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La paura secondo Carrère

17 Giugno 2014
Sara Honegger

Maestro del cuore nero dell’uomo, Emmanuel Carrère è arrivato in Italia grazie a piccoli editori (Marcos y Marcos, Theoria) per poi essere scoperto da Einaudi e Adelphi, che da qualche tempo sembrano giocarselo. E’ alla prima che spetta aver pubblicato nel 1996 il piccolo master pièce di quel cuore nero ora riproposto da Adelphi in una nuova traduzione, La settimana bianca. Per chi conosce Carrère non sarà sorpresa trovarvi, in poco più di cento pagine, i tratti salienti della sua scrittura, a partire dal ritmo sempre tesissimo, quasi snervante per i lettori che cerchino, nella narrativa, anche momenti di riposo. Carrère non sa cosa sia. Scrittore molto prolifico (a Einaudi dobbiamo anche la prima edizione de L’avversario, ma anche La vita come un romanzo russo e Vite che non sono la mia; ad Adelphi, a parte le ripubblicazioni, Limonov), sfida i suoi protagonisti, molto spesso tratti dalla vita reale, e come trascinandoli su un ring li coinvolge in una serie di serratissimi round, da cui lui solo, alla fine, esce vincitore. Per quello di cui scrive; per come scrive; per la profondità della documentazione dello scavo, anche personale, che sta sempre dietro i suoi lavori, ma che lungi dall’appesantirli li rende fluidi, quasi vischiosi. L’operazione, per lo meno per il lettore, è sempre dolorosa, ma ne La settimana bianca, forse il più lineare dei suoi lavori, diviene a tratti insostenibile: a fianco di Nicolas, il più piccolo di tutti, marchiato a fuoco da una diversità indefinita, Carrère ci conduce al centro della paura, là dove le cose vagano (come i pesci rossi dell’azzeccata copertina di Einaudi) senza nome. Della trama poco si può dire, in rispetto a chi il libro non l’ha ancora letto, ma più che in altri romanzi di Carrère qui la trama, per altro perfettamente congeniata, è influente rispetto al tema centrale: l’angoscia totale di un bambino che sa, ma non può permettersi di sapere. Chiunque l’abbia sperimentata almeno una volta, da piccolo, non potrà che riconoscere a Carrère un’abilità rara nel restituirla sulla carta, frammentata e priva di senso, così come riconoscerà nelle bugie e nei sogni ad occhi aperti di Nicolas uno dei modi, tipici dei bambini, di controllarla per lo meno nelle proprie visioni, nelle vite alternative snocciolate senza cognizione delle conseguenze. Istanti di quiete, momenti di potenza ristoratrice; finti, ma non per questo meno protettivi per chi non abbia alcuna possibilità di trovare rifugio se non nelle fantasticherie. La settimana bianca uscì in Francia nel 1995, quando la pedofilia – ecco il cuore nero dell’uomo qui trattato – era ormai entrata nel lessico quotidiano di ogni famiglia, di ogni scuola, di ogni oratorio. Carrère però rifugge dalla tentazione psico-sociologica ordendo una trama che gli consente di parlare dell’angoscia delle vittime senza mai farcele incontrare direttamente. La tragedia si svolge altrove e non è neanche chiarita. Rimane avvolta nel mistero, come sono spesso le cose truci agli occhi dei bambini cui si nega un nome preciso ai fatti: silenzi, porte che si chiudono, sguardi che non si comprendono, sussurri che non si decifrano. Nessuno, neanche l’istruttore di sci Patrick, che più di tutti incarna la maturità necessaria a stare con i piccoli senza violentarne in alcun modo la natura, è alla fine in grado di dare senso a quel che accade, alleviando le paure del piccolo Nicolas. Ma è proprio questo mistero, questa verità che si fa strada per subito venire ringhiottita, a rendere questo breve romanzo così interessante. Come si diceva all’inizio, Carrère da sempre cammina intorno e dentro il lato oscuro dell’essere umano. Si pensi a L’avversario (cui aveva iniziato a lavorare quando scrisse, per l’appunto La settimana bianca), ricostruzione di uno dei fatti di cronaca più terrificanti della fine del secolo scorso, al cui centro c’è, all’ennesima potenza, un uomo sopraffatto da un narcisista falso sé; o a Limonov, uno dei suoi lavori più ambigui e al contempo più convincenti e interessanti, anche grazie all’affresco davvero impressionante del mondo sovietico. Ma solo nel suo ultimo romanzo, Vite che non sono la mia, Carrère è riuscito a restituirci, insieme all’angoscia, la tenerezza di cui pareva privo. Questa mancanza, che in altri romanzi a tratti infastidisce – così come infastidisce quel sotterraneo piacere che trasmette nel ricordarci gli umani pantani – ne La settimana bianca è strettamente intrecciata a quanto va raccontando. La forma del mondo, insomma, non è quella che si è usi raccontare ai piccoli, quando gli si dice “spegni la luce tranquillo, va tutto bene, ci sono io”. Come in un susseguirsi di cerchi concentrici, il nero si allarga dal cuore alla famiglia, alle relazioni (Baffi, Fuori Tiro, entrambi pubblicati da Theoria, L’avversario), alla storia (Limonov), fino ad arrivare alla morte come dato della natura, vera protagonista di Vite che non solo la mia. I più fortunati se ne accorgono quando hanno le spalle abbastanza robuste da reggere la verità, e per tutta la vita proveranno una muta gratitudine verso coloro che li hanno protetti durante l’infanzia. Altri se ne accorgono nell’età fragile: ed è scoperta da cui non si esce illesi.

Che fra i vari cerchi – che si allargano sempre più come se nel tempo Carrère avesse acquisito, oltre a un po’ d’indulgenza, anche la capacità di sollevarsi, di guardare le cose attraverso lenti multiple – ci sia una stretta connessione, è pensiero quasi spontaneo, dopo aver letto i suoi romanzi. Così l’infanzia, quella stessa che ci hanno raccontato grandi scrittori, da Dickens a McEwan, si palesa essere il momento della costruzione di sé, e quindi della futura costruzione del mondo. Per Carrère, al centro di questa costruzione c’è un conflitto costante, una lotta senza pause: c’è la propria vita, una vita che si vuole riuscita, e c’è il mondo. Amarlo, sopraffarlo, cambiarlo, uscirne: i suoi personaggi si dibattono fra opzioni che non sempre possono scegliere. Per il Carrère romanziere deve essere la stessa cosa, sì che le battute finali de L’avversario potrebbero essere scritte alla fine di molti suoi libri: scrivere una storia può essere un crimine o una preghiera. Non è così anche nell’educazione?

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