La Trap, gli adolescenti e gli adulti

Nel 1979 Dick Hebdige pubblicò Subculture. The Meaning of Style, un libro fondamentale per capire la riflessione che i ricercatori del Centre for contemporary cultural Studies (Cccs) dell’Università di Birmingham stavano conducendo sulle culture giovanili urbane dei figli del proletariato inglese a partire dagli anni Sessanta. Il libro si apre con una citazione dal “Diario del ladro” di Jean Genet in cui egli racconta di come, scoperto in possesso di un tubetto di vaselina durante una retata della polizia, in prigione subisce gli scherni dei poliziotti perché tale oggetto lo denuncia al mondo come omosessuale. E Genet, nel chiuso della sua cella, fa proprio di quel tubetto di vaselina che tanto scandalo desta alla società normale, il simbolo della sua identità e del suo orgoglio: in sintesi il suo emblema. Lo scopo della citazione che Hebdige fa di Genet è quello di spiegare come l’identità si nutra di segni e di oggetti simbolici e come questa stretta connessione che alcuni stabiliscono fra identità e oggetti costituisca lo stile, una parola chiave per capire cosa sono le sottoculture giovanili. Quasi ogni giovane generazione, dal dopoguerra in poi, è stata fortemente connotata da specifici stili legati all’affermarsi di una varietà di sottoculture: modi di vestire, di raggrupparsi, di muoversi, di parlare e soprattutto di fare e ascoltare musica.
Zooties o zoot suit, Teddy boys, rockers, mods, hipsters, rastafariani, hippy, punk, dark, metallari, emo, gabbers, ravers, rappers e trappers si sono sempre connotati attraverso un certo modo di apparire in pubblico sottolineando, attraverso i loro stili provocatori, la loro appartenenza a una sottocultura e la loro identità oppositiva alla cultura dominante. Ed è così che una serie di oggetti di uso quotidiano ma decontestualizzati e riprodotti in modo iperbolico sono diventati emblemi irrinunciabili per gli adolescenti che si riconoscono in determinate sottoculture. A ogni stile musicale finisce poi per essere connessa una droga prevalentemente consumata dai suoi ascoltatori – durante i concerti, le feste e i ritrovi, i rave, i block party, i contest, i raduni, i festival, i rainbow gathering, ecetera – che ha lo scopo di favorire il ballo, un certo tipo di socialità, di performance, che si accorda con il ritmo che impone la musica.
Per i punk ad esempio il corredo irrinunciabile è fatto di spille da balia, chiodo, catene di metallo, pantaloni neri stretti e strappati; il modo di ballare è il pogo – sostanzialmente saltare in grandi balzi e buttarsi addosso ad altri cercando di procurarsi lividi durante concerti in luoghi piccoli e affollati – e la droga di connessione all’ambiente è lo speed, un mix di anfetamine e psicostimolanti capaci di farti restare sveglio, senza mangiare e ballare per giorni. I gabbers invece si distinguono per le teste rasate, le tute da ginnastica colorate, le nike air max, il cappellino sportivo con la visiera, insieme allo stile di danza hakken – muovere le gambe a scatti secondo passi definiti in quattro direzioni all’infinito rimanendo quasi sul posto – e il consumo di ketamina e acidi per un effetto psichedelico capace di farti distaccare dalla realtà e dall’ambiente intorno. Per gli zooties degli anni Trenta e Quaranta gli emblemi erano i pantaloni larghissimi a vita alta e stretti in fondo con le pinces, le scarpe bicolore, il cappello borsalino, lo swing, il ballo acrobatico lindy-hop, il consumo di droghe estatiche come la marijuana e l’eroina, droga questa che rovinerà la carriera e la vita di molti jazzisti tra cui quella di Charlie Parker: tutti elementi dello stile attraverso i quali una nuova generazione di afroamericani vistosi, sfrontati e ribelli delle città prendeva le distanze dall’immagine razzista e vinta del “nero con la salopette di jeans”, figlio della schiavitù, della segregazione e delle piantagioni degli Stati del Sud. Anche Malcolm X – prima di diventare il profeta della rivoluzione nera del black power – a quindici anni fu uno zoot suit: nello stile esagerato di questa sottocultura che si ispirava a quello dei pimp – i magnaccia arricchiti dei sobborghi – i giovani afroamericani affermavano la sovversione a un ordine sociale che li voleva invisibili nello spazio pubblico e sottomessi al composto stile delle classi dominanti bianche.
