La fase due

Dopo il lockdown. “Tutto sta diventando fantascienza…il futuro è una chiave d’accesso al presente migliore del passato”. vent’anni dopo, questa fulminante intuizione di James Ballard suona datata. Il futuro oggi c’ha superato da un pezzo, o, forse, si è smarrito anche lui nel buco nero; sta di fatto che gli esercizi di immaginazione della fantascienza ci sembrano una cosa di ieri, irripetibile. Del resto, anche il no-future dei punk è nostalgia, caramellosa: il futuro è già qui, e non lo capiamo.
Sia come sia, rinunciato al futuro, la cronaca ci impone di ripiegare sulla… “fase due”. Gli auspici non sono buoni, tutto sommato. Si parla insistentemente di fine della quarantena da Lockdown, si evoca come se fosse una liberazione appunto questa famigerata “ripartenza”, e i segnali sono quantomeno inquietanti, ben poco limpidi. Anche senza esser capaci di leggere l’avvenire nelle budella dei pennuti del cielo o in quelle geometrie esistenziali che tracciano in volo, parrebbe sia il caso di stare in guardia, restare in allarme (o forse svegliarsi e allarmarsi, una buona volta: in troppi sono sin troppo sereni, pacificati). Da quanto si riesce a intuire dai mille discorsi che il potere, improvvisando va detto, imbroglia e sbroglia (politici, esperti, scienziati, confindustria e tutta l’angelica corte al seguito, nani e ballerine compresi, naturalmente), l’alibi dell’emergenza sembra sul punto di lasciare il posto a un nuovo, inedito, sistematico, irreversibile, spettrale disciplinamento della vita quotidiana.
Il grande collaudo. L’enfasi di chi ha colto nella Pandemia un punto e a capo o una khere heideggeriana o la leggerezza di chi ha alzato le spalle o ha voltato il capo indifferente, devono lasciare pensare, destare sospetto. Prima ancora di tornare a spericolarci sul dopo conviene indugiare sui giorni di quarantena, senza sconforto. Prendendo le distanze, ma senza nominarli, dai complottisti alla Agamben o dai fulminati ottimisti tipo Zizek, Alan Badiou osservava che “l’epidemia attuale non è in alcun modo il sorgere di qualcosa di radicalmente nuovo o d’inaudito…. Non ho trovato dunque nient’altro da fare che provare, come tutti, a sequestrarmi in casa mia.. Questo genere di situazione (guerra mondiale, o epidemia mondiale) è particolarmente ‘neutro’ sul piano politico. Le guerre del passato non hanno provocato rivoluzioni…”. Deludente nel suo evidente contentarsi della trita saggezza del ‘niente di nuovo sotto al sole, storicamente imprecisa, irritante nel suo sfacciato negare l’evidenza (la clamorosa novità della segregazione in casa di mezzo mondo, la mutazione profonda dei rapporti psichici, politici, sociali, l’impressionante dipendenza virtuale dallo ‘sciame’ della rete, ecc. ecc.), la reazione di Badiou però forse ha un senso ‘negativo’, alla rovescia. Anche chi ha visto nella Pandemia il “cardine attorno a cui gira l’imminente rivolgimento del mondo” (è sempre Hegel) fa un discorso fuorviante, e di maniera. Enfatizzare l’assoluta novità dell’evento pandemico, intonare la cantilena del “niente sarà come prima”, cianciare di un Grande Complotto o del Nuovo Comunismo è fumo negli occhi. Pandemia e lockdown andrebbero letti in continuità col prima, storicamente, cercando di decifrarne il segno esistenziale, metafisico e politico più oscuro (non c’è Una logica della Storia ma resta una trama di logiche, e sragioni: il reale non è razionale ma… ha una sua ratio).
Gli esercizi di immaginazione della fantascienza ci sembrano una cosa di ieri, irripetibile.
