La grande frattura tra gli ebrei americani
Questo articolo è stato pubblicato originariamente dal New York Times. Ringraziamo l’autore e la direzione del giornale per avere autorizzato la traduzione, curata da Giovanni Pillonca.
Negli ultimi dieci anni circa, un tremore ideologico ha scombussolato la vita degli ebrei americani. Dal 7 ottobre è diventato un terremoto. Riguarda il rapporto tra liberalismo e sionismo, due fedi che per più di mezzo secolo hanno definito l’identità ebraica americana. Negli anni a venire, gli ebrei americani dovranno affrontare una sollecitazione crescente a fare una scelta tra queste due opzioni.
Dovranno affrontare questa sollecitazione perché la guerra di Israele a Gaza ha accelerato una trasformazione nella sinistra americana. La solidarietà con i palestinesi sta diventando essenziale per la politica di sinistra quanto il sostegno al diritto all’aborto o l’opposizione ai combustibili fossili. E come accadde durante la guerra del Vietnam e la lotta contro l’apartheid sudafricano, il fervore della sinistra sta rimodellando la corrente principale del pensiero liberale. A dicembre, la United Automobile Workers ha chiesto un cessate il fuoco e ha costituito un gruppo di lavoro sul disinvestimento per considerare i “legami economici del sindacato col conflitto”. Nel mese di gennaio, la task force del Comitato Nazionale L.G.B.T.Q. ha chiesto un cessate il fuoco. A febbraio, la leadership della Chiesa episcopale metodista africana, la più antica denominazione protestante nera della nazione, ha invitato gli Stati Uniti a sospendere gli aiuti allo Stato ebraico. In tutta l’America blu [le zone degli Usa in cui prevale il voto democratico, ndt], molti liberali, che una volta sostenevano Israele o evitavano l’argomento, stanno facendo propria la causa palestinese.
Questa trasformazione rimane nelle sue fasi iniziali. In molte importanti istituzioni liberali – in particolare nel Partito Democratico – i sostenitori di Israele rimangono non solo i benvenuti ma sono anche maggioranza. Ma i leader di quelle istituzioni non rappresentano più gran parte della loro base. Il leader della maggioranza democratica, il senatore Chuck Schumer, ha riconosciuto questa divisione in un discorso su Israele all’aula del Senato la scorsa settimana. Ha ribadito il suo sostegno di lunga data nei confronti dello Stato ebraico, sebbene non del suo primo ministro. Ma ha anche ammesso, nella frase più notevole del discorso, che “può comprendere l’idealismo che ispira tanti giovani in particolare a sostenere la soluzione di uno Stato unico” – una soluzione che non implica uno Stato ebraico. Queste sono le parole di un politico che capisce che il suo partito sta attraversando un profondo cambiamento.
Gli ebrei americani più fedeli al sionismo, quelli che gestiscono le istituzioni dell’establishment, si rendono conto che l’America liberale sta diventando ideologicamente meno ospitale. E stanno rispondendo facendo fronte comune con la destra americana. Non sorprende che l’Anti-Defamation League, che solo pochi anni fa criticava aspramente le politiche di immigrazione di Donald Trump, abbia recentemente conferito un’onorificenza a suo genero ed ex consigliere speciale, Jared Kushner.
Lo stesso Trump riconosce la spaccatura politica emergente. “Ogni ebreo che vota per i democratici odia la sua religione”, ha detto in un’intervista pubblicata lunedì. “Odiano tutto di Israele e dovrebbero vergognarsi perché così Israele sarà distrutto”. È la tipica iperbolica indecenza trumpiana, ma è radicata in una realtà politica. Per gli ebrei americani che vogliono preservare il sostegno incondizionato del loro Paese a Israele per un’altra generazione, esiste un solo partner politico affidabile: un Partito Repubblicano che considera la difesa dei diritti dei palestinesi come parte dell’agenda “woke”.
