La pubertà a scuola
L’ultimo grado della scuola unitaria di base è stato definito scuola dell’orientamento, della cittadinanza o – come più ci piace e come si usava durante il dibattito che portò alla sua istituzione nel dicembre 1962 – scuola della preadolescenza. Da questo triennio, sempre criticato e spesso doloroso per le ragazzine e i ragazzini che ci passano, dovrebbe partire una radicalizzazione delle richieste di riforma scolastica che unisca docenti, genitori e componente studentesca. La scuola media – ma molto si dovrebbe dire anche sulle scuole professionali – dimostra la crisi totale del progetto sociale e politico dell’istruzione di massa: è il tempo di denunciare, di desiderare, di organizzare un altro modo di fare scuola per la cittadinanza e la cultura di tutti.
A ottobre le riviste e le aree de Gli asini e di Hamelin hanno organizzato a Bologna un convegno sulla pubertà. Lo scopo era quello di tracciare un ritratto della soglia tra fine dell’infanzia e nascita del cittadino e della cittadina, facendo dialogare antropologia, sociologia, arti, psicoanalisi, medicina e operatori sociali. Françoise Dolto, la grande psicoanalista e pedagogista francese, parlava di questa fase della vita come del “crepuscolo del bambino nell’aurora di un adulto”: una fase liminale, ancipite, di mutamento, in cui come ogni rischioso passaggio possono accadere cose nuove e risolutive. Studiando la pubertà ci si rende conto che in questa transizione delicata e potente possono prendere forma delle possibilità di reinvenzione, di riscatto e di ridefinizione decisive, sia a livello esistenziale che sociale. Perché il passaggio e le reinvenzioni si compiano fruttuosamente è tuttavia necessario uno sforzo di cura responsabile da parte di una comunità adulta. Non più la sola famiglia, non solo la scuola o solo i pari: più contesti di scambio e confronto intergenerazionale dovrebbero accogliere e accompagnare coloro che non sono più bambini e bambine ma a tutti gli effetti le nuove cittadine e cittadini che si affacciano alla vita sociale attiva per prendervi presto parola, scelta, azione e voto.
Le scienze sociopsicopedagogiche descrivono la pubertà come una fase di s-vincolo, in cui ci si disidentifica dalle figure parentali e si cerca di assumere nuove identità nel confronto con le organizzazioni sociali esterne alla famiglia. Piano, ancora legati ma già indipendenti, sostenuti ma responsabilizzati: un’iniziazione all’irresolvibile enigma del collettivo. Abbiamo intuito la pubertà come un passaggio in penombra, difficile da mettere a fuoco ma al contempo rivelatorio.
Il convegno si intitolava Chi ha rubato la pubertà? per indicare la dimensione di inchiesta che hanno avuto i dialoghi tra professionisti relatrici ma anche per evidenziare la mancanza di spazi tutelati e riflettuti collettivamente per accompagnare questa transizione con il tempo e la delicatezza necessarie. O per sempre infantili e protetti o subito adolescenti iperpulsionali, nei consumi e negli usi: se questo è il trattamento diffuso della preadolescenza, essa finisce per sparire pur essendo tanto concreta e simbolicamente potente. Abbiamo creduto che da un pensiero sulla pubertà – con tutte le sfide poste dalla categorizzazione anagrafica – possa nascere anche un desiderio oltranzista, e quindi organizzato, per la riforma della scuola media.
Parliamo di pubertà e non di preadolescenza perché l’evento carnale, fisiologico, anzi “neuro-endocrino-immunologico” di trasformazione è lampante tra gli 11 e i 14 anni, quando si diviene corpo fertile e nuove potenzialità “per le mani e il cervello” si schiudono all’individuo. Se da adesso in poi ci farete caso vi renderete conto di quanto spesso nelle vostre letture o esperienze il dodicesimo anno di età assuma valenza simbolica. Che si tratti di narrazioni, di film, di giurisprudenze, di ricorrenze antropologiche per l’accesso ad ambiti e competenze, dalla cresima all’ascensore da soli, dall’uso degli scivoli a quello di certi videogiochi, i 12 anni sono ricorrentemente identificati con la fine dell’infanzia.
In questa fase l’esperienza di trasformazione corporea è intensissima. Se si eccettua il primo anno di vita, non c’è altro segmento della parabola vitale in cui il mutamento fisiologico sia così rapido. Questo farsi differenti, questa continua percezione delle differenze che si producono in sé, acutizza la sensibilità generale alle differenze fisiche e sociali. Ci pare questo un modo efficace per descrivere lo specifico della preadolescenza. Il “neonato sociale” apre gli occhi sui modi in cui le differenze molteplici – in primo luogo sessuali e fisiche e poi economiche e sociali – si incarnano nelle persone che incontra. È vero che l’infanzia, alle spalle di noi tutti, non sapeva come noi le differenze di salute, pelle, censo, istruzione, genere. Il neonato sociale chiede e vuole saperle e padroneggiarle in modo culturale, formale, legale: vuole entrare a fare parte della società e quindi delle partizioni di potere e parola. Vede che per queste interpretazioni e domini si deve passare. Li conoscete i dodicenni?
