La scuola media secondo la Fondazione Agnelli
A fine novembre 2011 è arrivato in libreria il Rapporto sulla scuola in Italia 2011 della Fondazione Giovanni Agnelli, tutto dedicato alla scuola media, o secondaria di primo grado che dir si voglia, e alla sua non presunta quanto conclamata crisi. L’autorevolezza del rapporto annuale della Fondazione Giovanni Agnelli è dovuto sia all’ingente investimento messo in campo per le analisi di molte e rigorose ricerche quantitative (anche se non sempre citate con trasparenza), sia all’oggettivo potere che questa Fondazione, assieme alla Fondazione per la Scuola della Compagnia San Paolo, esercita sull’agenda delle politiche istituzionali e parlamentari in materia di istruzione, secondo un legame tra industria e istruzione ancora sempre da rinarrare e sviscerare. Dato quest’ultimo che non può che rendere avvertita la lettura che del discorso presentato nel suddetto rapporto può dare un lettore o lettrice sensibile al senso sempre politico dell’educazione.
Lo studio della Fondazione mette in campo numeri, statistiche, grafici che dicono qualcosa che chi sta nella scuola media ad occhi aperti sapeva da tempo: la sua forma , la sua organizzazione, la sua didattica producono malessere, ignoranza e spietata selezione sociale.
Il prossimo settembre 2013 si compiranno i cinquant’anni della scuola media unica, decretata con la legge 1859 del 31 dicembre 1962 al termine di un dibattito politico-parlamentare accanito in cui, di fronte al boom economico e demografico, si fronteggiarono opposte ideologie e convergenti obiettivi: si trattava di portare la popolazione italiana a un grado di alfabetizzazione culturale e sociale di base adeguato allo sviluppo del lavoro e alle istanze di democratizzazione. La missione della scuola media unica poneva tuttavia a livello istituzionale e politico implicazioni così complesse e trascendenti che si arriverà, nell’articolo 1 della legge istitutiva, a scrivere così: “La scuola media concorre a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e favorisce l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.
Cinquant’anni dopo, in un mondo rapinosamente trasformato e in una fase in cui i concetti stessi di individuo e cittadinanza subiscono mutazioni non ancora del tutto decifrabili, la scuola media, che mai ha corrisposto alle istanze di quel mandato fondativo, torna ad essere avvertita come un’emergenza, e l’età della vita definita “preadolescenza” come oggetto del discorso privilegiato in vari campi del sapere. Poiché da tempo (da quella Lettera a una professoressa che anticipò il ’68) chiunque fosse interessato poteva cogliere in maniera lampante la crisi della media unica e cioè la sua ottima riuscita come meccanismo di selezione sociale e il suo completo fallimento come opportunità formativa per la conquista della cittadinanza su basi paritarie, si tratta di capire perché venga messa adesso all’ordine del giorno e quali occasioni si aprano per parlarne e pensarne altrimenti.
Le evidenze statistiche, risultate da gran parte delle indagini nazionali e internazionali, dimostrano un fatto incontrovertibile: nel corso degli anni di scuola media si ha un grave e generale calo degli apprendimenti, che in seguito recupera solo chi accede ai licei mentre si accentua irrimediabilmente per chi intraprende un percorso di istruzione tecnica e professionale. Del resto “nel nostro paese le scelte e i livelli di istruzione si conservano da una generazione all’altra con un grado di persistenza e di stabilità che è oramai del tutto inconsueto in altre economie avanzate”.
Alla fine del secondo capitolo è introdotto il tema chiave di tutto il Rapporto: ai numeri si lascia provare che il tracking informale (cioè la concentrazione nelle stesse classi e scuole di alunne/i con lo stesso rendimento scolastico e quindi, corrispondendo questo sostanzialmente all’estrazione socio-culturale, di omogenea situazione economica) riduce i livelli di apprendimento di tutti. Posto che “gli studenti ottengono risultati sensibilmente migliori nei territori caratterizzati da elevati livelli di sviluppo economico”, possiamo comunque verificare che dove le scuole scelgono di concentrare nelle stesse classi alunni di livello sociale ed economico omogeneo “le performance scolastiche” individuali peggiorano. Da alcuni grafici presentati risulta anche che la pratica del tracking informale, della segregazione per appartenenza sociale, è più praticata al Sud che al Nord. Insomma per quanto tecnico il discorso del Rapporto non è così neutrale e asettico come vuole apparire e l’enfasi posta sulla scoperta che la scuola non garantisce pari opportunità di “carriera formativa” a tutti e che la segregazione dei gruppi sociali è dannosa alla crescita sociale e culturale collettiva è sorprendente.