Gli ebrei americani che stanno facendo una scelta diversa – abbandonare il sionismo perché non riescono a conciliarlo con il principio liberale di uguaglianza davanti alla legge – ottengono meno attenzione perché rimangono più lontani dal potere. Ma il loro numero è più grande di quanto molti riconoscano, soprattutto tra i millennial e la generazione Z. E devono affrontare i propri dilemmi. Si stanno unendo a un movimento di solidarietà con la Palestina che sta diventando sempre più ampio, ma anche più radicale, in risposta alla distruzione di Gaza da parte di Israele. Questo crescente radicalismo ha prodotto un paradosso: un movimento che accoglie sempre più ebrei americani trova più difficile spiegare dove si inseriscano gli ebrei israeliani nella sua visione della liberazione palestinese.
La rottura emergente tra il liberalismo americano e il sionismo americano costituisce la più grande trasformazione avvenuta nella politica ebraica americana in mezzo secolo. Ridefinirà la vita ebraica americana per decenni a venire.
Gli “ebrei americani”, scrive Marc Dollinger nel suo libro Quest for Inclusion: Jewish and Liberalism in Modern America, si sono a lungo descritti come “guardiani dell’America liberale”. Da quando sono arrivati in gran numero negli Stati Uniti all’inizio del XX secolo, gli ebrei sono stati ampiamente sovrarappresentati nei movimenti per i diritti civili, delle donne, dei lavoratori e dei gay. Dagli anni ’30, nonostante la loro crescente prosperità, hanno votato in stragrande maggioranza per i democratici. Per generazioni di ebrei americani, le icone del liberalismo americano – Eleanor Roosevelt, Robert Kennedy, Martin Luther King Jr., Gloria Steinem – sono santi laici.
Anche la storia d’amore degli ebrei americani con il sionismo risale all’inizio del XX secolo. Ma arrivò a dominare la vita comunitaria solo dopo che la drammatica vittoria di Israele nella guerra del 1967 entusiasmò gli ebrei americani desiderosi di un antidoto all’impotenza ebraica durante l’Olocausto. L’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che era quasi in bancarotta alla vigilia della guerra del 1967, divenne negli anni ’80 l’istituzione più potente dell’ebraismo americano. Gli ebrei americani, scrisse Albert Vorspan, leader del giudaismo riformato, nel 1988, “hanno fatto di Israele un’icona – una fede surrogata, una sinagoga surrogata, un Dio surrogato”.
Data la profondità di questi due impegni, non sorprende che gli ebrei americani abbiano cercato a lungo di fonderli descrivendo il sionismo come una causa liberale. È sempre stato uno strano abbinamento. I liberali americani generalmente si considerano sostenitori dell’uguaglianza di cittadinanza indipendentemente dall’etnia, dalla religione e dalla razza. Il sionismo – o almeno la versione che ha guidato Israele sin dalla sua fondazione – richiede il predominio ebraico. Dal 1948 al 1966, Israele ha tenuto la maggior parte dei suoi cittadini palestinesi sotto la legge militare; dal 1967 governa milioni di palestinesi che non hanno alcuna cittadinanza. Anche così, fino a poco tempo fa gli ebrei americani potevano affermare il loro sionismo senza che le loro credenziali liberali venissero messe in discussione.
La ragione principale era l’assenza dal discorso pubblico americano dei palestinesi, le persone la cui testimonianza avrebbe messo maggiormente in dubbio tali credenziali. Nel 1984, il critico letterario palestinese americano Edward Said sostenne che in Occidente i palestinesi non hanno il “permesso di narrare” la propria esperienza. Per decenni dopo aver scritto quelle parole, esse rimasero vere. Uno studio condotto da Maha Nassar dell’Università dell’Arizona ha rilevato che degli articoli d’opinione sui palestinesi pubblicati sul New York Times e sul Washington Post tra il 2000 e il 2009, solo l’1% era stato scritto da palestinesi .
Ma negli ultimi anni, le voci palestinesi, sebbene ancora combattute e persino censurate, hanno iniziato a farsi sentire. I palestinesi si sono rivolti ai social media per combattere la loro esclusione dalla stampa. In un’era di attivismo guidato dai giovani, si sono uniti a movimenti intersezionali, forgiati da esperienze parallele di discriminazione e ingiustizia. Nel frattempo, Israele – sotto la guida di Benjamin Netanyahu per gran parte degli ultimi due decenni – si è spostata a destra, producendo politici così apertamente razzisti che il loro comportamento non può essere difeso in termini liberali.
