La tortura in una dichiarazione giurata: sulla traduzione della sofferenza palestinese
Traduzione di Giovanni Pillonca
Il romanzo che ha dato fama ad Anton Shammas, Arabesques, è stato appena ripubblicato negli Stati Uniti (l’edizione italiana, Arabeschi, Mondadori 1990, è fuori catalogo e meriterebbe una nuova edizione). Shammas, arabo palestinese, scrisse il romanzo in ebraico, dimostrando una sorprendente padronanza della lingua del dominatore in tutte le sue sfumature, da quelle bibliche a quelle letterarie, passando per la lingua del quotidiano. Aspirava, Shammas, – siamo negli anni ’70 – non soltanto a elaborare e articolare il dolore per la catastrofe che il suo popolo aveva subito nel ’48, ma anche a salvare dall’oblio almeno un frammento di quanto la guerra aveva cancellato: intere comunità vittime di violenze e massacri o costrette all’esilio, circa 500 villaggi rasi al suolo e obliterati con insediamenti e parchi nazionali. Per uno strano caso o forse perché si trattava di un villaggio cristiano, quello di Shammas, Fassuta in Galilea, venne risparmiato e i suoi abitanti inglobati nel nuovo stato, e insieme ai palestinesi rimasti sottoposti per circa 20 anni a uno strettissimo regime di controllo. All’ebraico, Shammas giunge per una sua propria pulsione narrativa, non spinto da imperativi politici programmati. Proprio per questo, la resa delle memorie del villaggio natale è così riuscita e insuperata resta ancora oggi l’evocazione della storia della famiglia, delle sue memorie e di quelle del parentado e dei vicini. Al di là delle intenzioni del narratore e del valore e dell’originalità sorprendenti dell’opera anche dal punto di vista formale, è indubbio che il libro costituisse, allora, implicitamente un’apertura di dialogo. Che non sortì, purtroppo, l’effetto sperato. Nel 2017, Shammas pubblica il saggio di cui proponiamo un estratto, che può essere considerato un’amara palinodia rispetto alla posizione degli anni ’70 e ’80. La traduzione, una pratica su cui Shammas ha investito così tanto traducendo scrittori e poeti arabi in ebraico, non solo non sortisce effetti pratici, ma è, secondo Shammas, impossibile. Come tradurre, infatti, la sofferenza – ad esempio quella di un prigioniero sottoposto a tortura – in parole? Come interpretare e tramutare segni non verbali in segni linguistici? Di questo tratta il saggio per giungere all’amara conclusione che la traduzione non solo è fondamentalmente impossibile, ma è inutile. A 30 anni di distanza si può dire che non abbia lasciato tracce. Di sicuro, questa pratica non ha cambiato la mappa politica e non ha fatto succedere nulla alla voce palestinese, che è sempre destinata a essere relegata in una posizione inferiore rispetto alla sofferenza storica del popolo ebraico. E tuttavia, nella seconda parte del saggio, dedicata al poeta palestinese Taha Muhammad Alì, da lui tradotto in ebraico, Shammas, pur riaffermando che il dolore non può essere tradotto in parole, sostiene che il tentativo da lui fatto di tradurre i versi del poeta in ebraico è servito a “dargli una presenza in quella lingua che lo strappò dalla sua casa – il villaggio di Saffuriyya, che fu invece distrutto dall’esercito israeliano – dalla sua lingua, dalla storia trasformandolo in un rifugiato nel suo proprio paese. Nell’opera di Taha, grazie ai suoi versi, quel mondo e quella cultura, che la guerra del ’48 aveva materialmente cancellato, sarebbero sopravvissuti, testimonianza incancellabile di quella sofferenza e di quel dolore così difficili da tradurre (G.P.).
Roman Jakobson ha definito la forma di traduzione che mi interessa “traduzione intersemiotica” – o trasmutazione, “un’interpretazione di segni non verbali mediante segni verbali”. Tenendo questo in mente, esaminerò la testimonianza, una tra centinaia di altre testimonianze, di un prigioniero palestinese, registrata durante la prima Intifada (tra la fine del 1987 e il 1991), e la sua traduzione in ebraico e in inglese da parte dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem in una delle sue eccezionali pubblicazioni del 1991.