Il terzo capitolo ci porta a scoprire i protagonisti della scuola media e cioè le/i preadolescenti. Viene spiegato che la preadolescenza, come ogni altra categorizzazione anagrafica, è una costruzione bio-socio-cultural-psicologica e che quindi esiste adesso e una volta non c’era. Poi vengono riportate delle nozioni di tipo socio-psicologico la cui sintesi è che si tratta di un’età di mutazione, fisica con la pubertà e psicologico-cognitiva con lo sviluppo di capacità di linguaggio, di astrazione e di autoriflessione. In definitiva interviene “un profondo processo di rielaborazione della propria identità personale e sociale”.
Quando si torna a parlare di scuola, stabilito che le/i preadolescenti italiani non possono essere più diverse di tanto dai loro coetanei europei eppure vanno nelle proprie scuole medie meno volentieri e con risultati peggiori, si prova a capire perché funzioni così male. Vengono evidenziati problemi tutti sostanzialmente di tipo didattico: una divisone disciplinare che tiene conto più delle esigenze dell’organizzazione scolastica che non quelle dei ragazzini e delle ragazzine, una relazione tra alunni e docenti che si irrigidisce improvvisamente rispetto a quella più accogliente delle elementari, la mancanza di un’adeguata formazione pedagogica degli insegnanti, che si scontrano con il problema della disciplina e della mancanza di motivazione senza adeguati strumenti pedagogici. E poi si ritorna all’argomento-chiave, con maggiore forza e convinzione. I dati INVALSI e i dati raccolti dalla Fondazione Giovanni Agnelli (che nello stesso ente ha un ruolo rilevante) provano che “in Italia nella scuola secondaria di primo grado il principio di equi-eterogenità è ampiamente disatteso. Al di là delle dichiarazioni di intenti, una quota importante delle scuole medie non garantisce una composizione eterogenea delle classi, realizzando una sorta di selezione o tracking informale” mentre è provato che “segregare gli studenti in classi omogenee al loro interno conduce a livelli medi di performance notevolmente inferiori, poiché i risultati positivi delle classi dei più dotati vengono oscurati dai risultati profondamente negativi delle classi in cui si concentrano gli allievi con difficoltà di apprendimento” (ma allora questi livelli di performance sono medi o individuali?!). Insomma “equità ed efficacia educativa si alimentano reciprocamente”.
La lettrice e il lettore un minimo avveduti hanno ormai capito che la questione scottante sta qua: di cosa si parla o si tace per davvero? Questa “efficacia educativa” ed “equità educativa” di continuo richiamate a cosa fanno riferimento in realtà? Perché insomma è evidente che qui si ha cura di parlare di scuola e basta, come se fosse possibile condurre un ragionamento sensato sull’istituzione scolastica senza riferirsi alla scena sociale complessiva, che vi si riflette con i suoi conflitti e problemi. Non si vuole, o non si ritiene di, parlare della crisi della cultura alfabetica, delle mutazione epocale in cui viviamo, delle condizioni che rendono sempre più complicato cementare quello zoccolo comune di conoscenze e di competenze culturali che, non solo a un estremo dell’arco sociale, ovvero nell’ambito dell’istruzione professionale, determinano un aumento crescente di individui incapaci di interpretare un testo o di operare inferenze logiche per la soluzione di un problema. La scuola tradizionale istruisce sempre più a fatica e il fallimento della scuola media, che nasce ed è percepita come scuola di tutti, è il fallimento della scuola tout court.
Dapprima ci si potrebbe domandare se il cuore del problema sotteso al discorso del Rapporto della FGA sia quello “classico” dell’impoverimento del “capitale umano”: alle medie c’è una tale flessione degli apprendimenti che risulta impossibile recuperarla nei professionali e di conseguenza non si hanno più lavoratori adeguatamente istruiti. Ma non può essere tutto qua: i luoghi della formazione continua sono ormai disseminati ovunque e a volere si scolarizza dove e quando piace, in fondo si potrebbe auspicare di recuperare altrimenti e cioè in direzione di una separazione precoce della carriere formative e dell’investimento su forme di apprendistato, andando così verso il modello tedesco che è proprio quello dell’early tracking e che si inizia a mette in discussione adesso ma finora ha reso buoni servizi.