La fine dell’ingenuità è un luogo comune ma quindi contiene anche una potente metafora. Secondo Piaget e le rielaborazioni attuali del suo lascito scientifico, la fase puberale (11-15 anni) è quella in cui si potenzia il pensiero ipotetico e deduttivo: si riescono a formulare ipotesi astratte e a operare paragoni fra le varie astrazioni. Chi lavora quotidianamente con le/i preadolescenti vede come ogni giorno sorgano interrogazioni e ipotesi sulle regole sociali. Non per nulla il romanzo della preadolescenza è Il buio oltre la siepe, ossia la rivelazione dell’imperfezione di ogni legge umana e della necessità di mediare sempre l’insanabile conflitto tra le differenze.
“Neonato sociale” è la definizione della preadolescenza che hanno creato, indipendentemente, due grandi pensatrici e pedagogiste, Maria Montessori e Françoise Dolto. Entrambe le hanno riconosciuto un’importanza massima, equiparandola al primo anno di vita: periodi di massima sensibilità nella formazione dell’individuo, decisivi per la definizione del carattere e del destino. Entrambi periodi silenti: ciò che accade, il trattamento ricevuto, ha effetti che si manifestano solo in seguito. Sono connotati da grande ricettività e malleabilità. È facile ferire e danneggiare un neonato e altrettanto un/a preadolescente, una parola un commento un giudizio segnano violentemente la creatura in trasformazione che “senza carapace” cerca la sua nuova identità.
Quanto sanno di tutto ciò le e gli insegnanti che lavorano nella scuola media? Quanto possiedono le conoscenze pedagogiche, psicologiche e didattiche per sostenere la formazione culturale di individui che attraversano una fase formativa così sensibile? Quanto si preparano a elaborare culturalmente, in un gruppo misto di adulti e puberi, gli effetti di disturbo della sessualità nascente, e quelli della critica ai linguaggi e alle pratiche che, assorbite in famiglia, si possono ora rivedere proprio nell’accesso ai contenuti formalizzati dei saperi? Non abbastanza. La scuola media attuale è similissima a un piccolo liceo, con scopi principalmente selettivi, in cui le curiosità e le passioni individuali, da cui scaturiscono vocazioni e scelte felici, sono ignorate e polverizzate e in cui nessuna cultura della convivenza democratica viene sperimentata. Un votificio in cui la maggior parte delle e degli insegnanti vive una inconsapevole e drammatica frustrazione.
La scompostezza delle membra, degli umori, dei toni di questa tumultuosa epoca della vita corrisponde all’urgenza con cui si pone la domanda: chi sono io nel e per il mondo? Sono tipici di questa età tanto la ferocia con cui si rinnovano le dinamiche del capro espiatorio e della marginalizzazione tanto la brama di giustizia e rigore. Si sperimentano senza rete, e purtroppo senza guida e confronto, i meccanismi sociali e spesso ci si fa male. La scuola, dove si passano trenta o più ore a settimana, che tanto spazio prende nella vita della famiglia e nella definizione di sé, ignora tutto ciò o lo delega alla sensibilità e alle strategie di ogni singolo docente.
Anche nei casi migliori, nelle classi in cui si fatica per trasformare la didattica, per fare a meno degli obbrobriosi manuali, in cui si aprono le biblioteche di classe e ci si dedica a esperienze di arte o scambio sul territorio, non si fa abbastanza. Perché è la forma della scuola da trasformare e perché da soli non si cambia il mestiere. Magari pare di fare bene, pare che tutto vada meglio ma è solo perché ti trovi in una zona benestante, o con una classe poco numerosa, o senza situazioni problematiche o senza dirigente folle. Ma l’Italia è lunga e le periferie in metropoli o in provincia sono numerosissime. Quasi sempre la scuola in tali contesti non fa bene, o non fa nulla o più spesso fa male.
Per la psicoanalisi (si leggano Luis Kancyper o il volume collettaneo curato da Luisa Carbone Tirelli, Pubertà e adolescenza, Franco Angeli 2007) la preadolescenza è la fase della risignificazione o dell’après-coup: si può, per per un breve intervallo di tempo, tornare sul passato e attribuire nuovo significato alle identificazioni e alle esperienze precedenti. Tale attribuzione di nuovi significati a conti fatti è in grado di operare – in tempi più brevi e con trattamenti meno complessi che in seguito – profonde ristrutturazioni della personalità, in grado di curare o prevenire stati di sofferenza più o meno patologici. In un certo senso per la cultura è lo stesso: si può, in un contesto di relazioni educative e istituzionali differenti da quello attuale, permettere che mezzi e contenuti culturali siano rielaborati e riespressi in modi significativi, decisivi, imprevisti dalle ultime e dagli ultimi arrivati.
