La scuola che potrebbe venire

La scuola che potrebbe venire e che potrebbe essere si pratica per frammenti, per isole, per tentativi. Sparsi in tutta Italia, a volte estesi a un intero istituto, a volte in una singola scuola, spesso relegati in una singola classe e con singole docenti. L’idea di creare una federazione, un movimento, una solidarietà attiva tra tutte queste realtà è per il momento un’illusione. Ma non per questo ce ne possiamo distogliere o sospenderne il desiderio. Per quanto le organizzazioni collettive e la loro possibilità di incidere nel mare della comunicazione digitale paiano remote, conviene tenersi pronte, facendo tutto “come se”. I mezzi vecchi sono ancora a disposizione: le associazioni; le riviste; gli happening formativi; i corsi estivi; gli scambi di pratiche; i convegni a tema. Più ce ne saranno e più sapranno conoscersi e contaminarsi, meglio sarà per la minoranza di docenti che aspira a cambiare il proprio mestiere in direzione di una scuola dell’emancipazione e dell’uguaglianza. Oggi chi esplicita questa posizione politica – che è una posizione didattica e istituzionale – non viene più preso a bastonate o licenziato, magari si viene ostacolati, o isolati, o compatiti ma le parole della tradizione di pedagogia sociale, della liberazione e dell’emancipazione, sono scritte nei testi di leggi, nei libri più venduti, ascoltate alle conferenze dei maestri più adorati. Quindi presto la nostra scuola immutabile, irreformabile ma non superabile, sarà finalmente oltrepassata.
[Anche se saranno immessi in ruolo migliaia di quarantenni che hanno fatto altri lavori e che stanche e in crisi hanno pensato di poter andare a insegnare (certo ne conosci qualcuno anche tu!). Oppure migliaia di precari storiche che hanno sempre insegnato in quel modo che si vorrebbe superare (come si potrebbe scegliere solo quelli culturalmente attivi e impegnate nella ricerca didattica? e non sarebbe comunque un’ingiustizia?) O un esercito di laureate in scienze della formazione che dell’organizzazione cooperativa della classe inclusiva e di progettazione in équipe sanno a memoria nenie e ritornelli ma mai ne hanno avuto esperienza, unico modo di lavorare sui propri presupposti ideologici e culturali e saper fare, perché le facoltà dove si formano non sono laboratori di ricerca sperimentale e non funzionano già come la scuola che si vorrebbe].Di certo dobbiamo metterci alla ricerca di tutte le situazioni in cui una scuola è altro, perché solo vedendo che si possono fare le cose come vanno fatte, anche dove costa e dove pare impossibile, si dà una picconata al muro e si ottiene sabbia per la casa nuova. Ma questa ricerca non può nasconderci la misura di quanto la scuola sia ancora oppressiva verso i più poveri e deboli, verso chi per censo o nascita non ha il privilegio della parola e del riconoscimento, contribuendo attivamente al destino di esclusione e di fatica che a parole sostiene di riscattare.
Una delle evidenze più notevoli della distanza tra parole e azioni nell’istruzione pubblica sono le Indicazioni Nazionali. Nel gran parlare che si fa di scuola – in questo periodo in cui, chiuso ogni altro luogo educativo e di vita giovanile, essa ci sta davanti come nuda, con tutto il suo peso a la sua meccanica – resta implicita l’idea che esistano dei programmi da svolgere e che il tempo e la funzione scolastici siano orientati da questa sacra missione, finire i programmi. In realtà come (non) è noto dall’anno scolastico 2013-2014 sono in vigore le Indicazioni Nazionali quale documento ufficiale per la formulazione del curricolo delle discipline nel primo ciclo. Lì dentro stanno scritti gli obiettivi e i traguardi che ogni ragazzina e ragazzino ha il diritto di raggiungere frequentando il proprio istituto scolastico, entro il diploma di scuola secondaria di primo grado. Sono indicate delle conoscenze imprescindibili e, scanditi su campate di tre o due anni, dei traguardi formativi che pertengono a un uso e un accesso al sapere di tipo emancipatorio e non nozionistico, tutelando le differenze di insegnamento e di apprendimento. Quasi carta straccia.