Perché tutta questa insistenza sui gruppi eterogenei e sulla didattica cooperativa come soluzione? Il fatto è che il grande mutamento degli anni ‘80 ha appunto già reso obsoleto il tema del “capitale umano”. Ciò che iniziamo a vedere e sentire chiaramente è che lo zoccolo di conoscenze comuni che viene a sfaldarsi non è di tipo solo culturale ma è di tipo sociale, relazionale e civile: all’esito estremo della desocializzazione non vi è solo una marginalizzazione sempre più incontrollabile di fasce sempre più ampie di popolazione, problema al limite ancora risolvibile con le guerre, ma una perdita generale di confini cognitivi affettivi comportamentali ed emotivi che coicidono con la rovina generale delle città e delle cittadinanze ovunque (ragione per cui gli studi di urbanistica e la relazione con la città continuano ad essere sempre implicati nella riflessione e ricerca pedagogiche).
Insomma pare che vada dissolvendosi qualsiasi senso, anche addomesticato, di cittadinanza e parallelamente stiano regredendo tutta una serie di abilità relazionali, linguistiche e cooperative che vanno messe al servizio del lavoro e tanto più di un lavoro flessibile, dove l’adattabilità e l’autocontrollo, ma anche la creatività, sono preziosi. Quel che invece sta nascendo ancora non si capisce. Si parla di sfida della complessità e delle differenze, di epoca della tecnologia informatica e della globalizzazione ma contemporaneamente si assiste a una perdita progressiva di facoltà sociali, di sapienze civiche, del senso di esperienze collettive riflesse ed elaborate oltre l’arcaico dell’immaginario mediatico. Senza contare che in effetti l’analfabetismo strumentale non è poi così controllabile e che dalla sua gestione efficace dipende come si è detto lo sviluppo delle tecnologie informatiche che sono sinonimo di globalizzazione e cioè di sviluppo economico. Il mondo degli affari ha oramai messo all’ordine del giorno il tema del “capitale sociale”, che è per l’appunto la ricchezza costituita dalle relazioni e capacità sociali che hanno gruppi e individui, comprese le attitudini alla solidarietà, alla fiducia e alla condivisione ed elaborazione di valori e progetti comuni. Ma se vuole farlo produttivamente gli toccherà operare in maniera solidale, convergendo cioè con altre istanze e mettendo in discussione il profitto immediato e sproporzionato. Ovviamente andando in questa direzione rischia perché non è detto che al posto del “capitale sociale” aumenti, che so, il socialismo, ma è anche vero che l’alternativa è la fine collettiva per spreco umano ed ecologico insostenibili. Questo è quindi il punto di tanta enfasi sui gruppi classe eterogenei. E anche la funzione chiave della scuola media unica risulta più chiara: gli anni della sensibilità sociale nascente sono il momento della definizione dell’identità individuale in relazione agli altri; sensibilità sociale vuol dire sensibilità alle differenze e la preadolescenza è il momento della definizione della propria identità sociale nel confronto e nel riconoscimento delle differenze individuali. È l’età in cui si fonda la qualità della vita sociale futura dell’individuo e, parrebbe, la possibilità di arginare la barbarie. La scuola, come sempre e da sempre, è il mezzo per controllare e amministrare questo nuovo bene.
In un certo senso adesso che tutto ci si sta squagliando sotto i piedi, adesso che la metafora dominate del nostro immaginario è quella della nave che affonda, andiamo a cercare di mettere riparo all’inizio, nei preadolescenti, che sono “i neonati sociali”. Si dice neonato per dire che è una fase di massima ricettività e impressionabilità: si aprono gli occhi sul mondo sociale, e da questa prima impressione si riceve una formazione decisiva, nel bene o nel male.
Il corpo, il sesso, il lavoro, il denaro, l’arte in quanto tali per sé e per gli altri sono ciò a cui la/il preadolescente apre gli occhi e sono l’oggetto del suo desiderio di apprendimento. La sua autonomia, come quella del neonato, è scarsa eppure va coltivata e sostenuta: per entrambi queste fasi di sviluppo è decisivo un ambiente disposto appositamente per lasciar fiorire il meglio di ciascuna/o, quindi mettendo a disposizione il meglio che come comunità si è in grado di esprimere, umanamente e culturalmente.
