La luce nomade di Philippe Jaccottet

Mi risulta molto difficile parlare ora di un poeta come Philippe Jaccottet, a cui ero legato da oltre trent’anni, e che è stato per me, come per molti, un maestro e, credo di poter dire, un amico. La sua scomparsa, lo scorso 25 febbraio, non mi ha trovato del tutto impreparato, perché sapevo da mesi della sua estrema fatica e stanchezza. Anche così, tuttavia, la notizia mi ha profondamente addolorato e in un certo senso ammutolito.
Per tentare ora di vincere questa tentazione di silenzio, e ricordare brevemente una delle figure maggiori della cultura poetica novecentesca, su scala non solo francese ma a tutto tondo europea, provo a ritornare ai primi testi di Jaccottet che ho incontrato, quasi casualmente, sul mio cammino, verso la fine degli anni ’80. Avevo deciso, dopo un incontro con Giorgio Orelli (un’altra grande voce poetica, per molti aspetti non lontana da quella di Jaccottet), di dover assoutamente leggere questo poeta che fino ad allora avevo in sostanza ignorato; e a Zurigo avevo poco dopo acquistato due libri, gli unici due in quel momento presenti nella libreria Payot di quella città. Il maggiore di questi, l’antologia edita da Gallimard nel 1971 e splendidamente prefata da Jean Starobinski, l’avrei letto in un secondo tempo. L’altro, più agile e accattivante sin dalla copertina color ocra, si intitolava Chants d’en bas (Payot, 1974): titolo già fortemente indicativo, che mi sembrava suggerire subito una vera e propria dimensione poetica, un’intonazione della voce e una postura dello sguardo. D’en bas indica un’origine, un radicamento al basso dell’esperienza, forse (e leggendo avrei scoperto che era appunto così) alle zone più oscure e più dolorose dell’esistere; e tuttavia la provenienza dal basso indica anche un movimento verso l’alto, un tentativo di salire, in una forma umile e tuttavia insistente di canto. Dentro quella piccola opera, stavano in effetti delle poesie che attraversavano l’esperienza del lutto, preceduto da un lungo costeggiamento del dolore e della malattia; e insieme una costante riflessione sul ruolo della parola poetica di fronte a questi territori estremi della vita.
In quel momento non lo sapevo, ma avevo sotto gli occhi una sorta di ars poetica, scritta da Jaccottet negli anni della sua piena maturità artistica; l’antologia di Gallimard aveva in effetti sancito l’importanza assoluta dell’opera di Jaccottet, che all’inizio degli anni settanta acquisiva una chiara visibilità europea: il percorso iniziato nell’immediato dopoguerra, con L’Effraie (1953) prima e L’ignorant qualche anno dopo (1958), si era in effetti arricchito di nuove tappe altamente significative, come Airs (1967) e Leçons (1969), per restare ai titoli poetici. Ma accanto a questi, non si possono dimenticare le numerose opere di riflessione e meditazione in prosa: la straordinaria e precocissima La promenade sous les arbres (1957), in cui un assai giovane poeta riesce a definire un vastissimo orizzonte di riferimento per la propria ricerca; il volume di interrogazione del linguaggio Éléments d’un songe (1960), che torna costantemente alla grande opera di Robert Musil, che Jaccottet, eccezionale traduttore, aveva integralmente voltato in francese; le minute annotazioni consegnate al diario/zibaldone La semaison (iniziato negli anni giovanili, continuato fino alla fine del secolo e a più riprese pubblicato); e un delizioso attraversamento del paesaggio provenzale, i Paysages avec figures absentes (1970). Ma proprio a questa altezza cronologica, negli anni immediatamente successivi, Jaccottet deve affrontare l’esperienza della scomparsa di amici e persone care: scompaiono Paul Celan, Jean Follain, Ingeborg Bachmann, a cui era legato sin dal periodo parigino, come lettore e traduttore; scompare il grande Giuseppe Ungaretti, di cui Jaccottet era stato il principale traduttore francese, e che conosceva dai primissimi anni del dopoguerra (il suo avventuroso viaggio in Italia, che lo condurrà anche a Roma, al cospetto appunto di Ungaretti, sarà testimoniato in Libretto, del 1990). Sul piano privato, scompare il suocero, a cui sono dedicate le Leçons, e scompare la madre, a cui è segretamente dedicato il quinto movimento della suite Parler, contenuta appunto negli Chants d’en bas, se sarà proprio la madre da identificare in quella “barca d’osso che ti ha portato” e che ora scompare inabissandosi. La parola poetica, indagata e definita durante un già lungo lavoro di ricerca e di scrittura, è ora costretta a fare i conti con ciò che forse le sfugge, con ciò che si colloca oltre la sua capacità di dire, con ciò che la nega o sembra negarla. Un’annotazione del 1973, nella Semaison, recita non a caso: “Détruire tout confort poétique”.