Nel contesto della traduzione intersemiotica, come la definisce Jakobson, o dell’interpretazione di segni non verbali di violenza (tortura) per mezzo di un sistema di segni verbali (una dichiarazione giurata), l’atto di tradurre la tortura, come dice il mio titolo, presuppone che il dolore soggettivo, se inflitto al corpo umano, possa essere articolato e poi tradotto e formulato in un documento legale. E come se questo presupposto contorto non bastasse, dobbiamo tenere presente che in questo caso l’atto di torturare il corpo palestinese, di per sé, è una traduzione non verbale di un ordine militare non scritto formulato in ebraico israeliano, verbalmente o non verbalmente, e che il dolore sofferto dalla vittima potrebbe essere articolato – se non del tutto – in arabo, quindi tradotto in ebraico, per esempio, da un membro israeliano di un’organizzazione israeliana per i diritti umani, e quindi redatto in una casta versione inglese sotto forma di dichiarazione giurata, l’unica forma di narrativa accettata in tribunale e, per quei lettori che sono disposti ad ascoltare, una fievole, tre volte rimossa, narrazione del dolore.
“Provare un grande dolore”, ci dice Elain Scarry in The Body in Pain, “è avere certezza; sentire che un’altra persona ha dolore è avere dubbi”. Ora, immaginiamo che quando leggiamo o ascoltiamo una dichiarazione giurata in una traduzione inglese di un palestinese che è stato vittima di torture i nostri dubbi non sono solo sull’indivisibilità del dolore e sulla “sua resistenza all’oggettivazione”, come sostiene Scarry, ma piuttosto sul risultato di quel dolore che fatica ad avere un senso per noi attraverso tre lingue: arabo, ebraico e inglese. “Il dolore fisico non si limita a resistere al linguaggio”, aggiunge Scarry, “ma lo distrugge attivamente, provocando un ritorno immediato a uno stato anteriore al linguaggio, ai suoni e alle grida che un essere umano emette prima che il linguaggio sia appreso”. Comunque sia, un dolore fisico palestinese non resiste semplicemente al linguaggio in quanto tale, ma resiste anche a essere tradotto in una lingua specifica, l’ebraico, la lingua dell’occupante, il cui obiettivo implicito in circa centoventi anni di sionismo, è sempre stato quello di sopprimere, delegittimare, bandire e annientare l’arabo palestinese. L’ebraico, per i palestinesi, è sempre stato il linguaggio violento dell’occupazione e dell’espropriazione, il linguaggio violento della distruzione usato come arma per la distruzione del corpo e dell’anima dei sudditi palestinesi. Quindi, quando una testimonianza palestinese di tortura viene tradotta in ebraico, per quanto empatico possa essere il traduttore, correrà sempre il grave rischio di essere considerata inaffidabile, di essere articolata in un dialetto sospetto che tenta sovversivamente di acquisire lo status di una lingua, per essere alla pari con l’ebraico. E quando quella testimonianza sarà trasferita in inglese, nel genere legale della dichiarazione giurata, sarà sempre letta attraverso tutti questi filtri destabilizzanti.
Leggendo le testimonianze delle vittime palestinesi di tortura, sia nell’originale arabo, sia in traduzione ebraica o inglese, nelle pubblicazioni e sulla pagina web dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, con sede a Gerusalemme, si rimane colpiti dall’evasività dello stile; metodi fisici e psicologici di tortura sono menzionati o allusi, ma è molto raro che un palestinese descriva in dettaglio il dolore sofferto. Entro i confini della lingua e il potere altrettanto costrittivo dei codici e delle norme sociali, un maschio palestinese in una società prevalentemente patriarcale, considererebbe effeminata una tale descrizione. La sofferenza, secondo il machismo palestinese, non dovrebbe essere confermata o ammessa, ma piuttosto rimossa, sminuita o liquidata come un attributo di debolezza, proprio di donne e bambini deboli, ma non di uomini veri che si rifiutano di permettere che l’occupante pensi che il loro spirito è stato spezzato. La convenzione non scritta esige che gli uomini che svolgono un ruolo importante nello scrivere la narrativa nazionale stringano sempre i denti e non confessino mai il tradimento del corpo.