Molti attivisti solidali con la Palestina si identificano come persone di sinistra, non come liberali. Ma come gli attivisti dei movimenti Occupy Wall Street e Black Lives Matter, hanno contribuito a cambiare l’opinione liberale con le loro critiche radicali. Nel 2002, secondo Gallup, i democratici simpatizzavano con Israele rispetto ai palestinesi con un margine di 34 punti. All’inizio del 2023, il favore verso i palestinesi aveva un margine di 11 punti. E poiché l’opinione su Israele si divide lungo linee generazionali, l’inclinazione filo-palestinese è molto maggiore tra i giovani. Secondo un sondaggio della Quinnipiac University a novembre, i democratici sotto i 35 anni che simpatizzano con i palestinesi sopravanzano di 58 punti i sostenitori di Israele.
Dato questo divario generazionale, le università offrono un’anteprima del modo in cui molti liberali – o “progressisti”, un termine a cavallo tra liberalismo e sinistra e più diffuso tra i giovani americani – potrebbero vedere il sionismo negli anni a venire. Sostenere la Palestina è diventato una caratteristica fondamentale della politica progressista in molti campus. Alla Columbia, ad esempio, 94 organizzazioni universitarie – tra cui l’Associazione degli studenti vietnamiti, il Reproductive Justice Collective e il Poetry Slam, “l’unico club ricreativo di parole parlate” della Columbia – hanno annunciato a novembre di “vedere la Palestina come l’avanguardia per la nostra liberazione collettiva”. Di conseguenza, gli studenti ebrei sionisti si trovano in contrasto con la maggior parte dei loro coetanei politicamente attivi.
Ad accompagnare questo cambiamento, all’interno e all’esterno dei campus universitari, c’è stato un aumento dell’antisemitismo legato a Israele, secondo uno schema ricorrente nella storia americana. Dall’ostilità verso i tedeschi americani durante la prima guerra mondiale alla violenza contro i musulmani americani dopo l’11 settembre e alle aggressioni contro gli asiatici americani durante la pandemia di Covid, gli americani hanno la lunga e brutta abitudine di esprimere la loro ostilità verso governi o movimenti stranieri prendendo di mira i connazionali che condividono una religione, etnia o nazionalità con gli avversari d’oltremare. Oggi, tragicamente, alcuni americani che detestano Israele se la prendono con gli ebrei americani. (I palestinesi americani, che hanno subito molteplici crimini d’odio violenti dal 7 ottobre, stanno sperimentando la loro versione di questo fenomeno). Il picco dell’antisemitismo dal 7 ottobre segue uno schema. Cinque anni fa, il politologo Ayal Feinberg, utilizzando dati del 2001 e del 2014, ha scoperto che gli incidenti antisemiti segnalati negli Stati Uniti aumentano quando l’esercito israeliano conduce un’operazione militare importante.
Attribuire il crescente disagio degli studenti ebrei filo-israeliani interamente all’antisemitismo, tuttavia, significa perdere di vista qualcosa di fondamentale. A differenza delle organizzazioni ebraiche dell’establishment, gli studenti ebrei spesso distinguono tra fanatismo e antagonismo ideologico. In uno studio del 2022, il politologo Eitan Hersh ha scoperto che oltre il 50% degli studenti universitari ebrei ritiene di “pagare un costo sociale per sostenere l’esistenza di Israele come Stato ebraico”. Eppure, in generale, sostiene il dottor Hersh, “gli studenti non temono l’antisemitismo”.