Da questa situazione culturale ed esistenziale traggono origine gli Chants d’en bas: che contengono le prime poesie di Jaccottet che ho provato a tradurre, tanti anni fa, cioè appunto gli otto movimenti intitolati Parler. In quell’epoca, con alcuni amici, si stava fondando una rivista letteraria, “Idra”; e sul primo numero avevamo pensato di dedicare un ampio dossier proprio a Jaccottet, con interventi di Loredana Bolzan, la traduzione del saggio di Starobinski, alcune pagine da La promenade sous les arbres voltate in italiano da Daniela Vianello, e con le mie prove. Mi colpiva, e mi metteva a dura prova, in quelle poesie, la strana, sfuggente alleanza tra pensiero, ritmo, sintassi e parola; un’orchestrazione fluida dell’espressione che mi sembrava travalicare il limite del verso, organizzandosi come in un’onda meditativa molto difficile da riprodurre in un’altra lingua, e proprio per questo così fascinosa: come se in quel nuovo fluire del pensiero (in cui forse si poteva cogliere un’eco di Rilke, autore carissimo a Jaccottet, e su cui negli stessi anno egli stava alacremente lavorando, e probabilmente soprattutto del Rilke delle Elegie) mi sembrassero schiudersi nuove possibilità ritmiche da conquistare dentro la lingua italiana.
Da quel momento, il nome di Philippe Jaccottet, che naturalmente non era affatto ignoto in Italia, vista l’enorme mole di lavoro da lui svolta come traduttore e recensore in terra di Francia della migliore letteratura nostra (Jaccottet aveva tradotto, oltre a Ungaretti, poesie di Leopardi, Montale, Bigongiari, Carrieri, Luzi, oltre a una non piccola squadra di prosatori; e in anni più recenti il suo interesse di traduttore si spingerà fino a Raboni), inizia a circolare con maggiore intensità; Antonella Anedda curerà una vasta antologia (Appunti per una semina. Poesie e prose 1954-1994, Fondazione Piazzolla 1994); Gianluca Manzi offrirà al lettore italiano due titoli in prosa di Jaccottet, cioè Elementi di un sogno (Hestia 1994) e L’oscurità (Fazi 1998), e più avanti interverranno anche Albino Crovetto (traduttore di Arie, Marcos y Marcos 2000 e del recentissimo Quegli ultimi rumori, Crocetti 2021), Marco Rota (che ha realizzato alcune preziose edizioni artistiche con ottime traduzioni di singoli testi) fino al giovanissimo Cristian Rossatti, che sta per dare alle stampe (di nuovo per Marcos y Marcos) la sua versione di un libro cruciale già ricordato, Passeggiata sotto gli alberi. Quanto a me, non immaginavo certo che le otto poesie pubblicate su “Idra” avrebbero dato il via a una lunghissima avventura, che non considero affatto terminata. Pochi mesi più tardi, infatti, l’Einaudi mi propose di curare un volume dedicato a Jaccottet; e durante quel lavoro ebbi l’occasione di far visita al poeta nella sua casa di Grignan, dove sarei tornato ancora altre volte. Ma proprio di questa lunga avventura non riesco adesso a parlare, e forse non è neppure necessario, né opportuno, farlo.