Non è un discorso sul metodo, come è ovvio: semplicemente, il morbo non è una novità assoluta ma “un segno dei tempi”. Ragiono come sempre su spie, sintomi, indizi. Prendiamo l’altro insopportabile refrain di questi giorni: “il virus ci ha colti impreparati”. È uno slogan-esorcismo, che nega il vero. Piuttosto ha sorpreso come i singoli si siano adatti subito, passivamente e, soprattutto, come il Sistema abbia reagito sin troppo velocemente, prontamente (il che non vuol dire affatto che abbia reagito bene, con saggezza e giustizia, e con efficacia). Con l’eccezione dell’unico fronte davvero decisivo – il sistema sanitario, la gestione dell’emergenza medica, le cure – lo choc pandemia è diventato l’occasione imperdibile di un esperimento politico e sociale su vasta scala che ha messo alla prova l’enorme dispositivo del tecno-capitalismo digitale. Non è questione di cospirazione o complotto (lo schema di Agamben è sbagliato per difetto: puerile nella connessione cause-effetti, risibile nel negare l’evidenza dei fatti, persino il ‘contagio’) ma semplicemente di “logica”, e di mercato. Dopo un primo istante di futili esorcismi vecchia maniera (fermare i voli, blindare o chiudere porti e frontiere) persino i nostri non brillantissimi politici si sono sintonizzati su altre frequenze. La merce-magia, l’intero apparato del capitalismo digitale inteso come modo di produzione, assetti di proprietà, big data, “sciame” virtuale, piattaforme digitali, social network, riti e forme di consumo, ha preso il posto della vita sospesa. Improvvisamente, la fantasmagoria tech-futurista si è fatta presente: il lavoro trasformato in smart-working, blindati a casa (quasi tutto il lavoro, naturalmente: l’ineguaglianza feroce che ha continuato a mandare allo sbando operai, rider, infermieri, badanti, fattorini viene data per scontata, inevitabile); l’intero comparto formativo (scuole, università, accademie) traslocati con maggior o minor fortuna online, e a tempo indefinito; gli stessi trasporti pubblici svuotati; le città metafisicizzate, rese spettrali: e tutto funziona lo stesso, più o meno, tutto va avanti (mega-recessione a parte, ma questa mega-recessione era nell’aria: la guerra dei dazi cinese-americana si stava spostando da noi, con evidenza).
Chi ha colto nelle resistenze del governo al ‘riapriamo tutto subito’ della Confindustria una risposta d’orgoglio della Politica all’economia, ha guardato con ottimismo un po’ ottuso al dito, e ha perso la luna: da troppo tempo il Capitale vero ha lasciato le fabbriche (e persino la finanza se vogliamo) per trasferirsi nel regno delle big Company dell’Intelligenza Artificiale e delle telecomunicazioni, nascosto e ben protetto nelle profondità della giungla di silicio dei big-data. Prima ancora di chiederci quanto questa emergenza possa contribuire a rafforzare gli assetti di controllo e sorveglianza sulle nostre vite, dovremmo capire che la crisi pandemica (o la poli-crisi, come la chiama Edgar Morin) ha rappresentato per il (tardo? Neo?) capitalismo digitale l’occasione di un Grande Collaudo di assetti, risorse, possibilità, strumenti, dispositivi che erano lì già predisposti, su mille piani, e andavano appunto soltanto rodati, messi alla prova, tarati meglio. L’anello di saldatura tra l’emergenza Lockdown e l’imperscrutabile ‘fase due’ sta precisamente in questa logica di soluzionismo (il termine è di Morozov) hig-tech all’emergenza (che in Italia si sia scelto l’ex manager della Vodafone per gestire il passaggio è sintomatico): bisogna immaginare un futuro rarefatto, basato sul distanziamento sociale, e sul digitale. Qualcuno (sempre Morozov) ha evocato un’app-ificazione dell politica ma tutto sommato è più un epifenomeno che non il problema peggiore, pervasivo. La “rosa nella croce del presente” è più spinosa. Se sino all’altro ieri il discorso para-utopico era come democraticizzare le piattaforme digitali e come difendere la privacy dai big-data