Oggi, per una parte degli adolescenti, l’immaginario è segnato dalla musica trap e dalle espressioni che questa musica porta con sé. La trap in Italia è una musica derivativa, mutuando gran parte delle sue sonorità e dei suoi temi ricorrenti dalla trap nordamericana. Questa ultima è a sua volta figlia del rap e del caratteristico stile gangsta rap che si sviluppò nella West Coast degli Stati Uniti, in particolare nei violenti sobborghi di Compton, una contea di Los Angeles capitale della più violenta e simbolica guerra fra bande urbane giovanili, i Crips e i Bloods. È tuttavia nella opposta East Coast e in particolare nella città di Atlanta, che nasce il nuovo genere – la trap – che ravviverà il gangsta rap e si imporrà come ultima tendenza dominante nel folto intreccio degli stili che caratterizzano il rap e più in generale la cultura hip hop. Come nel gangsta rap anche nella trap i modelli e i temi ricorrenti sono un rispecchiamento di quella vita segnata da estrema violenza, degrado urbano, razzismo, uso massiccio di miscugli di droghe fatto da cantanti spesso appartenenti a minoranze marginalizzate, il cui mondo sociale si dispiega nell’economia clandestina dello spaccio di strada, delle gang e della segregazione. La trap canta quindi letteralmente la condizione di intrappolamento (trapping) e di trappola (trap) dei giovani figli di un’America senza sogno.
Se ci si chiedesse quindi cosa passa nelle cuffiette degli adolescenti nelle nostre città, che dondolano la testa e il corpo molleggiando a ritmo rallentato come sotto l’effetto di un ipnotico-sedativo come la benzodiazepina, la risposta è che passa una musica cupa, densa e narcotizzante, con bassi trattenuti e pesanti, in cui le parole sono utilizzate soprattutto per il suono che hanno e a volte messe insieme per produrre immagini lisergiche e frammentarie più che racconti, e in cui la voce arriva dopata e distorta da strumentazione elettronica come vocoder e autotune.
Dentro questo ambiente sonoro per nulla allegro e vitale, i testi in cui si rispecchiano gli adolescenti di oggi dicono alcune cose che aiutano a capire il loro senso di isolamento e di desolazione, quasi si muovessero abbandonati in un mondo sull’orlo del collasso. In una parte della scena trap italiana alcune tematiche tipiche della trap nordamericana – la droga, i soldi, le donne, l’aggressività verso altri gruppi raccolti intorno a diverse etichette musicali, la violenza nei quartieri – arrivano mescolandosi a tematiche più intimiste, si intrecciano a biografie diverse da quelle dello spacciatore nelle trap house di Atlanta, si confrontano con una realtà sociale più segnata dalla differenza di classe che da quella razziale.
Il giovane trapper romano di 26 anni Side Baby, ad esempio, nel momento in cui prende coscienza degli effetti della profonda dipendenza dalle droghe e dagli psicofarmaci in cui è caduto durante la sua esperienza con la boyband trap, la Dark Polo Gang, canta in “Medicine”: Ho preso le mie medicine, ma non sento l’effetto/ Sto seduto in piedi sul bordo del letto (non dormo)/ Da ragazzino in piedi sul bordo del tetto/ Lasciando cadere cose per sentirne l’effetto (giù giù giù)/ il suicidio non lo contemplo ma ci penso spesso/ Lo ammetto, ultimamente ci stavo attraverso/ Depressione è una condizione, credi duri in eterno/ È tutto in testa. È una battaglia col cervello. Come spiegato diverse volte dal cantante in alcune interviste, potremmo parafrasare così: “le mie medicine sono gli psicofarmaci e anestetici che utilizzo come droga, alle quali sono talmente assuefatto che non hanno più effetto. La dipendenza mi sta portando sull’orlo del baratro, ho la tentazione di lasciarmi andare giù e quindi di spingermi oltre i limiti per provare delle emozioni che non riesco più a provare”.