La preparazione di queste Indicazioni Nazionali richiese circa 10 anni, dal 2000 di De Mauro alle varie riscritture e “armonizzazioni” tra “nazionali” e per il “curricolo”, passando da Fioroni a Moratti e da Gelmini a Profumo, fino alla licenza di un documento comunque epocale, sebbene segnato da alcune ambiguità determinanti nell’impedire una vera svolta culturale. Una volta emanate le Indicazioni furono “accompagnate” almeno nei primi tre anni con misure di “sperimentazione assistita” che si rivelarono inefficaci, tanto che nel 2018 uscì un ulteriore documento (Indicazioni Nazionali e Nuovi Scenari) del Comitato Scientifico Nazionale per le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola d’infanzia e del primo ciclo. Tale Comitato riconosceva: “il perdurare di situazioni di disorientamento e incertezza e di resistenze ad abbandonare modelli didattici tradizionali di tipo prevalentemente trasmissivo. Anche dalle testimonianze raccolte nei territori sono emerse esperienze significative, unitamente alla fatica di traghettare la didattica verso proposte, organizzazioni, ambienti di apprendimento che valorizzino l’autonomia e la responsabilità degli allievi e siano capaci di sviluppare conoscenze e abilità significative e competenze durevoli”.
L’idea di creare una federazione, un movimento, una solidarietà attiva tra tutte queste realtà è per il momento un’illusione.
Ricordiamo che per essere responsabili e autonomi bisogna avere un po’ di libertà e di potere organizzati: entrate in una classe di prima media e guardate se alle alunne/i ne spettano. Un po’ aspramente dunque possiamo dire che le Indicazioni nazionali non hanno modificato la didattica, l’organizzazione, lo studio, la ricerca, la formazione, la valutazione nell’assoluta maggioranza delle scuole dell’infanzia, primarie e Ssig (secondarie di primo grado). L’unitarietà del primo ciclo d’istruzione – che dovrebbe offrire secondo mandato una alfabetizzazione culturale di base -non esiste perché maestre e prof non si parlano, e non lavorano assieme. Queste guardano alle superiori, anzi ai licei, come ai loro effettivi committenti e quelle, anche quando sanno che gli usi del corpo, del gioco e dell’ambiente sono la chiave di ogni promozione culturale infantile, non riescono a condividere questa prospettiva di ricerca con le colleghe dell’ordine successivo.
Se le Indicazioni nazionali fossero state recepite non si sarebbe giunti alla legge penosa sull’insegnamento dell’educazione civica voluta da Lega e Movimento 5 stelle: 33 ore prese da un po’ tutte le materie, per una disciplina inesistente, fatta male da un po’ tutti i docenti, con un altro voto in pagella.
L’educazione alla cittadinanza attiva era infatti lo sfondo integratore, la prospettiva unificante rivendicata dalle Indicazioni nazionali:
“È compito peculiare di questo ciclo scolastico porre le basi per l’esercizio della cittadinanza attiva […] L’educazione alla cittadinanza viene promossa attraverso esperienze significative che consentano di apprendere il concreto prendersi cura di se stessi, degli altri e dell’ambiente e che favoriscano forme di cooperazione e di solidarietà. […] Obiettivi irrinunciabili dell’educazione alla cittadinanza sono la costruzione del senso di legalità e lo sviluppo di un’etica della responsabilità, che si realizzano nel dovere di scegliere e agire in modo consapevole e che implicano l’impegno a elaborare idee e a promuovere azioni finalizzate al miglioramento continuo del proprio contesto di vita, a partire dalla vita quotidiana a scuola e dal personale coinvolgimento in routine consuetudinarie che possono riguardare la pulizia e il buon uso dei luoghi, la cura del giardino o del cortile, la custodia dei sussidi, la documentazione, le prime forme di partecipazione alle decisioni comuni, le piccole riparazioni, l’organizzazione del lavoro comune, ecc”.
Tra il fallimento delle Indicazioni nazionali (o del loro inverarsi) e l’incapacità durante la pandemia di fare scuola diffusa all’aperto, di organizzare piccole comunità di apprendimento su ogni territorio, rimodulando in ogni istituto orari e modalità e scopi del lavoro, c’è un nesso inequivocabile. Questa scuola non poteva farsi sicura perché già da prima non garantiva alcuna cura delle relazioni e dei dispositivi istituzionali che permettessero a ciascuno di lavorarci sentendosi sicuro nel corpo, negli affetti, nella ragione. Questa scuola non sa applicare la legge che la governa perché non amministra l’alfabetizzazione culturale di base, non ha davvero scopo di offrire a ogni cittadina la possibilità di servirsi al banchetto del sapere, così ricco oggi di accessi, linguaggi, modalità di uso e riuso. Possiamo fare mille tavole rotonde su Zoom e su Youtube cantando assieme, noi docenti democratici, le lodi della scuola sognata dove si incontrano le differenze e tutti assieme in armonia si impara a parlare e a pensare ma non per questo ciò si avvera, come dimostrano impietosi i numeri e i vissuti delle bambine e dei bambini.
