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Educazione e intervento sociale

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Lavoro essenziale, lavoro ai margini

Foto di Marco Gualazzini
29 Aprile 2021
Savino Reggente

“Ai  margini della storia”, questo il titolo del quaderno noto generalmente come “Storia dei gruppi sociali subalterni”, che Gramsci scrisse nel 1934, durante il ricovero detentivo nella clinica del prof. Cusumano, a Formia. A voler fare la storia dei gruppi subalterni di questo nostro presente pandemico, ai margini troveremmo tutta quella vasta ed eterogenea categoria del lavoro definito essenziale. Parliamo, nello specifico, del lavoro di assistenza e cura relativo al settore delle professioni socio-sanitarie, che include una miriade di figure lavorative che hanno sempre avuto poca rappresentanza sindacale e nessuna rilevanza politica. Al di là del lavoro nella sanità (medici specialistici, personale infermieristico, medici di medicina generale), il resto rientra sotto l’etichetta di social workers: operatrici che lavorano nelle comunità per minori, con  disabili, anziani, in strutture collettive o in appartamenti privati, che operano in strada o nelle carceri. Professionisti di un lavoro silenzioso ma ad alto valore sociale, che con la cura del singolo intende tener cuciti i fili che legano una comunità sempre più in tensione. La domanda è come sia possibile che un lavoro come quello prestato nei servizi essenziali possa essere stato, nel corso di quest’anno di pandemia ancora senza uscita, così invisibile, silenziato, asservito o, al massimo, catturato in una retorica tutta apolegetica e sacrificale, racchiusa nell’immagine, divenuta icona, dell’infermiera addormentata sulla tastiera di un computer alla fine di un turno di lavoro massacrante. A svolgere quelle professioni ci sono persone, in maggioranza donne, il cui lavoro di cura e riproduzione ha un valore essenziale per la società, che in questi mesi sono state tra le più esposte ai rischi di contagio, di sovraccarico di lavoro fuori e dentro le mura domestiche, di licenziamento. A leggere i dati dell’ultimo report del Forum del terzo settore, risalenti al 2018, “636.171 sono le lavoratrici, oltre il doppio dei lavoratori uomini (313.830). Gli ambiti a maggiore presenza femminile sono l’assistenza sociale, la protezione civile, la cooperazione sociale e la sanità, dove la percentuale supera il 70%”. Tuttavia, per valutare gli effetti che quest’anno di pandemia ha avuto sull’occupazione femminile, bisogna affiancare queste cifre a quelle riportate nel rapporto della Banca d’Italia (marzo 2021) sul mercato del lavoro, dove si dice che “a fine febbraio (2021) le posizioni lavorative occupate da donne erano circa 76.000 in meno rispetto a un anno prima; quelle occupate da uomini erano invece 44.000 in più: la differenza tra le due grandezze ammontava a circa 120.000 posizioni”. 

