La fine degli intellettuali raccontata da E. Traverso
La casa editrice Ombre corte ha da poco tradotto e pubblicato un piccolo volume uscito in Francia due anni fa, che contiene una conversazione tra lo storico italiano Enzo Traverso e Régis Meyran, dal titolo abbastanza eloquente: Che fine hanno fatto gli intellettuali?
Enzo Traverso, noto per i suoi numerosi studi sul Novecento (tra gli altri, ricordiamo A ferro e fuoco. La guerra civile europea, 1914-1945 e Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento), ripercorre in questo libretto la storia degli intellettuali, a partire dal loro atto di nascita in occasione dell’affaire Dreyfus. Da allora fino agli anni Settanta, l’intellettuale è stato colui il quale «mette in discussione il potere, contesta il discorso dominante, provoca il disaccordo, introduce un punto di vista critico». L’intellettuale è insomma il «critico del potere», come attestano le figure esemplari di Orwell, Gramsci e Sartre.
Questa forte connotazione politica della funzione intellettuale sembra entrata in crisi negli ultimi quarant’anni, a causa di molteplici fattori, non ultimo lo strapotere dei mezzi di comunicazione di massa. Al posto dell’intellettuale critico sarebbero subentrate nuove figure, prima fra tutte quella dell’esperto, il quale «non s’impegna per dei valori, usa le sue competenze per orientare il potere in carica, e gioca un ruolo ideologico non marginale»; egli tende, infatti, «a diventare un tecnico di governo». Ne abbiamo avuto prova più che evidente con l’esperienza politica di Mario Monti di pochi anni fa. L’emergere dell’esperto è il riflesso della vittoria del neoliberismo, della diffusione pervasiva in tutti le sfere della vita sociale del linguaggio dell’impresa, anche dentro le università, la cui funzione è sempre meno quella di stimolare il sapere critico, quanto quella di fornire competenze e formare tecnici.
All’interno della ricostruzione storica di Traverso, il 1989 rappresenta una data-spartiacque, poiché il crollo dell’Unione Sovietica ha sancito il «trionfo del capitalismo» e il definitivo ingresso delle società occidentali in un’era post-ideologica, nella quale gli intellettuali hanno perso il loro mandato sociale. I partiti politici, che nel dopoguerra si erano serviti di loro per accrescere il proprio consenso e fabbricare i propri programmi, adesso preferiscono rivolgersi a pubblicitari e manager della comunicazione.
Oltre alla figura dell’esperto, dalla fine degli anni Settanta si profila una nuova tipologia di intellettuale neoconservatore, in Francia particolarmente rigogliosa: Traverso cita i “nuovi filosofi” come Bernard Henri Levy e André Glucksmann, ma anche nomi meno conosciuti in Italia come quelli di Alain Finkielkraut e Jean-Claude Milner, i quali amano ergersi a presunti custodi dell’identità europea contro la minaccia dell’islamismo. Sono proprio i nuovi filosofi francesi ad aver bandito per primi i concetti di destra e sinistra come dei ferri vecchi inservibili e ad aver trasformato l’umanitarismo in un’«ideologia di un’epoca post-ideologica», che facilmente si presta a a legittimare, in nome dei diritti umani, guerre e interventi armati di ogni genere.
Tra le tante qualità che si possono riconoscere a questo piccolo ma densissimo libretto, va menzionata la capacità straordinaria di Traverso di muoversi con grande maestria all’interno della tortuosa storia del Novecento, per ricostruire le traiettorie di decine di intellettuali, spesso emendandoli dai luoghi comuni e dai pregiudizi negativi, che, col passare del tempo, hanno finito per oscurarne la memoria; si veda, ad esempio, la sua critica nei confronti dell’«attuale vulgata antisartriana», che fa dell’autore dell’Essere e il nulla un personaggio equivoco, quando non uno becero stalinista; vulgata nella quale Traverso coglie, non a torto, «un impulso conservatore».