La resistenza all’occupazione, come atto politico, include l’implicita resistenza al linguaggio dell’occupante e a tutto ciò che rappresenta, anche quando quel linguaggio a volte sembra essere l’unica via d’uscita per le traversie palestinesi e l’unico mezzo attraverso il quale potrebbero essere riconosciute. Ma, il più delle volte, il dolore palestinese è messo in dubbio, contestato e negato da quello stesso linguaggio. In questo senso, “tradurre il dolore palestinese”, quindi, è quasi impossibile su più di un livello. Tuttavia, se vogliamo accettare la validità della dichiarazione che stiamo leggendo, e se dobbiamo credere alla certezza della sofferenza inflitta sotto tortura, dobbiamo leggere tra le righe, riempire le lacune, verbalizzarle insieme con i dettagli mancanti. Questo presuppone che il lettore non sia solo disposto ad ascoltare ma anche, cosa più importante, a credere all’oratore ovattato e a confidare che la sua narrazione sia veritiera e che, come afferma Jean-Francois Lyotard (in “The Différend, the Referent, and the Proper Name”, Diacritics, Vol. 14, No. 3, Autumn 1984, pp. 3-14), “la situazione stessa esisteva, (e) non è il frutto dell’immaginazione del tuo informatore”.
Coloro che hanno familiarità con il contesto di questa citazione di Lyotard, che ho inserito nella mia argomentazione come una sorta di provocazione, immagino che riconsidererebbero intuitivamente la loro fiducia iniziale e dubiterebbero della veridicità e verificabilità dell’affermazione dell’aspirante palestinese sull’essere vittima di tortura. Il contesto, ovviamente, è l’Olocausto, e il motivo per cui sto introducendo questo buco nero creato dall’uomo del ventesimo secolo non è in alcun modo quello di creare uno spazio per il confronto tra l’inimmaginabile sofferenza del popolo ebraico nell’Olocausto e la sofferenza dei palestinesi sotto l’occupazione israeliana, anche se, bisogna ammetterlo, questo confronto è stato occasionalmente fatto da alcuni palestinesi (più recentemente e probabilmente a seguito dell’assalto israeliano a Gaza all’inizio del 2009 e durante l’estate del 2014). Sto introducendo l’Olocausto nella mia argomentazione perché l’articolazione del “dolore palestinese” nel mio titolo, verificabile o meno, deve sempre essere letta in rapporto all’Olocausto, almeno inconsciamente, e deve essere successivamente, se non sminuita, certamente minimizzata o respinta. E questa è, probabilmente, la ragione principale dell’inabilità dei palestinesi occupati da cinque decenni a convincere l’opinione pubblica dell’Occidente, tormentata dai sensi di colpa, a considerare favorevolmente la loro situazione e ad essere in sintonia con il loro dolore. E peggio ancora, tutte le indicazioni mostrano che l’occupazione israeliana è destinata a durare, indefinitamente, in una forma o nell’altra, e che la lotta palestinese per la liberazione non è solo “una causa persa”, come ha affermato Said, ma anche che sarà sempre tradotta in modo intersemiotico e talvolta etichettata, almeno negli Stati Uniti, come “atto terroristico”. Quindi, per tradurre il dolore palestinese, l’atto della traduzione deve fare i conti non solo con l’innata incapacità del linguaggio di articolare il dolore, come sostiene Scarry, ma anche con l’intrinseco fallimento della traduzione nel farci ascoltare la sofferenza degli altri, i deponenti, per quanto valida e ben strutturata possa essere la loro dichiarazione giurata.
I seguenti estratti provengono da una dichiarazione giurata firmata (nell’originale si estende su circa tre fitte pagine),la traduzione in inglese di una testimonianza resa da un tale Muhammad Subhi Ibrahim Ahmad Jit, del campo di Shati nella striscia di Gaza, all’avvocata israeliana Tamar Peleg il 14 aprile 1990, durante la prima Intifada, e pubblicata un anno dopo in The Interrogation of Palestinians During the Intifada: Ill-Treatment, “Moderate Physical Pressure” or Torture (B’Tselem 1991).
La testimonianza che ho per un motivo deliberatamente scelto ha venticinque anni; il passare del tempo – dal momento che nulla, in sostanza, è cambiato dai primi anni Novanta in Israele/Palestina – sembra averle conferito una validità che solo il tempo può dare, come se la tortura fosse diventata una lunga tradizione in cui la ripetizione stabilisce uno schema. Allora perché imporre il genere della dichiarazione giurata alla narrazione della vittima se non arriverà mai in tribunale? La risposta potrebbe essere che il potere discorsivo del genere stesso è ciò che “salva” la narrazione e le dà credito, come testo, indipendentemente dal fatto che arrivi o meno in tribunale. E per un lettore che conosce tutte e tre le lingue, la testimonianza stessa, sotto forma di dichiarazione, diventa una sorta di lettera rubata lacaniana: lo stesso testo, tradotto o ricostruito, si muove tra tre lingue, cambiando contesti e possedimenti, mentre acquista un significato diverso in ciascuna.