I sondaggi dal 7 ottobre rilevano qualcosa di simile. Interrogati a novembre in un sondaggio della Hillel International per descrivere il clima nel campus dall’inizio della guerra, il 20% degli studenti ebrei ha risposto “non sicuro” e il 23% ha risposto “spaventoso”. Al contrario, il 45% ha risposto “a disagio” e il 53% “teso”. Un sondaggio dello stesso mese condotto dal Jewish Electorate Institute ha rilevato che solo il 37% degli elettori ebrei americani di età compresa tra i 18 e i 35 anni considera l’antisemitismo universitario un “problema molto serio”, rispetto a quasi l’80% degli elettori ebrei americani di età superiore ai 35 anni.
Anche se alcuni giovani ebrei americani filo-israeliani sperimentano l’antisemitismo, quello che denunciano di più frequentemente è l’esclusione ideologica. Man mano che il sionismo viene associato alla destra politica, le loro esperienze nei campus progressisti cominciano ad assomigliare a quelle dei giovani repubblicani. La differenza è che, a differenza dei giovani repubblicani, la maggior parte dei giovani sionisti americani sono stati educati a credere che il loro fosse un credo liberale. Quando i loro genitori frequentavano il college, questa affermazione raramente veniva messa in discussione. Negli stessi campus in cui i loro genitori si sentivano a casa, gli studenti ebrei che considerano il sionismo un elemento centrale della loro identità ora spesso si sentono degli outsider.
Nel 1979, Said osservò che in Occidente “essere palestinese significa, in termini politici, essere un fuorilegge”. In gran parte dell’America – compresa Washington – ciò rimane vero. Ma all’interno delle istituzioni progressiste si può intravedere l’inizio di un’inversione storica. Spesso adesso sono i sionisti a sentirsi dei fuorilegge.
Considerata la devozione dichiarata dalla comunità ebraica americana organizzata ai principi liberali, che includono la libertà di parola, si potrebbe immaginare che le istituzioni ebraiche accoglierebbero questo cambiamento ideologico esortando gli studenti filo-israeliani a tollerare e persino a imparare dai loro coetanei filo-palestinesi. Una simile presa di posizione deriverebbe naturalmente dalle dichiarazioni fatte in passato dai gruppi ebraici dell’establishment. Alcuni anni fa l’Anti-Defamation League dichiarò che “le università del nostro Paese fungono da laboratori per lo scambio di punti di vista e convinzioni diverse. I discorsi offensivi e incitanti all’odio sono protetti dal Primo Emendamento della Costituzione”.
Tuttavia, man mano che il sentimento filo-palestinese è cresciuto nell’America progressista, i leader ebrei filo-israeliani hanno apparentemente fatto un’eccezione per l’antisionismo. Pur continuando a sostenere la libertà di parola nei campus, l’ADL lo scorso ottobre ha chiesto ai presidenti dei college di indagare sulle sezioni locali di Students for Justice in Palestine per determinare se violassero i regolamenti universitari o le leggi statali o federali, una richiesta che secondo l’ American Civil Liberties Union potrebbe “congelare il discorso” e “tradire il principio della libertà di ricerca”. Dopo che l’Università della Pennsylvania ha ospitato un festival di letteratura palestinese lo scorso autunno, Marc Rowan, presidente della United Jewish Appeal-Federation di New York e presidente del consiglio dei consulenti della Penn’s Wharton Business School, ha condannato il presidente dell’università per aver dato il suo imprimatur al festival Penn’s. A dicembre, ha incoraggiato gli amministratori a modificare le politiche universitarie in modi che, secondo la sezione Penn dell’American Association of University Professors, potrebbero “mettere a tacere e punire i discorsi con cui gli amministratori non sono d’accordo”.
In questo sforzo di limitare il discorso filo-palestinese, i leader ebraici dell’establishment stanno trovando i loro più forti alleati nella destra autoritaria. I repubblicani pro-Trump hanno il loro programma di censura: vogliono impedire alle scuole e alle università di enfatizzare la storia americana di oppressione razziale e di altro tipo. Chiamare antisemita questa pedagogia rende più facile vietarla o tagliarla. Nel corso di un’audizione al Congresso molto discussa a dicembre con i presidenti di Harvard, Penn e del M.I.T., la rappresentante repubblicana Virginia Foxx ha osservato che Harvard tiene corsi come “Razza e razzismo nella costruzione degli Stati Uniti come potenza globale” e ospita seminari come “Razzismo scientifico e antirazzismo: storia e prospettive recenti” prima di dichiarare che “anche Harvard, non per coincidenza ma per causalità, è stata il punto zero dell’antisemitismo dopo il 7 ottobre”.