Tra privatizzazione e sindacati

Non rientra certo tra l’eterogenesi dei fini il fatto che la sistematica privatizzazione del welfare, in tutti i suoi vari ambiti, abbia avuto come principale effetto non già l’efficientamento dei servizi erogati ma l’abbassamento dei costi della forza lavoro e l’intensificazione dei ritmi e dei carichi lavorativi, con salari sempre più impoveriti e precari. Se, ad esempio, una delle tante cooperative in appalto a un ente pubblico stabilisce che un’educatrice o un operatore a parità di ore contrattuali debba aver in carico non già dieci ma quattordici persone, è evidente l’effetto patogeno che questa intensificazione del lavoro genera tanto sul lavoratore che sull’utenza. (Sulla questione degli appalti si veda l’articolo di Piro e Sacchetto nel numero  85 di questa rivista). Oltre a ciò, la molteplicità delle forme contrattuali e la disomogeneità dei livelli d’inquadramento, funzionali agli intenti della privatizzazione ed esito di quella contrattazione che è più corretto chiamare convergenza tra gli interessi dei sindacati confederali e quelli dell’impresa, non fanno che contribuire a frammentare e gerarchizzare ancora di più una classe di lavoratrici e lavoratori già di per sé isolati e divisi. Si veda il rinnovo del Ccnl delle cooperative del 2019, dove nessun aumento salariale è stato negoziato da parte delle sigle confederali, uniche autorizzate a sedersi al tavolo delle trattative. Peggio: si legittimano o vengono sottaciuti strumenti quali la banca per il recupero delle ore lavorate in più o l’uso di contratti part-time che, nella realtà, agevolano solo i datori di lavoro nel non corrispondere le ore di lavoro straordinarie. Nonostante la storica tendenza alla scarsa sindacalizzazione all’interno del settore socio-sanitario stia cambiando, è la stessa frammentazione sindacale, che risponde ad obiettivi e interessi diversi a seconda della sigla, che contribuisce a riprodurre la condizione di disgregazione dei lavoratori del settore. In queste condizioni, è davvero difficile immaginare che un’operatrice socio-sanitaria, magari con un permesso di soggiorno da rinnovare e un contratto a termine tramite agenzia interinale, possa vedere in un educatore, anch’egli con contratto a termine con una cooperativa, un alleato con cui rivendicare condizioni lavorative e salari adeguati al proprio lavoro. 

La domanda, sempre più bruciante man mano che viene alla luce il valore sociale del lavoro essenziale, è perché questi lavoratori non prendano parola, non si organizzino.

Economie morali, retribuzioni materiali

Sarebbe da indagare quale rapporto lega il lavoro di cura e le motivazioni etico-morali che spingono a farlo, e come queste vengano utilizzate ideologicamente dalla parte padronale non solo per rendere accettabili i salari già bassi, ma con l’obiettivo di intensificare lo sfruttamento del lavoro comprimendone sempre di più i costi. Quella che potremmo chiamare l’economia morale del lavoro sociale pare, da una parte, esser stata messa a profitto, capitalizzata, dallo stesso privato sociale aziendalizzato e in regime di concorrenza; dall’altra, è stata incorporata a tal punto dai lavoratori e lavoratrici da diventare giustificazione morale per il proprio auto-sfruttamento. Uno striscione esposto dal sindacato di base Usb sotto la sede di Legacoop a Bologna, in occasione dello sciopero dell’8 marzo, recitava “voi la chiamate dedizione, noi la chiamiamo retribuzione”. Questo il ricatto, la cui strumentalità è chiaramente svelata dallo slogan, cui ognuno e ognuna di noi è sottoposto quotidianamente nello svolgere il proprio lavoro. E non è casuale che, come accennato, l’icona di questa dedizione sacrificale sia incarnata proprio da una donna che svolge il lavoro di cura per antonomasia, l’infermiera. Come a voler batter su uno stereotipo sociale che risulta tuttavia sempre utile ai fini dello sfruttamento del lavoro. Obiettare, allora, che le due istanze siano in contraddizione vuol dire adottare quell’ideologia che da più di trent’anni a questa parte sta progressivamente smantellando il sistema sociale italiano in favore di un libero mercato in cui la qualità dei servizi di cura e assistenza alla persona, quindi l’esigibilità di un diritto, diventa merce, i cui costi sono variabili a seconda dei salari. Gli effetti deflagranti e socialmente nefasti di questo stato di cose li stiamo vedendo e vivendo in quest’anno di pandemia.