Sono stato arrestato a casa mia il 1° marzo 1990 verso le 21:30 e portato al centro di detenzione del campo di Shati. Sono stato trattenuto fino al 17 marzo nelle tende. Il 17 sono stato interrogato e trasferito in una cella della struttura del Servizio di sicurezza generale (GSS) nel centro di detenzione del campo di Shati. Sono stato detenuto lì fino al 23 marzo.
Sono stato interrogato ogni giorno.
Il primo giorno, il 17, mi hanno interrogato. Mi hanno accusato di essere il capo dei comitati popolari a Sheikh Radwan. Ho respinto l’accusa. Mi hanno detto che altri due avevano detto chi ero nelle loro confessioni. Ho nuovamente negato l’accusa.
L’interrogatorio è iniziato verso le 13:00 ed è terminato intorno alle 21:00. Quel giorno hanno soprattutto parlato e mi hanno percosso solo un po’. Alle 21:00 mi hanno riportato in cella, e lì sono rimasto fino al giorno dopo, il 18, alle 9:00.
Un G.S.S. un uomo di nome “Jan” è venuto a prendermi e ha parlato con me fino alle 11:00. Poi è arrivato “Abu Daoud” insieme ad un altro G.S.S. Uno di loro ha cominciato a picchiarmi mentre gli altri due gridavano. A turno picchiavano e parlavano.
Mi hanno picchiato sullo stomaco e mi hanno anche preso a calci sulle gambe. Mi hanno picchiato con un bastone lungo circa 80 centimetri, e anche abbastanza spesso, come un bastone da soldato. Sembrava un ramo di un albero di limoni. Mi hanno picchiato sulla schiena e sulle gambe.
Mi hanno interrogato e picchiato fino alle 17:00 circa (poi) mi hanno legato le mani dietro la schiena, mi hanno bendato gli occhi e mi hanno portato fuori. Mi hanno ordinato di stare nel cortile esterno. Era molto difficile per me stare in piedi. Di solito cammino con l’aiuto di un bastone, da quando mi hanno sparato a una gamba un anno fa….
Il 19…. Mi hanno messo un sacco sulla testa, mi hanno stretto le mani intorno alla gola, poi hanno lasciato la presa, mi hanno messo la testa in un secchio d’acqua fino al collo. Il sacco era incollato alla mia faccia. Lo hanno fatto sei o sette volte, di seguito. Quando mi hanno tirato fuori la testa dall’acqua, mi hanno preso a pugni in testa ….
(e dopo un’altra serie di torture e abusi) mi hanno colpito allo stomaco e mi è uscito sangue dalla bocca. Ho vomitato….
Il medico della prigione ha riferito alla dottoressa della Croce Rossa delle mie condizioni, ma non le ha permesso vedermi. Erano circa le 16:00, mi hanno portato alla clinica e la dottoressa della Croce Rossa è venuta a trovarmi. Non parlava arabo. Ho cercato di spiegarle le mie condizioni e l’interrogatorio, e lei ha promesso di aiutarmi.
(E più tardi) hanno continuato a picchiarmi e gridare: “Alzati!” Non riuscivo a camminare ed ero sdraiato sulla schiena…. Mi hanno detto: “Hai sporcato il cortile”. C’era della sabbia , e l’hanno versata sui miei vestiti, che erano coperti di vomito e sangue.
Mi sono risvegliato all’ospedale di Shifa.
Non so in che lingua l’avvocata Tamar Peleg abbia ascoltato la testimonianza. Era arabo o un ebraico maccheronico mescolato con l’arabo? Ha avuto bisogno di un interprete? Ha registrato la testimonianza e poi l’ha consegnata a qualcuno che potesse produrre una trascrizione? La testimonianza è stata accolta dai silenzi tra i ricordi, dall’esitazione, da un armeggiare per le parole, dai gesti e dal linguaggio del viso e del corpo, da un crescente senso di futilità; o la testimonianza è fluita in modo diretto, senza interruzioni? E come ha fatto la dottoressa della Croce Rossa che è venuta a controllare Muhammad Subhi Ibrahim Ahmad Jit, e che non conosceva l’arabo, come è riuscita a trasmettere i dettagli della sua sofferenza, e in che lingua?