La scuola secondaria di primo grado doveva accogliere il ragazzino che non è più infans e insegnargli assieme alle sue coetanee e coetanei come si fa a decidere e fare le leggi assieme in società, secondo ciò che le conoscenze umane avanzate ci permettono di sapere. Invece non riesce a fare i conti con le differenze e con la varietà enorme dei corpi, delle intelligenze, dei linguaggi. Non è la fabbrica e il presidio della democrazia perché non riesce a far vivere un’esperienza sensata di ricerca e di produzione culturale a un gruppo eterogeneo di ragazzini. È ancora la stessa “delle vestali della classe media”, quelle abituate a insegnare latino alla minoranza destinata ai licei che nel 1963 all’avvento della “media unica” contemplavano sgomente l’avvento dei poveri e degli stupidi e venivano intervistate da Macello Dei in un libro famoso. Tra le prof. oggi sentirete gli stessi discorsi: “Si livella tutto verso il basso, ci perdono solo i più bravi, alle superiori poi però le cose gliele chiedono, devono sapere dante il sonetto le date il complemento di frittura; c’è chi sa e può e chi proprio non ci arriva, tenerli assieme è ridicolo, io sono stata in Germania a Singapore a Londra e lì a 10 anni ognuno prende la sua strada”. Fuori il mondo è cambiato ma dentro gli istituti vedreste le stesse cose: le aule a ranghi di banchi rivolti alla lavagna, senza biblioteche di classe, senza spazi comuni, senza opere alle pareti e laboratori aperti per gruppi paralleli. Non si cresce assieme e non si sa cosa davvero vale la pena imparare: è la strettoia epocale che tutti ci prende.
Leggiamo: «Le Indicazioni Nazionali confermano i compiti istituzionali di alfabetizzazione strumentale, funzionale e culturale attribuiti alla scuola del primo ciclo, a partire dal prezioso ruolo della scuola dell’infanzia. La scuola di base italiana, che vanta una riconosciuta tradizione di qualità e cura educativa, è chiamata a confermare la propria vocazione inclusiva e a garantire ad ogni allievo il massimo sviluppo delle sue potenzialità, attitudini, talenti. A questo fine, è necessario attuare opportune metodologie didattiche, adeguare e arricchire gli ambienti di apprendimento, rendere coerenti le pratiche valutative e certificative; la leva decisiva in questo ambito è data dalla formazione in servizio dei docenti”.
Non è la fabbrica e il presidio della democrazia perché non riesce a far vivere un’esperienza sensata di ricerca e di produzione culturale a un gruppo eterogeneo di ragazzini.
Secondo questo documento la scrittura collettiva del curricolo da parte di ogni collegio docenti in ogni scuola doveva diventare il modo di applicare l’autonomia. Rispettando i traguardi e gli obiettivi unitari, la scrittura di un curricolo di istituto doveva essere tagliato sulla storia, la composizione, le risorse, le ambizioni di chi vive la scuola e il suo territorio.
In realtà alle medie non è prevista una programmazione comune, le scuole non sono una comunità di ricerca e di studio anzi non sono nemmeno organizzazioni capaci di contemplare dispositivi per il lavoro comune. Le programmazioni sono fatte sugli indici dei libri di testo (intoccabile industria a cui si sacrifica troppo) e ogni anno che passa aumentano gli istituti che vogliono il “cronoprogramma”: a ottobre la favola e la fiaba; a novembre la leggenda e l’iliade; a dicembre il giallo e l‘odissea più la prova a classi parallele. Tutti le stesse cose allo stesso modo nello stesso tempo: alla faccia della distopia e delle scienze pedagogiche.
Quando si dice che il lavoro nella scuola è devastato dalla produzione burocratica non si mente: per non fare davvero si scrive tante volte di aver fatto e così non si impara mai né a fare né a dire meglio cosa si può e bisogna fare. Le quantità di carte che firmi, tutte uguali tutte a crocette, tutte pro forma è straordinaria e umiliante. Se non fosse così avremmo vissuto un anno come quello che andiamo a chiudere?
Le scuole non si sono aperte e non hanno messo in moto nessuna soluzione praticabile e solidale per non lasciare a casa le piccole e i piccoli perché nella maggioranza dei casi non sono luoghi di vita democratica e perché sono strangolate da vincoli burocratici che impediscono qualsiasi vera libertà di iniziativa culturale. Mettete mano alle leggi! E date potere agli ultimi, non gridate al miracolo della scuola pubblica!