Basterà ricordare, per concludere questo troppo breve ricordo, un’osservazione giustissima del critico (e a sua volta traduttore) Massimo Raffaeli, pochi giorni dopo la morte di Jaccottet. Raffaeli osservava che, rispetto agli altri grandissimi poeti francesi del secondo Novecento (Char, Jabès, Bonnefoy), Jaccottet sembrava essersi riservato il compito più difficile: tentare una poesia che partisse dalla quotidianità, dall’esperienza minuta e non eccezionale del vivere, dalle cose di tutti. Ma facendo questo, partendo cioè da quel basso di cui si è detto, Jaccottet ci ha consegnato una delle opere poetiche più alte, più accoglienti e nel contempo più misteriosamente sfuggenti del nostro tempo; sempre nel segno di quella luce nomade di cui parlava una poesia giovanile, e di quella “fedeltà a quei soli momenti, alle sole cose/ che scendono in fondo a noi stessi, che ci sfuggono” scolpita sulla pagina del settimo movimento di Parler.
Si è accennato all’importanza della poesia di Jaccottet nella cultura italiana degli ultimi trent’anni, consegnata a numerose pubblicazioni, apparse per molti diversi editori (Einaudi, Marcos y Marcos, Fazi, Scheiwiller, Bollati Boringhieri, Casagrande, Dadò, Crocetti, e altri ancora). Ma se il lettore vorrà ripercorrere la vastissima opera di Philippe Jaccottet nel volume momumentale della Bibliothèque de la Pléiade, apparso nel 2014 (e Jaccottet è, con René Char e Saint-John Perse, tra i pochissimi ad aver avuto questo onore da vivo) si troverà di fronte a una grossa sorpresa, forse ancora da decifare compiutamente. Jaccottet infatti, collaborando a questa edizione, ha scelto di non fare la cosa più ovvia, di non isolare cioè, come ci si sarebbe aspettati, le opere poetiche da quelle in prosa; al contrario, seguendo un criterio cronologico, ha voluto alternare le une alle altre, suggerendo così un percorso creativo molto particolare, molto complesso, che in un certo senso ci spingerà a riconsiderare ciò che credevamo di sapere di questo poeta in un’ottica diversa. È questo, mi sembra, un ultimo segno di vitalità creativa e di inesausta riflessione, ammirevole in un autore che, avendo raggiunto il massimo traguardo, non sembra rassegnarsi a quel “confort poétique” che ha sempre scelto di evitare come una pericolosissima tentazione.
da Philippe Jaccottet, Alla luce d’inverno. Pensieri sotto le nuvole, trad. di F. Pusterla, Marcos y Marcos, Milano, 1997.
PARLARE
1
Parler est facile, et tracer des mots sur la page,
en règle générale, est risquer peu de choses:
un ouvrage de dentellière, calfeutré,
paisible (on pourrait même demander
à la bougie une clarté plus douce, plus trompeuse),
tous les mots sont écrits de la même encre,
“fleur” et “peur” par exemple sont presque pareils,
et j’aurais beau répéter “sang” du haut en bas
de la page, elle n’en sera pas tachée,
ni moi blessé.
Aussi arrive-t-il qu’on prenne ce jeu en horreur,
qu’on ne comprenne plus ce qu’on a voulu faire
en y jouant, au lieu de se risquer dehors
et de faire meilleur usage de ses mains.
Cela,
c’est quand on ne peut plus se dérober à la douleur,
qu’elle ressemble à quelqu’un qui approche
en déchirant les brumes dont on s’enveloppe,
abattant un à un les obstacles, traversant
la distance de plus en plus faible – si près soudain
qu’on ne voit plus que son mufle plus large
que le ciel.
Parler alors semble mensonge, ou pire: lâche
insulte à la douleur, et gaspillage
du peu de temps et de forces qui nous reste.