Il punto di vista della signora Foxx è tipico. Mentre alcuni democratici equiparano antisionismo e antisemitismo, i politici e i leader aziendali più desiderosi di reprimere i discorsi filo-palestinesi sono i conservatori che collegano tali discorsi al programma di diversità, equità e inclusione che disprezzano. Elise Stefanik, una sostenitrice di Trump che ha accusato Harvard di “cedere alla sinistra woke”, è diventata la star di quell’audizione del Congresso chiedendo che il presidente di Harvard, Claudine Gay, punisse gli studenti che cantano slogan come “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera.” (La signora Gay è stata successivamente costretta a dimettersi in seguito a un’accusa di plagio). Elon Musk, che a novembre aveva affermato che la frase “dal fiume al mare” era stata bandita dalla sua piattaforma di social media X (ex Twitter), il mese successivo ha dichiarato che i principi di Diversità, Equità e Inclusione (D.E.I) devono sparire”. Il primo governatore a vietare le sedi di Students for Justice in Palestine nelle università pubbliche del suo stato è stato Ron DeSantis della Florida, che ha anche firmato una legislazione che limita ciò che quelle università possono insegnare su razza e genere.
Questo allineamento tra l’establishment organizzativo ebraico americano e la destra trumpista non si limita alle università. Se l’ADL si è allineata con i repubblicani che vogliono mettere a tacere gli attivisti “woke” nei campus, l’AIPAC ha unito le sue forze con i repubblicani che vogliono privare gli elettori “woke” del loro diritto di voto. Nelle elezioni di medio termine del 2022, l’AIPAC ha appoggiato almeno 109 repubblicani che si opponevano alla certificazione delle elezioni del 2020. Per un’organizzazione focalizzata risolutamente nel sostenere il sostegno incondizionato degli Stati Uniti a Israele, ciò ha costituito una decisione razionale. Dal momento che i membri repubblicani del Congresso non devono addolcire gli elettori filo-palestinesi, sono gli alleati più affidabili dell’AIPAC. E se molti di questi repubblicani hanno utilizzato pretestuose accuse di frode degli elettori neri per opporsi al trasferimento democratico del potere nel 2020 – e potrebbero farlo di nuovo – questo è un prezzo che l’AIPAC sembra essere disposta a pagare.
Per i molti ebrei americani che ancora si considerano sia progressisti che sionisti, questa crescente alleanza tra le principali istituzioni sioniste e un partito repubblicano trumpista è scomoda. Ma nel breve termine hanno una risposta: politici come il presidente Biden, le cui opinioni sia su Israele che sulla democrazia americana riflettono più o meno le loro. Nel suo discorso della scorsa settimana, Schumer ha definito questi sionisti liberali la “maggioranza silenziosa” degli ebrei americani.
Per il momento potrebbe avere ragione. Negli anni a venire, tuttavia, man mano che le correnti generazionali spingono il Partito Democratico in una direzione più filo-palestinese e spingono l’establishment americano filo-israeliano verso destra, i sionisti liberali probabilmente troveranno più difficile conciliare le loro due fedi. I giovani ebrei americani offrono uno sguardo su quel futuro, in cui un’ala considerevole dell’ebraismo americano decide che per restare fedele ai propri principi progressisti deve abbandonare il sionismo e abbracciare la parità di cittadinanza in Israele e Palestina, così come negli Stati Uniti.
Per un’establishment ebraico americano che equipara l’antisionismo all’antisemitismo, questi ebrei antisionisti sono scomodi. A volte, le organizzazioni ebraiche filo-israeliane fingono di non esistere. A novembre, dopo che la Columbia aveva sospeso due gruppi universitari antisionisti, l’ADL ha ringraziato i leader universitari per aver agito “per proteggere gli studenti ebrei” – anche se uno dei gruppi sospesi era Jewish Voice for Peace. Altre volte, i leader filo-israeliani descrivono gli ebrei antisionisti come una frangia trascurabile. Se gli ebrei americani sono divisi sulla guerra a Gaza, ha dichiarato a dicembre Andrés Spokoiny, presidente e amministratore delegato del Jewish Funders Network, un’organizzazione di filantropi ebrei, “la suddivisione è 98%/2%”.