Ora si sente in giro desiderio di cambiamento e richiesta di formazione, è vero. Meno male perché la formazione delle docenti è una chiave decisiva. Tanto che puoi farti 735 webinair in cui dicono che potresti dar più peso alla relazione, smontare in 49 pezzi il testo argomentativo usando il lavagnetto virtuale, misurare i batuffoli di polvere sotto il letto per fare geometria. Mentre pieghi i panni butti l’occhio sulle slide e risenti le parole ameba che ti occludono il cervello: la relazione, i compiti di realtà, le competenze, le differenze, l’inclusione….
In cosa dovresti includere le alunne e gli alunni? Il legame con il territorio, fatto di conoscenza dell’economia, dell’ambiente, della storia, dei rituali, dei lavori, delle politiche non esiste. Eppure dalle macerie di questi due anni di pandemia qualcosa dovrà ben venire fuori se non ci infiliamo in testa un altro granchio tipo le scuole nel bosco sono il problema perché non hanno la biodiversità sociale e le famiglie sono il male poiché si credono le padrone dei figli. Una scuola autorevole cioè che aumenta il potere di ciascuna allieva e allievo, che fa crescere davvero in ciascuna.o possibilità e benessere si imporrebbe da sola nella sua forza culturale e politica e libererebbe davvero i figli e le figlie dalle prigioni narcisistiche, affettive, culturali dei loro focolari. Lasciate che i ricchi e i borghesi bohémien vadano a cercare il loro bene ma badiamo che di nuovo non vadano sprecati e divorati i denari che potrebbero rendere belle le scuole di tutti. Stiamo ancora a dirci che le classi pollaio no, le classi ghetto no, le biblioteche di classe inesistenti no, l’ossessione valutativa no ma a giugno bocceranno di certo i più deboli e sfortunati e a settembre tutto uguale.
Quando si dice che il lavoro nella scuola è devastato dalla produzione burocratica non si mente
Dunque alla parte docente spetterebbe un lavoro enorme: ridefinire cosa è necessario e possibile imparare assieme in una data scuola, in una data città, per essere cittadine e cittadini della stesa società democratica industralizzata e digitale senza produrre l’ecocidio e le più atroci sofferenze ai miliardi che vivono assieme.
Il corpo la ricerca il gioco i linguaggi il nostro rapporto con gli oggetti e con i desideri sono posti dalle Indicazioni nazionali come guide costanti per l’azione didattica dalla scuola dell’infanzia alla fine delle Ssig: dovrebbero queste parole animare la discussione dei collegi docenti in modo che ogni dipartimento disciplinare si relazioni agli altri e costruisca strumenti e percorsi sensati. Diamo dunque formazione autentica a queste lavoratrici e lavoratori della scuola, proviamo a imparare come vorremo insegnare: come mettere giù una panoplia, un cartellone delle responsabilità, come produrre in due giorni un giornalino cooperativo sulle riforme che vorrebbero in giardino, nel lab di scienze, nel parco cittadino o in mensa e vedresti il booster che dai all’istituto, altro che due ore ad ascoltare la ricercatrice universitaria che parla. Uno stage di giochi cooperativi all’anno e vedrai come cambia l’atmosfera in galera.
Quando la scuola è stata altro, quando la abbiamo creduta e fatta altra era per gli ultimi, era Pietralata era la Spagna del 39 erano i richiedenti asilo: è la scuola delle periferie, la scuola dei paesini quella a cui dobbiamo puntare con le formazioni d’eccellenza e le politiche culturali ricche, che arrivino i migliori nei posti peggiori e ci lascino libri, strumenti, esperienze, relazioni costruite attorno all’apprendimento.
Se ciò che crediamo, che vogliamo, che scriviamo nelle leggi e diciamo ai convegni è questo allora non è il tempo di fare tanti distinguo: un movimento crea scompiglio, porta punte avanzate e tanto disordine attorno mentre procede. Ci starebbero persino coloro sono cresciuti a Illich e Goodman, che sanno che tra Montessori e Freinet c’è più in comune di quanto faccia comodo pensare e che sarebbero pronti a ribaltare il gioco: non meno scuola ma più scuola. Più educazione popolare, più corsi pubblici, più assemblee, più produzioni artistiche e culturali, più cura per ogni ragazzina e ragazzino che nella scuola mette piede, perché la scuola sia sostegno e presidio di percorsi di autonomia ed espressione individuali, sappia parlare con le famiglie e con chi sostiene, che sia davvero nodo attivo di una rete di servizi territoriali che promuove interamente lo sviluppo delle persone in crescita. No che se vedi un bambino in difficoltà che non si lava che è triste che è solo ti giri tanto non è il tuo lavoro. Quale è il tuo lavoro? Dante e saper leggere i grafici è per tutti sì o no? Sarebbe assurdo bocciare in una scuola così no?
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