1
Parlare è facile, e tracciare parole sulla pagina
vuol dire, per lo più, rischiare poca cosa:
lavoro da merlettaia, ovattato,
tranquillo (perfino alla candela si potrebbe
domandare una luce più dolce, più ingannevole),
le parole sono tutte scritte con lo stesso inchiostro,
“fetore” e “fiore” per esempio sono quasi uguali,
e quando avrò ricoperto di “sangue” l’intera pagina,
lei non ne sarà macchiata,
o io ferito.
Capita dunque di provare orrore per questo gioco,
di non capire più cosa si voleva fare
giocandoci, invece di arrischiarsi fuori,
e di fare un uso migliore delle proprie mani.
Questo
è quando non ci si può più sottrarre al dolore,
quando il dolore somiglia a qualcuno che viene,
strappando il velo di fumo in cui ci si avvolge,
abbattendo uno per uno gli ostacoli, colmando
la distanza sempre più lieve – d’improvviso così vicino
che non si vede più che il suo muso più largo
del cielo.
Parlare allora sembra menzogna, o peggio: vigliacco
insulto al dolore, e inutile spreco
del poco di tempo e forze che ci resta.
2
Chacun a vu un jour (encore qu’aujourd’hui
on cherche à nous cacher jusqu’à la vue du feu)
ce que devient la feuille de papier près de la flamme,
comment elle se rétracte, hâtivement, se racornit,
s’effrange… Il peut nous arriver cela aussi,
ce mouvement de retrait convulsif, toujours trop tard,
et néanmoins recommencé pendant des jours.
toujours plus faible, effrayé, saccadé,
devant bien pire que du feu.
Car le feu a encore une splendeur, même s’il ruine,
il est rouge, il se laisse comparer au tigre
ou à la rose, à la rigueur on peu prétendre,
on peut s’imaginer qu’on le désire
comme une langue ou comme un corps;
autrement dit, c’est matière à poème
depuis toujours, cela peut embraser la page
et d’une flamme soudain plus haute et plus vive
illuminer la chambre jusqu’au lit ou au jardin
sans vous brûler – comme si, au contraire,
on était dans son voisinage plus ardent, comme s’il
vous rendait le souffle, comme si
l’on était de nouveau un homme jeune devant qui
l’avenir n’a pas de fin
– sans être détruit.
C’est autre chose, et pire, ce qui fait un être
se recroqueviller sur lui-même, reculer
tout au fond de la chambre, appeler à l’aide
n’importe qui, n’importe comment –
c’est ce qui n’a ni forme, ni visage, ni aucun nom,
ce qu’on ne peut apprivoiser dans les images
heureuses, ni soumettre aux lois des mots,
ce qui déchire la page
comme cela déchire la peau,
ce qui empêche de parler en autre langue que de bête.
2
Ognuno ha visto, almeno una volta (anche se adesso
cercano di nasconderci perfino la vista del fuoco),
quel che diventa il foglio di carta vicino alla fiamma,
come si ritrae, angosciosamente, si dissecca,
si sfrangia… Può capitarci lo stesso,
questo movimento di fuga convulso, sempre in ritardo,
e ciononostante ricominciato per giorni e giorni,
sempre più debole, impaurito, a brusche scosse,
davanti a qualcosa di peggio del fuoco.
Perché il fuoco ha ancora uno splendore, anche se distrugge,
è rosso, paragone di tigre
o di rosa, e addirittura si può pretendere,
ci si può immaginare di desiderarlo,
come una lingua o un corpo;
in altri termini, è un argomento poetico
da sempre, e come tale può incendiare la pagina
e con fiamma di colpo più alta e più viva
illuminare la stanza fino al letto o al giardino
senza bruciarci – quasi che, al contrario,
si fosse nei suoi paraggi più ardenti,
e c’insufflasse vita, quasi che
si fosse di nuovo giovani uomini, con l’avvenire
illimitato di fronte – senza
annientamento.