Tra gli ebrei americani più anziani, questa affermazione di un consenso sionista contiene qualche verità. Ma tra gli ebrei americani più giovani questo è falso. Nel 2021, anche prima che l’attuale governo di estrema destra israeliano prendesse il potere, il Jewish Electorate Institute ha scoperto che il 38% degli elettori ebrei americani di età inferiore ai 40 anni considerava Israele uno stato di apartheid, rispetto al 47% che affermava che non lo era. A novembre, è emerso che il 49% degli elettori ebrei americani di età compresa tra i 18 e i 35 anni si è opposto alla richiesta di Biden di ulteriori aiuti militari a Israele. In molti campus, gli studenti ebrei sono in prima linea nelle proteste per il cessate il fuoco e il disinvestimento da Israele. Non parlano a nome di tutti – e forse nemmeno della maggior parte – dei loro coetanei ebrei. Ma rappresentano molto più del 2%.
Questi ebrei progressisti sono, come mi ha fatto notare Adam Shatz, direttore americano della London Review of Books, una doppia minoranza. Il loro antisionismo li rende una minoranza tra gli ebrei americani, mentre la loro ebraicità li rende una minoranza nel movimento di solidarietà con la Palestina. Quindici anni fa, quando il gruppo sionista liberale J Street intendeva fungere da “blocco” per la spinta del presidente Barack Obama per una soluzione a due Stati, alcuni ebrei liberali immaginavano di guidare la spinta per porre fine all’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Oggi, la prospettiva di una spartizione è diminuita e sono sempre più i palestinesi a stabilire i termini della critica attivista nei confronti di Israele. Questo discorso, costellato di termini come “apartheid” e “decolonizzazione”, è generalmente ostile a uno Stato ebraico all’interno di qualsiasi confine.
Non c’è nulla di antisemita nell’immaginare un futuro in cui palestinesi ed ebrei coesistono sulla base dell’uguaglianza giuridica piuttosto che sulla base della supremazia ebraica. Ma nei circoli di attivisti filo-palestinesi negli Stati Uniti, il tema della coesistenza è passato in secondo piano. Nel 1999, Said sosteneva “uno stato binazionale israelo-palestinese” che offrisse “l’autodeterminazione per entrambi i popoli”. Nel suo libro del 2007, One Country, Ali Abunimah, co-fondatore di The Electronic Intifada, un’influente fonte di notizie e opinioni filo-palestinesi, ha immaginato uno stato il cui nome riflettesse le identità di entrambe le principali comunità che lo abitano. I termini “‘Israele’ e ‘Palestina’ sono cari a coloro che li usano e non dovrebbero essere abbandonati”, ha sostenuto. “Il paese potrebbe chiamarsi Yisrael-Falastin in ebraico e Filastin-Isra’il in arabo”.
Negli ultimi anni, tuttavia, con lo spostamento di Israele verso destra, il discorso filo-palestinese negli Stati Uniti si è irrigidito. La frase “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”, che risale agli anni ’60 ma ha acquisito nuova importanza dal 7 ottobre, non riconosce il carattere binazionale della Palestina e di Israele. Per molti ebrei americani, infatti, la frase suggerisce una Palestina libera dagli ebrei. Suona espulsionista, se non genocida. È un’accusa ironica, dato che è Israele che oggi controlla la terra tra il fiume e il mare, i cui leader sostengono apertamente l’esodo di massa dei palestinesi e che secondo la Corte internazionale di giustizia potrebbe plausibilmente commettere un genocidio a Gaza.