Da quando si è “scoperto” il neonato e si è iniziato a studiarlo sempre di più e meglio c’è stata una grande evoluzione nei servizi educativi per l’infanzia e le famiglie. Trattando la preadolescenza ci si confronta più esplicitamente e direttamente con la dimensione politica e dei saperi. “L’efficacia educativa” e “le pari opportunità educative” che ricorrono nel ragionamento del Rapporto sulla scuola in Italia 2011 per significare concretamente qualcosa devono riferirsi a uno sforzo convergente da parte di istanze e realtà anche in conflitto nella ridefinizione di culture, saperi, educazioni che si vogliono trasmettere e condividere e dei modi stessi di questa condivisione, per la quale un patto tra le generazioni non può che essere determinante. La direzione deve essere comune ed è quella della verità e della solidarietà perché il tempo è quello che è e o diminuiscono la menzogna la retorica e l’egoismo oppure noi, le nostre figlie, i nostri figli diventeremo in breve mostri e finiremo così, proprio quando ancora si intravedevano nelle fratture epocali delle possibilità inedite.
Nella conclusione del Rapporto la FGA avanza delle “proposte di politica scolastica” per porre rimedio alla crisi della secondaria di primo grado. La principale riguarda la questione della formazione e del reclutamento delle/dei docenti. Il quarto e penultimo capitolo del Rapporto è infatti dedicato alle insegnanti e i numeri ci dicono che i 2/3 delle docenti italiane hanno più di 50 anni, sono i peggio formati, le più depresse e le più tartassati dalle politiche Gelmini. Tuttavia, si legge nel Rapporto, “nei prossimi dieci anni decine di migliaia di insegnanti – più di metà di quelli attualmente in cattedra – usciranno per ragioni di età dalla scuola secondaria di primo grado” e questa costituisce evidentemente una “opportunità irripetibile” per realizzare davvero quella che viene indicata come la missione della scuola media ossia “garantire a tutti l’accesso a un’istruzione di qualità, eliminando i divari di rendimento legati all’origine sociale e orientando le scelte delle superiori il più possibile sulla base del merito, delle attitudini e dell’impegno”. Un programma di radicalismo democratico tanto ingenuo quanto astratto per attuare il quale “le più importanti risposte educative” (?)sono fondamentalmente due: l’apprendimento per “gruppi cooperativi” e la formazione degli insegnanti. La FGA teme che il percorso di formazione e reclutamento messo a punto dal Regolamento Gelmini non sia esente dal rischio di non cambiare nulla o fare danno. Suggerisce quindi una percorso di studio ad hoc per la scuola media e poi o un concorso nazionale specifico con esito secco, cioè il “numero dei promossi deve coincidere con quello di posti banditi” oppure, ed è la via auspicata, una “chiamata diretta da parte degli istituti scolastici autonomi da un albo di centri abilitati per l’insegnamento nella scuola media”. Una “innovazione radicale accompagnata da robusti e trasparenti meccanismi di valutazione e accountability attraverso cui le scuole autonome rendono conto delle proprie scelte” (ipotesi che nel paese della mafia non pare poi così praticabile e che infine sa molto di aziendalizzazione della scuola pubblica).
Non ha senso qui scendere nel merito e discutere la proposta. Ricordiamo solo che non si capisce a quale scuola media e da chi e con quali criteri dovrebbero essere formati questi docenti, e in ogni caso la didattica da sola non fa la scuola. Piuttosto conviene segnalare come nelle ultime due pagine del Rapporto si trovino espressi due punti decisivi. Il primo riguarda il tempo scuola e il secondo l’investimento di risorse in istruzione. Secondo la FGA le innovazioni didattiche si potranno implementare solo aumentando il tempo scuola e il controllo sull’operato dei docenti, che dovranno restare coi loro alunni nella scuola più a lungo, anche il pomeriggio, ed essere valutati costantemente. Senza dubbio il rapporto tra attività curricolari ed extra curricolari e la flessibilità interna della scansioni temporali dovrà mutare ma non riusciamo a credere che una scuola migliore per tutti significhi più ore a scuola. Simile ulteriore colonizzazione scolastica del tempo e della vita dei ragazzini e delle ragazzine non servirebbe e sa di controllo sulla soggettivazione/assoggettamento di foucaultiana memoria. I tempi e gli spazi della scuola, si ripete, vanno piuttosto descolarizzati e gli edifici scolastici, abbelliti e trasformati quanto si vuole, dovrebbero stare sì sempre aperti ma come spazi pubblici disponibili ad altri usi sociali. Infine, quanto ai “cospicui investimenti finanziari che occorrono alla scuola media” non possiamo che augurarci, ingenuamente, che siano pubblici.