“a fine febbraio (2021) le posizioni lavorative occupate da donne erano circa 76.000 in meno rispetto a un anno prima; quelle occupate da uomini erano invece 44.000 in più: la differenza tra le due grandezze ammontava a circa 120.000 posizioni”

Ciò nonostante, sfumata l’iniziale enfasi eroica sulla dedizione del personale medico e infermieristico, nessun tentativo o azione volta a costruire una coscienza unitaria come lavoratori e lavoratrici essenziali è stato fatto da parte di chi, di questa categoria, fa parte. Come a confermare che quel lavoro cosiddetto riproduttivo, essenziale alla vita di una comunità, lo si considera come naturalmente dato, immobile, fisso nell’architettura di una società. Ancora una volta, quest’anno di crisi pandemica ha mostrato quanto quell’architettura essenziale e trasparente si regga su ruoli sociali predeterminati, tempi di vita e corpi quasi sempre silenziati, invisibili, ai margini dello spazio pubblico. La domanda, e la sfida, è se da questi margini, eterogenei e frammentati, possa ricomporsi una coscienza in grado di rivendicare non tanto un riconoscimento morale, quanto un riconoscimento materiale, fatto di tutela della salute sul lavoro, stabilizzazioni contrattuali, parità di trattamento e aumenti salariali. Al momento nulla ci fa pensare che questa ricomposizione sia in atto. La pandemia, che ha portato ad isolare ancora di più lavoratori e lavoratrici togliendo loro se non l’impiego quantomeno i luoghi in cui potersi aggregare oltre il contesto lavorativo, rende le cose ancora più difficili e faticose. E se da una parte una reale ricomposizione è “continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti”, per dirla con Gramsci, dall’altra occorre dire che ciò è anche esito di una subalternità politica che gli stessi lavoratori e lavoratrici hanno incorporato, nonostante espongano i propri corpi quotidianamente ai rischi di contagio o a sovraccarichi lavorativi insopportabili. 

Cosa è essenziale ora

Valga, da ultimo, l’esempio delle vaccinazioni. Con riferimento generale al settore socio-assistenziale, ad esclusione del settore prettamente sanitario, rimane una grossa fetta di educatori domiciliari, educatrici di strada, operatrici di comunità per minori, che operano in centri d’accoglienza per rifugiati o in dormitori – e la lista potrebbe proseguire – che non sono state inserite tra le categorie professionali da sottoporre a vaccino con priorità. Una molteplicità di professionisti che da marzo 2020 è stata dichiarata per decreto categoria essenziale; persone che lavorano quotidianamente a stretto contatto con l’utenza, esponendo se stessi e gli altri al rischio di contagi a catena. Anche su questo punto fondamentale relativo alla tutela e sicurezza della salute collettiva, la politica nazionale dei vaccini ha confermato di non avere in nessuna considerazione questa eterogenea categoria. 

Non credo di scivolare in un discorso di corporazione o settoriale se affermo che è necessario rivendicare che il lavoro riproduttivo, inteso come tutto il lavoro di cura e assistenza rivolto al singolo individuo che dovrebbe tenere coesa e solidale una comunità, debba essere riconosciuto come professione e in quanto tale retribuito dignitosamente e messo in sicurezza. Gli scioperi, i presidi e le manifestazioni che nel mese di marzo hanno visto protagonisti lavoratori e lavoratrici in diverse piazze italiane stanno pian piano portando all’attenzione il problema del riconoscimento sociale, e materiale, di questo settore lavorativo.

E allora dare un segnale forte, come può esserlo quello di astenersi da un’attività essenziale, ed essenziale alla vita, rivendicato dal movimento Nudm per l’8 marzo di quest’anno tramite lo slogan “essenziale è il nostro sciopero”, segna una possibilità di unità e di lotte per lavoratrici e lavoratori finora politicamente subalterni. Quello che a questa categoria di lavoratori e lavoratrici manca – difficile chiamarla classe tanta è l’eterogeneità al suo interno per tipi di professioni e condizioni lavorative – è la forza collettiva e collettrice di un movimento come quello di Nudm che negli anni sta riuscendo a prendere spazio e dare voce a tutta una storia che per così tanto tempo è stata tanto essenziale quanto messa ai margini, subalterna. 


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