La tesi centrale che si può ricavare dalla conversazione tra Traverso e Meyran è la seguente: il fatto che la figura dell’intellettuale critico oggi non goda di ottima salute «non vuol dire che non avrebbe più nessun ruolo da svolgere… […] Il potere, l’oppressione, l’ingiustizia, non sono scomparsi. Il mondo non sarebbe vivibile se nessuno li contestasse». Oggi, insomma, l’intellettuale che critica il potere in nome di valori universali è più che mai necessario. Ritorno a Sartre? Ovviamente no. Se Sartre resuscitasse oggi, sarebbe del tutto spaesato, perché non potrebbe più usufruire di quello stesso uditorio esistente ancora mezzo secolo fa. Ma sul modo in cui un uditorio possa rinascere e ricomporsi e assumere forme necessariamente diverse da quelle del passato, Traverso, purtroppo, non si pronuncia, e sulle nuove tecnologie digitali, con le quali si confrontano già le nuove generazioni di intellettuali, spende pochissime parole. Per questa ragione, il suo discorso – forse troppo compromesso con il Novecento e con le sue categorie interpretative, anche per ovvie ragioni anagrafiche – non può che concludersi con un appello sotto forma di presagio: «Agli intellettuali di domani spetterà il compito di dar vita a nuove utopie» che prendano il posto di quelle che hanno dominato il “secolo breve”. E non deve stupire che questo prezioso appello per la nascita di nuove utopie provenga da uno storico, abituato per mestiere a volgere la sua attenzione al passato: come ci ha insegnato Habermas, sin dagli albori della modernità, un nesso profondo lega il pensiero storico e quello utopico. «Il mondo – osserva Traverso – non può vivere senza utopie e ne inventerà di nuove». Come direbbe il dialettico Brecht, «mai dire mai».
La tassonomia proposta da Traverso potrebbe però arricchirsi ulteriormente e ospitare, accanto all’intellettuale-esperto e al neoconservatore, quello che Jacques Rancière definirebbe l’intellettuale melanconico di sinistra, oggi molto diffuso nel nostro Paese, per il quale non ci sarebbe alcuna alternativa all’esistente e, pertanto, l’unica soluzione è quella di adattarvisi. L’esponente più rappresentativo di questo modello di intellettuale è oggi il critico e teorico della letteratura Guido Mazzoni, l’autore di un libro recente intitolato I destini generali; un saggio del quale, da parte di molti lettori, è stata sottolineata più volte la lucidità di analisi delle cause e degli effetti di quella mutazione antropologica a suo tempo già preconizzata da Pasolini. Ma oggi la lucidità è diventata una virtù ingannevole, poiché, come ci avverte lo stesso Traverso, la sua «unità di misura […] è un liberalismo tiepido e insipido, proiettato a posteriori sul passato come una sorta di saggezza senza tempo». Una proposta rinunciataria quella di Mazzoni, nella quale si riflette forse, più che il clima politico in cui viviamo, la posizione sociale privilegiata del suo autore. E, tuttavia, sono sempre più numerosi gli intellettuali che, quando decidono di prendere la parola su temi e problemi di ordine politico, evitano di compromettersi e pretendono di esprimere un punto di vista neutrale puramente descrittivo. Ma, mi chiedo, se criticare vuol dire, come dimostra la stessa etimologia della parola, distinguere e giudicare, è mai possibile interrogare la realtà senza prendere posizione?
Tornando alla domanda che dà il titolo al libretto, Traverso non crede che gli intellettuali critici siano estinti del tutto. Anzi, riconosce gli ultimi discendenti di questa specie in figure molto diverse fra loro come quelle di Jacques Rancière, Alain Badiou, Slavoj Žižek, Toni Negri e Giorgio Agamben. Tutti accademici e non di primo pelo. A differenza che in passato, le loro voci non hanno, tuttavia, – osserva Traverso – nessun aggancio coi movimenti sociali: «Judith Butler riempie gli anfiteatri di giovani studenti, ma questa vasta influenza intellettuale non ha nessun impatto politico». Ciò vale anche per gli intellettuali postcoloniali come Edouard Glissant e Achille Mbembe, la cui notorietà non riesce a sfondare il recinto del mondo accademico occidentale. Ma si può, comunque, obiettare che l’intellettuale accademico si rivolge al pubblico dall’alto del suo sapere e del suo prestigio, secondo una strategia discorsiva autoreferenziale, ormai inefficace sul piano politico. Forse i semi del pensiero critico vanno cercati anche fuori da quelle riserve indiane che sono ormai le università, tra quei lavoratori della conoscenza rimasti fuori dal mondo accademico e che, nonostante il loro declassamento e la loro inarrestabile sottoproletarizzazione, non hanno rinunciato ad impegnarsi per il bene comune; tra quanti hanno scelto di spogliarsi dell’arroganza e del narcisismo per intrecciare relazioni orizzontali con chi li ascolta o legge. Questa tipologia di intellettuali ha capito ormai da tempo che, per poter contare ancora qualcosa, è meglio abbassare la testa e, per dir così, “farsi asini”. Un vero cambiamento potrà nascere soltanto dall’alleanza tra queste due tipologie di intellettuali, dall’unione quindi tra un pensiero teorico all’altezza dei tempi e un’azione situata nei contesti concreti in cui avvengono i conflitti.