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La vita agra dei giovani dell’ottocento: Jules Vallès prima della comune

Immagine di Davide Reviati
26 Febbraio 2021
Gabriele Vitello

Sembra incredibile ma è proprio così: della letteratura dell’Ottocento c’è ancora tantissimo da scoprire o riscoprire. Lo dimostra, ancora una volta, una piccola casa editrice, Edizioni Spartaco, che nella sua collana Dissensi ha da poco pubblicato la prima traduzione italiana del Diplomato di Jules Vallès, secondo tassello della sua trilogia autobiografica.

Ma chi era Jules Vallès?

Seguace di Proudhon e del socialismo libertario, Vallès divenne un noto giornalista di opposizione durante il Secondo impero. Alla vigilia della Comune, fondò il “Cri du peuple” che, nei mesi successivi, era il quotidiano più venduto a Parigi. Partecipò attivamente alla rivoluzione comunalista, venendo anche eletto nel XV arrondissement, e, dopo la repressione a opera dei versagliesi, fu costretto come molti altri comunardi ad andare in esilio a Londra. È qui che concepì il suo progetto autobiografico immaginandolo come un’oeuvre de combat: L’Enfant, Le Bachelier e L’Insurgé. Tre romanzi e un unico protagonista, Jacques Vingtras, chiaro alter ego dell’autore.

Considerata in Francia un classico, l’opera di Vallès in Italia ha ricevuto un’attenzione modesta e intermittente. Il suo nome valica le Alpi grazie a Sonzogno, una casa editrice molto dinamica che ha svolto un ruolo fondamentale nel costruire le basi di una cultura di sinistra in Italia. All’inizio del Novecento, i libri di Vallès tradotti in italiano, I refrattari (una raccolta di articoli, biografie e racconti dedicati agli ‘spostati’ di Parigi) e L’insorto (terzo volume del suo roman-mémoir dedicato alle vicende della Comune) circolano tra i giovani socialisti vicini all’ambiente delle avanguardie artistiche. Tra i suoi ammiratori si contano Piero Gobetti, lo scrittore Paolo Valera e lo stesso Mussolini. La prima traduzione dell’Enfant, romanzo incentrato sull’infanzia e sull’adolescenza di Jacques Vingtras e atto di accusa contro l’educazione avvilente impartita dalla famiglia e dalla scuola, risale invece al 1953, ma è ormai introvabile.