evitando orwelliane sorveglianze fuori misura, oggi la linea del fronte sembra mutata. La minaccia di ieri – lo stato di sorveglianza – diventa la rassicurante promessa di un futuro al sicuro, senza contagio. È come se si fosse tornati all’attimo fondativo di costruzione del contratto sociale originario: l’ordine del discorso dominante spaccia la pandemia per lo ‘state of nature’ hobbesiano dove “domina un continuo timore ed il pericolo di una morte violenta; e la vita dell’uomo è solitaria, povera, lurida, brutale e corta” e allora il grande Leviatano 2.0 nasce ancora una volta da uno scambio assoluto di libertà per sicurezza (gli stessi big data e le app che solo ieri erano un’avvisaglia paurosa di controllo diventano i nostri scudi di Thor, un manto accudente). In vista della fase due, in vista di quella che tutti i politici chiamano adesso con un tremendo eufemismo la nostra “nuova normalità”, la logica di questo momento interlocutorio di Grande Collaudo sembra chiarissima: le tecnologie digitali sono la sola e unica risposta-soluzione alla crisi e in nome di sicurezza e sanità a loro è data la possibilità di sconvolgere, distruggere, rifare e rivoluzionare ogni cosa e ogni aspetto della nostra vita, eccetto…una: il Mercato, naturalmente, ca va sans dire.
Un teatro dei pupi teologico-politico: il “nemico” (sbagliato) della sinistra. Bisogna tornare a discutere di nuvole aristofaniche, di teoria. Pandemia e quarantena, impreparati hanno trovato davvero “noi”, le anime belle: gli intellettuali radicali, la sinistra, chi ancora sino a ieri sognava non dico la rivoluzione, ma il cambiamento, chiunque, insomma, fosse convinto che un’alternativa da qualche parte deve pur esserci, oggi non sa che pesci prendere, o abbaia alla luna. Dovremmo chiederci perché tutta questa sorpresa, e questo sgomento. La sovrastruttura resta sempre sovrastruttura, però è importante (agiamo – o non agiamo – partendo da quel che pensiamo, poco da fare). È anche un problema di paradigmi, schemi ideologici. Badiou e Agamben esprimono il sintomo benissimo, e in modo solo apparentemente opposto, antagonista. “Non c’è niente di nuovo sotto al sole”, semplicemente. O perché non c’è proprio niente, e non cambia nulla (Badiou) o perché l’emergenza conferma lo schema del complotto biopolitico, e.. tout se tient (Agamben). Dentro questa polarità si esaurisce gran parte dello spettro del pensiero politico radicale e conviene farci i conti, provare a capire.
L’impressione è la stessa da anni, dall’89 diciamo, e tagliamo corto. È come se la Grande Teoria della sinistra vivesse ormai da tempo coltivando l’epica fantasia di un appassionante Romance teologico-politico d’antan, bello e…. impossibile. Nel cielo delle idee (mentre in terra trionfano la Merce, il mercato, il capitale), le categorie del politico restano lì eteree e brillanti, magnetiche e stupende come stelle fisse. Originario, scontato, nostalgicamente rimpianto, insuperabile, resta il paradigma schimittiano, anche a sinistra: schema amico-nemico, stato d’eccezione, decisione sovrana sullo stato d’eccezione e …. ultrapolitica.
Da decenni – con estrema coerenza, questo va detto – Giorgio Agamben ad esempio (potremmo citare anche Roberto Esposito, Mario Tronti, Toni Negri) ha costruito una lettura del presente basata sull’esplosiva fusione di questo epico schema schimmittiano con le suggestioni più estreme di Foucault: microfisica del potere, sorveglianza e punizione, assoggettamento dei corpi, tecnologie del sé, strategie di saperi e controllo, eccetera eccetera. L’abusatissimo concetto di ‘biopolitica’ nasce dentro quest’operazione e limita il nostro sguardo a un orizzonte di parvenze mitologiche sin troppo lineari e astrattamente ‘nobili’, irreali (consolatorie nel loro estremismo ideologico, ingannevoli nelle connessioni cause-effetti, fuorvianti nel simulare un Conflitto metafisico che oscura il conflitto reale, o, peggio, la sua assenza).