In Side Baby la pulsione di morte appare talmente forte che, anche quando canta canzoni più lievi, nei video non assume mai espressioni facciali, ma rimane sempre quasi catatonico e fisso, come stanco di recitare la sua parte.
Anche Ketama 126, il trapper romano che in modo più diretto e franco parla di questo stato di ottundimento delle emozioni e del corpo, di insensibilità e di contraddittorietà delle sensazioni in cui la droga precipita chi la usa, in “Rehab” canta: Ho speso un K per sentirmi meglio, ehi/ Se piangi piove ed io compro l’ombrello/ Parlo sempre di droga perché non facciamo altro/ Non ho contenuti perché sono vuoto dentro/ Lei mi crede carino/ Ma non sa che faccio schifo/ Sto piangendo mentre rido/ Compro una villa a Ostia Lido. Nel video che accompagna la canzone Ketama 126 appare collassato e stravolto fra gambe di donne seminude in una roulotte che sembra parcheggiata nel nulla di un luogo abbandonato, i suoi denti sono ricoperti da grillz (gioielli stile dentiera) dorati nel perfetto stile pimp e chiude la canzone avvertendo: anche se divento ricco e famoso, anche se imito i trapper americani, rimango sempre lo stesso ragazzo dei quartieri di Roma.
Nonostante la droga – smerciata, consumata e ostentata – possa apparire il tema ossessivo della trap, questa musica non è un’epica della tossicodipendenza, piuttosto è il racconto di come all’insostenibilità delle emozioni, dell’ansia, dell’incapacità di affrontare situazioni sociali collettive in cui siamo immersi in un confronto complesso con noi stessi e con gli altri, la droga offra una via di fuga all’impossibile adattamento alla società. Queste sensazioni canta in molti pezzi Tha Supreme, il trapper che più di tutti ha prodotto un complesso codice linguistico e simbolico pieno di riferimenti e rimandi a videogiochi che possono parlare solo a un ragazzo nato negli anni Duemila e che racconta il suo rapporto con lo Xanax, un ansiolitico che chiama “troia” perché tradisce, poiché non lo cura dai suoi disagi, lo precipita nella dipendenza e lo porta a scambiare il giorno con la notte. Tha Supreme narra infine l’uscita dalla dipendenza da Xanax assimilando la sua esperienza a quella di un giocatore di videogiochi che riesce a uscire dal livello in cui è intrappolato e passare al livello più alto: No Xan’ anche se l’ansia a volte mi diceva: “Ma vuoi Xa’?”/ No, no, ho imparato a non fidarmi di quella troia/ No, no, indietro non ci torno/ Con il giorno che sembra notte e la notte che sembra giorno/ Cosa vuoi? Yah, uoh/ Mi riprendo e ritorno l’high ground, uoh/ Prima stavo sotto per cosa? Non lo so.
In generale tutte le sottoculture giovanili al loro apparire non hanno fatto altro che preoccupare un mondo degli adulti senza più licenza poetica, che prendeva alla lettera le provocazioni degli adolescenti. A preoccupare e a creare panico sociale intorno alla sottocultura trap sono una serie di temi ricorrenti nel genere: il maschilismo e l’invariabile rappresentazione della donna come oggetto sessuale o come bitch/prostituta, il racconto di un rapporto continuo e quotidiano con le droghe il cui consumo viene reso glamour e campo di dimostrazione della propria virilità, il culto dei soldi, del successo, dell’arricchimento facile e veloce attraverso lo spaccio o un successo musicale inteso essenzialmente come business economico, uno dei modi per tirarsi fuori dal blocco/periferia insieme allo spaccio, quasi un salario accessorio.