Le Bachelier (Il diplomato appunto) venne pubblicato una prima volta in feuilleton tra il 13 gennaio e il 13 maggio 1879 con il titolo Mémoires d’un révolté a firma Jean La Rue – fino all’amnistia (1880), la censura costringeva Vallès a nascondere il suo vero nome. Questa prima traduzione italiana curata da Enrico Zanette – già autore di un bel libro sulle memorie autobiografiche dei comunardi (Criminali, martiri e refrattari. Usi pubblici del passato dei comunardi, 2014) – colma quindi una lacuna, permettendoci di conoscere le peripezie del Vingtras ventenne e il suo barcamenarsi tra mille lavoretti per riuscire a sopravvivere: segretario personale, istitutore privato, addetto alla corrispondenza in una fabbrica, compilatore di dizionari, scrittore di satire su commissione… Tutti impieghi brevi e a volte brevissimi, e mal pagati. Come dire: gli anni passano, cambiano i suonatori ma la musica è sempre la stessa. In effetti, la scelta coraggiosa di questa piccola casa editrice di pubblicare un autore dell’Ottocento semisconosciuto è, molto probabilmente, dovuta anche all’interesse che i temi del lavoro e della precarietà stanno riscuotendo da un po’ di anni nella letteratura italiana. In particolare, l’apprendistato alla realtà compiuto dal giovane Vingtras ricorda quello raccontato in due recenti memoir nostrani, Works di Vitaliano Trevisan e Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco. Quest’aria di famiglia non è casuale: le analogie tra il nostro tempo e la Francia del Secondo impero, quest’“epoca di bancarottieri trionfanti e di repubblicani in esilio”, sono davvero sorprendenti! Chiunque si sia laureato in lettere negli ultimi vent’anni non può non riconoscersi in Vingtras quando, molto presto, si accorge che il suo titolo di studio non gli è affatto utile per farsi strada nella vita, e che anzi la cultura classica di cui è stato infarcito rappresenta spesso un ostacolo; come quando, ad esempio, viene licenziato perché infiorettava le lettere commerciali con termini e fraseggi latini. I lettori di Ivan Illich riconosceranno qui un precoce esempio del paradosso della scolarizzazione, secondo cui, passata una certa soglia di crescita e sviluppo, l’istituzione scolastica comincia a produrre effetti opposti a quelli desiderati: non elimina le disuguaglianze tra le persone, bensì le esaspera. Un fenomeno che si manifesta in Francia molto prima che in Italia. Jacques Vingtras è, infatti, il tipico esponente di quella generazione di giovani squattrinati ma istruiti provenienti dalle classe medie e popolari che affollarono Parigi a metà dell’Ottocento e che, non trovando un posto di lavoro stabile, finirono con l’ingrossare le fila della bohème; sia quella gaudente e spensierata raccontata da Henri Murger, sia quella, successiva, più politicizzata, composta da giovani ribelli vicini al proletariato, una nuova classe sociale che, con le barricate di giugno represse nel sangue dall’appena nata Seconda repubblica, fece il suo tragico e doloroso ingresso nella storia. Vingtras appartiene certamente alla seconda. A differenza dei suoi più nobili cugini letterari Lucien de Rubempré, Eugène de Rastignac e Frédéric Moreau, e dei giovani iperistruiti e disincantati del nostro tempo – esponenti, come qualcuno ha detto, di una nuova “classe disagiata” – il giovane Vingtras non intende integrarsi nella società così com’è. Il suo sogno è la rivoluzione e l’avvento della Repubblica democratica e sociale. Ciononostante, la sua idea di rivoluzione è distante da quell’immaginario romantico e giacobino che invece seduce l’amico Matoussaint, sorta di Robespierre redivivo il cui linguaggio solenne e magniloquente suona falso alle orecchie di Vingtras, tanto da indurgli il sospetto che “dopo i classici della Scuola, non ci siano i classici della Rivoluzione – con i presidi rossi e un diploma giacobino”. Per questo motivo, Vingtras appare a volte ai suoi compagni troppo scettico e spiritoso; troppo poco rivoluzionario insomma. Ma il fatto è che il suo ardore rivoluzionario non nasce dai libri bensì dal suo vissuto personale, dalla sua esperienza quotidiana di vittima di una società repressiva e violenta a partire dalle istituzioni ritenute sacre come la famiglia e la scuola.

È proprio questa sconfitta finale a farci amare ancora di più Vallès e il suo doppio letterario Vingtras, e a fare di questo romanzo dell’Ottocento – che senz’altro sarebbe piaciuto molto a Bianciardi – un ritratto memorabile dei giovani umiliati e offesi di tutti i tempi.

Sebbene non manchi il racconto di alcuni fatti storici (la cacciata di Michelet dal Collège de France, il colpo di stato del 2 dicembre e il fallito attentato a Napoleone), Il diplomato non è, come può sembrare, un romanzo storico. L’epica lascia qui il posto a una narrazione tutta in soggettiva e a una lingua pirotecnica che fa ampio uso di giochi di parole, di neologismi e soprattutto dell’argot. Un romanzo esilarante nel quale la retorica è strozzata da un irresistibile senso dello humor.

Ma Il diplomato è anche e soprattutto la storia di una lunga resistenza, e di una resa. Dopo aver cercato in tutti i modi di sopravvivere restando fedele ai suoi principi, arrivando persino a rifiutare un lavoro in collegio perché avrebbe tolto il posto a un repubblicano che si era rifiutato di prestare giuramento all’Impero; dopo aver toccato il fondo della miseria, battendosi a duello, non si sa bene perché, con il suo amico d’infanzia e compagno di sventure; dopo aver condiviso i morsi della fame insieme agli altri poveracci che, in inverno, si accalcano attorno alle stufe delle biblioteche pubbliche; alla fine del romanzo, Vingtras si arrende e accetta di lavorare come sorvegliante in un collegio. Sì, proprio lui, che prima “non parlava d’altro che di menare i professori e che voleva bruciare tutti i collegi”. Ma, come ci ha ricordato anche Paul Goodman, è sempre più difficile trovare dei lavori da uomini; e, in una società assurda come la nostra, nella quale gli uomini e le donne non credono più al mito del lavoro come mezzo per affermarsi e realizzarsi, è proprio questa sconfitta finale a farci amare ancora di più Vallès e il suo doppio letterario Vingtras, e a fare di questo romanzo dell’Ottocento – che senz’altro sarebbe piaciuto molto a Bianciardi – un ritratto memorabile dei giovani umiliati e offesi di tutti i tempi.


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