigoni come Sole di Sironi o Nevia di Nunzia De Stefano. Il “realismo di borgata” che ha nutrito molto cinema in maniera anche spuria, intrecciandosi a volte con la commedia (Come un gatto in tangenziale) o con il recupero del cinema di serie B (Lo chiamavano Jeeg Robot) o il barocco con pretese autoriali (Indivisibili). Ma rimaneva la difficoltà di raccontare il quotidiano, la normalità infimo-borghese, insomma la maggioranza degli italiani, né troppo vicini né troppo distanti dai registi e dal pubblico del cinema d’autore. Occorreva trovare una chiave, uno sguardo, che non poteva essere che quello del pedinamento, della macchina a mano e dell’allentamento dei nessi narrativi. Questo film, per la prima volta, lo fa: con grandi ambizioni, ed esiti sorprendenti.
Quelli del film sono infatti i nipoti di Accattone e dei suoi amici (alcuni di loro hanno lo stesso riso sguaiato, osceno, mortuario); ma dislocati e postumi. Personaggi di Pasolini che vivono ormai in un luogo post-umano, da fantascienza: la vicenda del film, e le atmosfere, ricordano da vicino uno dei libri più acuti e sconvolgenti di James G. Ballard, Un gioco da ragazzi. Eppure il film è esente da ogni sociologismo, anzi a tratti si esita a definire l’appartenenza di classe dei personaggi, uniti come sono in una specie di grande corpo piccolo-borghese fatto delle medesime aspirazioni e dei medesimi consumi.
I due autori, autodidatti, hanno una cultura bizzarra e varia: subito prima del film hanno pubblicato un libro di poesie e uno di fotografie. In effetti il loro film sfugge alla prosa, al mero racconto, attraverso un’intensificazione del dato visivo e in particolare della contemplazione di luoghi, tra inorridita e incantata. Anche se la cosa a cui assomiglia di più, si direbbe, è il fumetto. Fin dal titolo, piuttosto balordo per un film ma che sarebbe perfetto per un grahic novel, di quelli che riescono a coniugare invenzione visiva e sguardo sul quotidiano: penso a Gipi, a Giacomo Nanni, a Davide Reviati. Non che il film sia narrativamente lasco, tutt’altro. Anzi, un’ulteriore novità è proprio una costruzione accuratissima, con una sceneggiatura a suo modo virtuosistica, fatta di scene minute, e che osa intrecciare una voce over sfrontata, fatta apposta per “sbattere” contro l’ambiente. Solo che si tratta di una costruzione pensata in vista della sua resa visiva, dell’atmosfera complessiva. Il che vuol dire che è sul piano dello sguardo, della distanza dai personaggi, che il film si gioca tutto.
Le situazioni e lo sguardo (con primissimi piani frequenti) si fermano appunto un istante prima del grottesco. Il fatto è che lo stile del film, la sua apparente freddezza, potrebbe apparentarlo a un filone di cinema da festival che osserva entomologicamente, con qualche compiacimento, personaggi che disprezza, mettendo spettatore e regista su un gradino più alto (pensiamo a un regista come Lanthimos). Ma questo, qui, non accade. La misantropia è stemperata da un lato da un’attrazione sensuale sul filo del morboso (e il film che viene in mente stavolta è La cienaga di Lucrecia Martel), dall’altro da una pietà, da una vicinanza che si apre verso la fine a momenti di melodramma, nella scena di una cena tra una ragazza che ha appena partorito e il compagno, che cantano insieme una canzone di Vasco Rossi. Quando arriva la tragedia, i registi si fanno letteralmente accanto ai personaggi, stanno al loro livello, e noi con loro. La bellezza, in questo film, serve non a separarci dai personaggi, a mostrare l’abilità degli osservatori e la superiorità degli spettatori, ma ad aprire uno spazio di dolorosa speranza, di prossimità, di lontanissimo riscatto. Ed è questo a rendere il film diverso non solo dal ricatto del realismo sociale, ma anche dalle seduzioni dell’estetismo.