Ben altra cosa, e peggio, ciò che costringe un essere
a raggomitolarsi su se stesso, a indietreggiare
fino in fondo alla stanza, a chiamare in aiuto
chi non importa, o come –
è ciò che non ha forma, né viso, né alcun nome,
ciò che non si addomestica nelle immagini
felici, che non si sottomette alle parole,
ciò che strappa la pagina
come lacera la pelle,
ciò per cui non si può parlare che lingua di bestia.
3
Parler pourtant est autre chose, quelquefois
que se couvrir d’un bouclier d’air ou de paille…
Quelquefois c’est comme en avril, aux premiers tiédeurs,
quand chaque arbre se change en source, quand la nuit
semble ruisseler de voix comme une grotte
– à croire qu’il y a mieux à faire dans l’obscurité
des frais feuillages que dormir –
cela monte de vous comme une sorte de bonheur,
comme s’il le fallait, qu’il fallait dépenser
un excès de vigueur, et rendre largement à l’air
l’ivresse d’avoir bu au verre tremblant de l’aube.
Parler ainsi – ce qui eut nom chanter jadis
et que l’on ose à peine maintenant,
est-ce mensonge, illusion? Pourtant c’est par les yeux ouverts
que se nourrit cette parole, comme l’arbre
par ses feuilles.
Tout ce qu’on voit,
tout ce qu’aura vu depuis l’enfance,
précipité au fond de nous, brassé, peut-être déformé
ou bientôt oublié – le convoi du petit garçon
de l’école au cimetière, sous la pluie;
une très vieille dame en noir assise
à la haute fenêtre d’où elle surveille
l’échoppe du sellier; un chien jaune appelé Pyrame
dans le jardin où un mur d’espaliers
répercute l’écho d’une fête de fusils;
fragments, débris d’années –
tout cela qui remonte en paroles, tellement
allégé, affiné, qu’on imagine
à sa suite guéer même la mort…
3
Parlare però è un’altra cosa, qualche volta,
che ricoprirsi di uno scudo dorato o di paglia…
Qualche volta è come in aprile, ai primi tepori,
quando ogni albero si muta in sorgente, quando la notte
sembra stillare di voci come una grotta
– si direbbe ci sia meglio da fare nell’oscurità
freschissima del fogliame che dormire –
e questo ti sale dentro come una sorta di felicità,
come se bisognasse, non si potesse non dissipare
un eccesso di forza, e rendere largamente all’aria
l’ebbrezza di aver bevuto al bicchiere fragile dell’alba.
Parlare in questo modo – che un tempo ebbe nome cantare
e adesso si osa appena,
sarebbe menzogna, illusione? Eppure è attraverso gli occhi
che questa parola si nutre, come l’albero
dalle sue foglie.
Tutto ciò che si vede,
tutto ciò che si è visto dall’infanzia,
precipitato in noi, rimestato, forse stravolto
o subito scordato – il tragitto del bimbo
da scuola al cimitero, sotto l’acqua;
una signora molto anziana in nero seduta
all’alta finestra da dove controlla
gli affari del sellaio; un cane giallo di nome Piramo
nel giardino dove un muro di spalliere
ribatte l’eco di fucili in festa;
frammenti, scaglie d’anni –
tutto quel che risale in parole, così
alleviato, così affinato che ci s’immagina
nella sua scia poter guadare anche la morte…
4
Y aurait-t-il des choses qui habitent les mots
plus volontiers, et qui s’accordent avec eux
– ces moments de bonheur qu’on retrouve dans les poèmes
avec bonheur, une lumière qui franchit les mots
comme en les effaçant – et d’autres choses
qui se cabrent contre eux, les altèrent, qui les détruisent:
comme si la parole rejetait la mort,
ou plutôt, que la mort fit pourrir
même les mots…
4
Ci sarebbero delle cose che abitano le parole
più volentieri, e che si accordano con loro
– quegli istanti di felicità che si ritrovano nelle poesie
con felicità, una luce che oltrepassa le parole
cancellandole quasi – e poi altre cose
che si impennano contro di loro, le sconvolgono, che le distruggono:
come se la parola gettasse indietro la morte,
o piuttosto, come se la morte putrefacesse
persino le parole?