Sia Montessori che Dolto teorizzarono, con grande slancio utopico e politico, una scuola della preadolescenza. Entrambe la immaginarono come un contesto di vita distinto dalla famiglia in cui trascorrere molto tempo, nel quale si alternassero nel ruolo formativo figure educative e figure docenti. Un luogo di cui prendersi cura praticamente, nell’organizzazione e nell’amministrazione, in cui accedere assieme a sempre ulteriori livelli di responsabilità e di autonomia. Pensavano che la curiosità urgente per ciò che davvero preme – il denaro, il sesso, il potere, la morte, l’amore – si potesse accompagnare a una esplorazione progressiva, in cui pratica e astrazione fossero sempre intrecciate, in cui si imparasse attraverso la fatica e la passione di vivere assieme. Gli interessi intellettuali e culturali mai separati dai contesti concreti della vita adulta cui si aspira a prendere parte; le ricerche, le astrazioni, le costruzioni concettuali anche più impegnative sostenute dalle occasioni di confronto reale con le situazioni di vita pubblica. Nuove potenzialità della mano e del cervello, assieme. L’amministrazione degli spazi comuni, di un budget di spesa, delle relazioni con le realtà territoriali produttive, istituzionali, artistiche e culturali; l’organizzazione degli spazi e dei tempi delle attività collettive, la cura della salute di un gruppo: qualcosa che si può imparare a fare con potenza inaudita a questa età. Ogni volta che si è provato e che si prova a realizzare qualcosa di simile, funziona.
Ora, di tutte queste cose non manca traccia nei documenti della scuola pubblica italiana. Il problema è che non ce ne è traccia nella pratica didattica diffusa, maggioritaria, preponderante. Certo, la partecipazione a un consiglio comunale, ad alcuni progetti cittadini, va in questa direzione ma la separazione di queste esperienze, o “progetti”, dal cosiddetto curricolo è sempre sconcertante. Come lo è quella delle arti o del gioco. Tutto ciò che nelle Indicazioni nazionali parla della partecipazione all’organizzazione dell’istituto come cura di un contesto reale di vita comune è lettera morta. Dunque sì, è vero che questa scuola è meglio di quella di un tempo ma anche no, è uno spreco crudele perché non è una istituzione democratica, e fallisce come banco di prova del progetto politico e civile costituzionale.
Ovvio che non possiamo aspirare alle Erdkinder o Farm school montessoriane o a tante La Neuville, la scuola curata da Dolto, ma molto altro – pur solo attenendosi alle Indicazioni nazionali – si potrebbe fare in Italia. La scuola media come ultimo grado della scuola di base è ancora – per legge! – scuola del corpo, della ricerca, del gioco e delle mani. Però così non è mai. Si ha il terrore e l’incapacità di far giocare ragazzine e ragazzini di 12 anni, di farli andare in giro per la città, di far parlare e ascoltare davvero ragazze e ragazzi di 13 anni, di farli decidere e di fare ricerca con loro: le relazioni educative e le prassi didattiche debbono essere trasformate assieme e urgentemente. La scuola media ripetiamo è quasi sempre un piccolo liceo crudele, in cui ogni disciplina è separata dalle altre, trasmessa male e con libri brutti da docenti poco formati e appassionati, in cui solo il 2% di alunne e alunni con la mente adatta a questo tipo di studio riesce, senza riportare menomazioni nella stima e nella possibilità di definire il proprio futuro. Tutto ciò dobbiamo prendere a raccontarlo e dobbiamo iniziare a modificarlo, noi insegnanti attraverso una stagione di ricerche, formazioni autorganizzate e alleanze, senza aspettare oltre.
Il disastro attuale della scuola media è esasperato dal modo con cui – durante il ministero Gelmini – si è distrutto definitivamente l’impianto uscito legislativamente dal decennio dei Settanta del secolo scorso. Mantenendo fisse le quattro finalità generali stabilite fin dall’istituzione della scuola media unica nel 1963 (scuola della formazione dell’uomo e del cittadino; scuola che colloca nel mondo; scuola orientativa; scuola secondaria nell’ambito dell’istruzione obbligatoria) e attraverso l’eliminazione della classi differenziali e aggiornamento, si era arrivati all’inizio degli anni Ottanta alla sperimentazione di attività di integrazione e di sostegno come momenti fondamentali della programmazione educativa; ad ampliare il campo delle attività formative, degli interessi culturali ed espressivi; a stabilire il tempo pieno. Non erano rose e fiori e la possibilità storica di cambiare la forma della scuola era già fallita, ma almeno fino a Gelmini c’erano state le compresenze, il tempo prolungato, la possibilità di usare tempo e risorse per i laboratori e le attività individualizzate. Non era il bene, non era una scuola in grado di pensare l’uguaglianza delle intelligenze e una teoria delle differenze, ma non era la miseria attuale. Il ministro Fioramonti si dimette per la mancanza di fondi e la mossa, politicamente da valutare, comunque darà il via molto probabilmente a una mobilitazione nelle università. E per la scuola? Quale lingua, quale progetto, quale volontà potrà esprimere un mondo così frammentato e differenziato (docenti; sindacati; lavoratici e lavoratori scolastici) su una questione così decisiva? Il lavoro da fare è enorme e deve cominciare.
Disegno tratto da Sniff di Antonio Pronostico e Fulvio Risuleo (Coconino press 2019)