Non conosco le risposte a queste domande, e forse nessuno le sa. Ma quello che so è che il bastone usato nel pestaggio, che “sembrava il ramo di un albero di limoni”, il comune ramo che si è trasformato in un’arma, come avrebbe detto Scarry, deve aver toccato una corda molto speciale, deve aver toccato un nervo scoperto. L’albero di limoni, nell’immaginario palestinese, rappresenta la Palestina perduta, “la terra delle arance tristi”, come la definì Ghassan Kanafani, uno scrittore palestinese assassinato dagli israeliani all’inizio degli anni Settanta a Beirut, in un racconto che pubblicò nel 1963. E Muhammad Subhi Ibrahim Ahmad Jit, che camminava con l’aiuto di un bastone, deve aver avuto la sensazione che la tortura non fosse eseguita dai signori del G.S.S. ma, piuttosto, dalla sua stessa patria; e la sabbia della costa della patria, dove un tempo crescevano gli agrumi, stava ora seppellendo il suo corpo dolorante, dopo averne pulito il vomito e il sangue.
Queste connotazioni hanno inconsciamente attraversato la mente della vittima in tempo reale, o sto posizionando il testo, come una lettera rubata, all’interno di un contesto di mia invenzione, conferendogli una certa letterarietà, sperando che aggiunga un altro livello alla sua validità? E cosa fa questo alla violenza intrinseca del testo? Non stiamo trasformando la violenza cruda e fuori controllo in una metafora gestibile, solo per il gusto di addomesticarla e renderla più facile da affrontare, più facile da credere? La violenza del testo, spesso concretamente, vale sia come violenza interrogativa che come violenza fine a se stessa, o tortura fine a se stessa, intesa come “atto di riscaldamento” per preparare la vittima alla “Domanda”. E quando la domanda viene posta, quando viene introdotta nello spazio sempre più ristretto della cella della vittima, nello spazio sempre più ristretto del corpo della vittima, deve essere prodotta una risposta “soddisfacente”, una confessione. Altrimenti, la violenza continua, poiché la risposta si traduce intersemioticamente in dolore inflitto. Il dolore vissuto dalla vittima, la sofferenza che distrugge attivamente il linguaggio, come sostiene Scarry, provoca “un ritorno immediato a uno stato anteriore al linguaggio, ai suoni e alle grida che un essere umano emette” quando viene torturato. Potrebbe aver prodotto quei suoni in tempo reale, ma ora, un paio di settimane o mesi dopo, il linguaggio riprende il controllo, cancellando dal ricordo i segni che avrebbero potuto, altrimenti, dare alla testimonianza una misura di credibilità. Ma la vittima preferisce la compostezza e l’equilibrio alla credibilità, non solo perché lo impone il suo codice d’onore, ma forse perché sa che la sua testimonianza non cambierà nulla; che tutto ciò che fa è già previsto dal sistema di potere dell’occupazione, onnicomprensivo, già parte di quel sistema, poiché il dissenso è sempre contenuto e disinnescato dal sistema che lo regola, lo controlla e lo manipola.
(…) In quale altro modo spiegare il fatto che più di venticinque anni dopo la testimonianza di Muhammad Subhi Ibrahim Ahmad Jit, e di tanti altri, Israele ancora sistematicamente tortura i palestinesi, non nella “camera oscura” (la efficace locuzione di Coetzee in Aspettando i barbari) ma, piuttosto, con la luminosa benedizione della legge, poiché Israele è uno dei due stati democratici al mondo in cui la tortura è stata legalizzata. Come spiegare altrimenti il fatto che il dolore di Muhammad sia andato totalmente perduto e non solo nella traduzione ma piuttosto nel linguaggio in quanto tale, in quanto non ha lasciato tracce, non ha cambiato la mappa politica e non ha fatto succedere nulla alla voce palestinese, che è sempre destinata a essere relegata in una posizione inferiore quando si evoca l’Olocausto. E l’atto stesso della traduzione non è, in sé e per sé, l’ennesima forma di violenza, diretta all’originale in continua diminuzione, con la falsa pretesa che la traduzione, nelle parole di Walter Benjamin, dia all’originale un’“altra vita”?
Quindi, alla luce di quanto sopra, e nonostante la lunga genealogia del suo nome, cosa si perde davvero nella traduzione, per usare un cliché molto logoro, è lo stesso Muhammad Subhi Ibrahim Ahmad Jit.
[Versione ridotta di “Torture into Affidavit, Dispossession into Poetry: On Translating Palestinian Pain”, apparso su Critical Inquiry, vol. 44, No 1 (Autumn 2017), pp. 114-128]