Studiosi palestinesi come Maha Nassar e Ahmad Khalidi sostengono che “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” non implica la sottomissione degli ebrei. Riflette invece la convinzione palestinese di lunga data secondo cui la Palestina sarebbe dovuta diventare un paese indipendente una volta liberata dal controllo coloniale europeo, una visione che non impedisce agli ebrei di vivere liberamente accanto ai loro vicini musulmani e cristiani. I gruppi ebraici più vicini al movimento di solidarietà con la Palestina concordano: la sezione di Los Angeles di Jewish Voice for Peace ha sostenuto che lo slogan non è più antiebraico di quanto la frase “Le vite dei neri contano” sia contro i bianchi. E se il movimento di solidarietà con la Palestina negli Stati Uniti invoca il genocidio degli ebrei, è difficile spiegare perché così tanti ebrei si siano uniti alle sue fila. La rabbina Alissa Wise, organizzatrice di Rabbis for Cease-Fire, stima che oltre ai palestinesi, nessun altro gruppo è stato così importante nelle proteste contro la guerra come gli ebrei.
Tuttavia, immaginare una “Palestina libera” dal fiume al mare significa immaginare che gli ebrei israeliani diventeranno palestinesi, il che cancella la loro identità collettiva. Si tratta di un allontanamento dalla visione più inclusiva delineata da Said e Abunimah anni fa. È più difficile per gli attivisti palestinesi offrire questa visione più inclusiva mentre guardano Israele bombardare e affamare Gaza. Ma l’ascesa di Hamas lo rende ancora più essenziale.
Gli ebrei che si identificano con la lotta palestinese potrebbero avere difficoltà a offrire questa critica. Molti hanno abbandonato l’ambiente sionista in cui sono cresciuti. Avendo compiuto quella transizione dolorosa, che può rompere i rapporti con amici e familiari, potrebbero essere riluttanti a mettere in discussione la loro nuova casa ideologica. È spaventoso rischiare di alienare una comunità quando ne hai già alienata un’altra. Mettere in discussione il movimento di solidarietà con la Palestina viola anche l’idea, prevalente in alcuni ambienti della sinistra americana, secondo cui i membri di un gruppo oppressore non dovrebbero dubitare dei rappresentanti degli oppressi.
Ma queste gerarchie identitarie sopprimono il pensiero critico. I palestinesi non sono un monolite e gli ebrei progressisti non sono semplicemente alleati. Sono membri di un popolo piccolo e a lungo perseguitato che ha non solo il diritto ma anche il dovere di prendersi cura degli ebrei in Israele e di spingere il movimento di solidarietà con la Palestina a includerli più esplicitamente nella sua visione di liberazione, nello spirito della Carta della Libertà adottata durante l’apartheid dall’African National Congress e dai suoi alleati, che dichiarava nella sua seconda frase che “il Sudafrica appartiene a tutti coloro che ci vivono, bianchi e neri”.
Per molti ebrei americani è doloroso vedere la generazione dei propri figli e nipoti mettere in discussione il sionismo. È esasperante vedere gli studenti delle istituzioni liberali con le quali un tempo si sentivano allineati trattare il sionismo come un credo razzista. Si è tentati di attribuire tutto ciò all’antisemitismo, anche se ciò richiederebbe di definire molti giovani ebrei americani come antisemiti.
Ma gli ebrei americani che insistono sul fatto che sionismo e liberalismo rimangono compatibili dovrebbero chiedersi perché Israele ora attira il fervido sostegno del rappresentante Stefanik ma respinge la Chiesa episcopale metodista africana e gli United Automobile Workers. Perché gode dell’ammirazione di Elon Musk e Viktor Orban ma è etichettato come esecutore dell’apartheid da Human Rights Watch e paragonato al Jim Crow South da Ta-Nehisi Coates. Perché è più probabile che mantenga il sostegno americano incondizionato se Trump riuscirà a trasformare gli Stati Uniti in uno stato suprematista cristiano bianco piuttosto che se fallirà.
Per molti decenni, gli ebrei americani hanno costruito la nostra identità politica su una contraddizione: perseguire qui la parità di cittadinanza; difendere lì la supremazia del gruppo. Ora il qui e il lì stanno convergendo. Negli anni a venire dovremo scegliere.