Quando Sferaebbasta non era ancora una soubrette, nelle sue canzoni descriveva l’hinterland milanese e i luoghi in cui è cresciuto, ad esempio in “Panette”, così: E noi non scappiamo da qui, mamma vorrebbe vedermi in Tv ma non al Tg/ Tu non capisci, parlo di storie di G, dentro le Nike Tisci/ Palazzi di 15 piani, in 15 in 15 metri quadrati/ Per questa roba tagliati, tagliano roba per gli altri, portano tagli sui bracci/ E tutti i miei bro, ti guardano male ti rigano il Porsche/ Sognano piste a Courmayeur (ma, ma)/ Ma tiran piste in curva nord/ E dimmi cosa cazzo ti guardi, vieni che ti spengo un po’/ C’ho tutto quello che ti serve nella mia felpa di Burlon. Con la spacconeria tipica del rap, Sferaebbasta racconta la vita di un ragazzo dei quartieri che si dà da fare nel business dello spaccio e che sogna di diventare famoso e soprattutto ricco per fare contenta la mamma. E in fondo Sferabbasta la mamma l’ha fatta contenta, anche se ha lasciato la scuola a 16 anni e sembrava destinato a una vita di spaccio sotto i palazzi e a lavoretti mal pagati.
A
ben guardare tuttavia, superando l’irriducibile moralismo che
permea ogni sguardo degli adulti sulle produzioni culturali degli
adolescenti e la dinamica di irrisione e poi di rivalutazione e
feticizzazione delle sue espressioni materiali a distanza di tempo,
ciò che dovrebbe preoccupare gli adulti della trap non è né la
droga, né il suo materialismo edonistico e cinico, né il
maschilismo. Questi ultimi non sono infatti che elementi di realismo
e di etnografia del presente che caratterizzano la musica trap e la
distanziano dalla musica pop intesa come svago ed evasione. Piuttosto
è l’atteggiamento che di fronte alle situazioni descritte una
generazione di giovani sembra assumere: mentre il no
future
dei giovani punk era intriso di ribellismo e contrapposizione alla
società e alle sue regole, così come l’aspetto appariscente degli
zoot
suit
e la loro musica che liberava il corpo nero infrangevano l’ordine
sociale dell’America segregata, questa trap è innocua.
Sia
che inneggino al denaro e al lusso, sia che più onestamente e con un
lirismo crudo narrino il Polo Nord emotivo della provincia lombarda,
come fa Massimo
Pericolo
in Miss:
Mi
hanno detto tutte: “Miss you”, ma ora fanno le troie (bitch)/È
colpa tua se adesso vedo uno psicologo/ non meno i tuoi amici o poi
mi prendo dell’omofobo/ Baby sei così sexy ma oggi c’ho i
complessi/ i miei si sono amati solo prima che nascessi/ Non sai
quanto bisogno c’ho di mettertelo in culo/ pensare mentre scopo che
di me importi a qualcuno/ fanculo, fanculo.
Ripiegati su se stessi, sul proprio sogno individuale di riuscita che
poi li porta invariabilmente a interrogarsi sul successo o cadendo in
litanie autocelebrative come Sferaebbasta,
o andando in crisi come Ghali,
il problema della trap è che, a un mondo crepuscolare e asfittico
dove contano solo il denaro e il successo e l’individuo è
sostanzialmente solo e senza ambiti collettivi in cui riconoscersi,
oppone una resa senza lotta.
Gli adulti scandalizzati concentrano la loro avversione e denuncia sui simboli e sullo stile della trap, così come su un modo di raccontare la realtà certamente crudo, cinico e disimpegnato. Il mercato musicale invece è intento a vampirizzare una schiera di ragazzini che mette a nudo senza filtri nei propri testi ansie, fragilità e senso di smarrimento in modi a volte poetici, a volte ingenui, a volte idioti e sbruffoni. I ragazzini invece continuano a molleggiare cupi a scuola, sugli autobus, per strada, cercando chi dia parole semplici e dirette – e una colonna sonora – al loro modo di vivere un passaggio d’epoca come quello attuale. Per la prima volta, come sempre, una nuova generazione si confronta con incubi sociali – una disuguaglianza fra le classi che sembra inestirpabile, un disastro climatico e ambientale irreversibile, la mancanza di grandi esperienze di massa e discorsi politici capaci di prefigurare scenari di cambiamento – dai quali nessun adulto può farli risvegliare.