La soluzione è la lotta
Un tempo non si parlava di operatori sociali o di assistenti sociali ma di militanti, interessati alla difesa degli interessi dei proletari e dei poveri (i “non abbienti”), e alla loro “presa di coscienza”, alla loro organizzazione, alle loro lotte. Chi sentiva di dover occuparsi dei proletari e dei poveri – e poteva essere credente o non credente, di origini proletarie o di origini borghesi – era mosso da istanze di giustizia, da sentimenti di solidarietà. Sapeva di avere avuto in sorte dalla vita qualcosa di più di quelli di cui si occupava, e sapeva di dover dare qualcosa indietro, agendo insieme a loro per l’affermazione di un mondo migliore. Non si sentiva superiore o diverso, solo più colto, più cosciente. La parola sociale evocava quasi automaticamente la parola socialismo.
Finita la sinistra, finito un modello di capitalismo (di produzione, di economia) soppiantato da un modello iper-liberista e dal dominio della finanza, è finito anche il welfare, che in tempo di vacche grasse aveva permesso iniziative e istanze che, pur marginali e minoritarie, erano tuttavia vivaci e originali: l’affermarsi del “terzo settore”, la miriade di associazioni che si occupavano di settori particolari del disagio sociale. Dapprima il nuovo modello economico ha riservato a questi gruppi e persone la cura di chi non bastava lo Stato ad assistere, liberando lo Stato da incombenze dirette e gravose, costose, ma poi lo Stato, a seguito della crisi e sotto l’influenza dei nuovi modelli e dei nuovi poteri, ha stretto le corde della borsa, e ha scelto di lasciare i poveri, i disagiati, i malati a se stessi, e adesso di abbandonare a se stessi anche i mediatori, gli assistenti, gli operatori – come ha fatto o sta facendo anche in altri campi dell’intervento statale, a cominciare dalla scuola.
Gli operatori, privati del riconoscimento e dell’aiuto dello Stato (e ora anche, progressivamente, dell’Europa), sembrano aver scelto la strada non della lotta ma del lamento, chiedendo allo Stato (e a i suoi rappresentanti politici) la carità di non essere messi alle corde, di non perdere del tutto il poco che avevano.
In passato si è assistito spesso alla corporativizzazione di certi settori dell’intervento sociale partiti dal volontariato, dall’autorganizzazione, dalle lotte, e appannandosi i fini, le scelte etiche da cui si era partiti, si sono professionalizzati perdendo di identità e burocratizzandosi. È successo più volte, per esempio nel secondo dopoguerra con la storia del servizio sociale e con il riconoscimento della professione, allora nuova, di assistente sociale. Da una sorta di militanza a una rigida professionalizzazione. Ma oggi la situazione è diversa, e la prospettiva non è quella del riconoscimento professionale, bensì quella della piena disoccupazione, neppure del precariato… E allora le scelte degli “operatori sociali” possono essere solo due: quella che essi sembrano in gran maggioranza seguire oggi – lo si è detto: del lamento questuante – e quella dell’incontro più forte con le persone di cui hanno scelto di occuparsi, con i loro assistiti. Ed è bene ricordare che, se si escludono i malati psichici gravi, tutti gli altri settori del disagio sono passibili di azioni dirette alla salvaguardia della propria sopravvivenza, alla difesa dei diritti faticosamente acquisiti negli ultimi decenni, o per gli immigrati dei diritti legati alla cittadinanza.
Con l’esplosione della crisi, con l’affermazione di un modello economico estremamente classista (i ricchi pochi e sempre più ricchi, i poveri sempre più numerosi e sempre più poveri, e in mezzo “mediatori” al mero servizio dei pochi, dei ricchi e delle istituzioni da loro occupate) la condizione degli operatori si è andata accostando a quella dei loro assistiti, ma senza che di questa novità, pur così evidente, essi abbiano voluto prendere atto. Al contrario, occupandosi prioritariamente di se stessi, anche quando dichiarano di farlo per difendere i loro assistiti, gli operatori tendono a dimenticare la loro stessa ragion d’essere, la vocazione da cui dicono di essere partiti, da cui sostengono di essere ancora guidati. Contano più loro e le loro associazioni delle persone di cui hanno scelto di occuparsi, e siccome l’aggressione post-welfare alle loro possibilità di intervento si fa sempre più violenta, scelgono di agire ciascuno (ciascuna associazione) per sé, senza neppure il tentativo di riconoscere che il problema è comune, in modi scomposti, non coordinati e facilmente contrastabili, rifiutando almeno per ora di collegarsi tra loro in vista di una difesa (una battaglia) comune.
È sul collegamento tra gruppi e associazioni e la definizione di una linea unitaria ben più radicale di quella del lamento e dell’agire da soli che “il sociale” dovrebbe muoversi, anche se non è affatto probabile che voglia farlo. Ed è soprattutto su una nuova solidarietà tra “assistenti” e “assistiti”, tutte le volte che questo possa essere possibile, che sono quasi tutte. Il sociale dovrebbe imparare a far politica, e scegliere la strada della lotta – muovendosi insieme assistenti e assistiti. Purtroppo non lo farà, e sarà peggio per lui, perché gli assistiti troveranno altre strade per reagire alle azioni del potere, e i suoi operatori si troveranno costretti nel brutto ruolo di servi senz’altra funzione che quella di tener buoni i poveri, i disagiati, gli oppressi. (g. f.)