5
Assez! Oh, assez.
Détruis donc cette main qui ne sait plus tracer
que des fumées,
et regarde de tous tes yeux:
Ainsi s’éloigne cette barque d’os qui t’a porté,
ainsi elle s’enfonce – et la pensée la plus profonde
ne guérira pas ses jointures –,
ainsi elle se remplit d’une eau amère.
Oh puisse-t-il, à défaut du grand filet
de lumière, inespérable,
pour toute vieille barque humaine en ces mortels parages,
y avoir rémission des peines, brise plus douce,
enfantin sommeil.
5
Basta! Oh, basta.
Questa mano che non sa più tracciare altro che fumo
distruggila dunque,
e guarda bene:
Così si allontana la barca d’osso che ti ha portato,
così lentamente s’immerge – e neppure il pensiero più acuto
ne guarirà le giunture –,
così si riempie d’un’acqua amara.
Oh, le sia dato, in assenza della grande
trama di luce, che nessuna vecchia barca
umana può sperare in quei territori mortali,
trovarvi remissione dei dolori, aura più dolce,
sonno di bambino.
6
J’aurais voulu parler sans images, simplement
pousser la porte…
J’ai trop de crainte
pour cela, d’incertitude, parfois de pitié:
on ne vit pas longtemps comme les oiseaux
dans l’évidence du ciel
– et retombé à terre,
on ne voit plus en eux précisément que des images
ou des rêves.
6
Avrei voluto parlare senza immagini, semplicemente
socchiudere la porta…
Ho troppo timore, per questo,
troppa incertezza, talora pietà:
non si può vivere a lungo come gli uccelli
nell’evidenza del cielo
– e ricaduto a terra,
in loro non vedi più che, appunto, immagini
o dei sogni.
7
Parler donc est difficile – si c’est chercher… chercher quoi?
Une fidélité aux seuls moments, aux seules choses
qui descendent en nous assez bas, qui se dérobent,
si c’est tresser un vague abri
pour une proie insaisissable…
Si c’est porter un masque plus vrai que son visage
pour pouvoir célébrer une fête longtemps perdue
avec les autres, qui sont morts, lointains ou endormis
encore, et qu’à peine soulèvent de leur couche
cette rumeur, ces premiers pas trébuchants, ces feux timides
– nos paroles:
bruissement du tambour pour peu que l’effleure le doigt
inconnu…
7
Parlare dunque è difficile – se è cercare… cercare che cosa?
Una fedeltà a quei soli momenti, alle sole cose
che scendono in fondo a noi stessi, che ci sfuggono,
se è l’intrecciare un rifugio impreciso
per una preda vaga, inafferrabile…
Se vuol dire portare una maschera più vera del proprio viso,
per poter celebrare una festa a lungo perduta
con gli altri, che sono morti, distanti o addormentati
ancora, e che sollevano appena dal loro riposo
questo rumore, questi primi passi incerti, timidi fuochi
– le nostre parole:
lieve fruscio del tamburo per poco che il dito lo sfiori
sconosciuto…
8
Déchire ces ombres enfin comme des chiffons,
vêtu de loques, faux mendiant, coureur de linceuls,
singer la mort à distance est vergogne,
avoir peur quand il y aura lieu suffit. Mais à présent,
habille-toi d’une fourrure de soleil et sors
comme un chasseur contre le vent, franchis
comme une eau fraîche et rapide ta vie.
Si tu avais moins peur,
Tu ne ferais plus d’ombre sur tes pas.
8
Strappale infine queste ombre, come cenci,
mendicante fasullo, straccione, che ammicchi ai sudari,
vergognati se scimmiotti la morte a distanza,
verrà anche l’ora della paura, e basterà. Ma adesso
vesti una pelliccia di sole, e vattene fuori
come un cacciatore contro il vento, prova ad attraversare
come un’acqua rapida e fresca la tua vita.
Se avessi meno paura,
non faresti più ombra sui tuoi passi.
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