Che al momento della Pandemia-Quarantena questo schema sia tornato in auge con tanta sfacciata ingenuità non può e non deve stupire: era scontato. Agamben ha rischiato il ridicolo ma con grande coerenza, e con onestà: a leggere i suoi interventi quella a cui abbiamo assistito è “l’invenzione di un’epidemia”, e c’era un motivo. La politica, creando ad arte uno stato d’eccezione, lanciando l’estremo allarme sulla “nuda vita”, ha potuto ampliare il suo raggio d’azione e controllo bio-politico, coronando finalmente il suo sogno ancestrale, totalitario. “Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite. L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo”.
Alla decisione politica sovrana del lockdown ha risposto un consenso vastissimo e passivo
Il trionfo del mega-spettacolo narcisista? La questione è: come ci siamo arrivati? Come siamo finiti invischiati, irretiti, “intrappolati nella la nostra stessa storia”, e senza capirlo? Psicologicamente, psichicamente, anzi, e socialmente, eravamo preparati, predisposti a uno scenario di confinamento sociale su vasta scala, compensato (in termini, ancora prima che produttivi, esistenziali) dal una second life nello sciame della rete, nel virtuale. Magari è il caso di lasciare da parte lo scenario bio-teologico-politico proprio a partire da quest’esito finale inaspettato: alla decisione politica sovrana del lockdown ha risposto un consenso vastissimo e passivo, l’acquiescenza, un esercizio d’obbedienza impressionante (con l’eccezione di patetiche furbizie, violazioni un po’ sciocche e meschine, ‘scappatelle’). È una situazione ambigua, dovrebbe stupire. L’amico-nemico di Carl Schmitt (per non parlare della sua ‘teoria del partigiano’) sono svaniti come sono svaniti il conflitto, e la lotta (quella hobbesiana dei tutti-contro-tutti, quella marxiana di classe, ma anche la lotta sociale, tout court: tutto è svanito). Come spieghiamo questa situazione, dentro quale altro scenario collochiamo il problema, e ci collochiamo?
La prima, la più ovvia osservazione è che intanto servirebbe un semplice scambio di parole, significati. Il cittadino-obbediente che ha visto nel lockdown una gabbia da poco o forse, sotto sotto, una liberazione, l’alibi perfetto, un’esenzione (da vincoli, relazioni, responsabilità, eccetera, eccetera) già non era più cittadino da un pezzo, semplicemente. L’aveva intuito Schumpeter, negli anni cinquanta. Al cittadino della polis (nel senso dei greci, o di Hannah Arendt) si è sostituito il consumatore dell’ economic democracy attuale, l’unica compatibile (e consentita dal) capitalismo. Ma anche la figura del consumatore assume pose e volti diversi e cambia e si corrompe, si trasforma. Se in termini storici il Novecento è stato davvero un ‘secolo breve’ (dall’89 viviamo dentro la globalizzazione: un’altra vicenda) in termini di antropologia e di inconscio politico la mutazione di cui oggi viviamo-subiamo l’effetto è precedente. La mia impressione è che la farfalla si sia involuta in bruco giusto un attimo prima, in mezzo al guado che c’ha portato dagli anni Settanta agli Ottanta, e di lì al presente.
Non voglio e non saprei proporre una Teoria (neppure so se serva, in fin dei conti) ma suggerirei di toglierci dalla mente l’epopea tragicomica di Schmitt-Foucault-Agamben e confrontarci con testi e stimoli diversi, forse meno avvincenti, certo non epici. Da questo punto di vista i libri (le scenografie politiche) chiave per capire chi siamo (e cosa siamo diventati, come siamo finiti in trappola, irretiti) sono probabilmente La cultura del narcisismo di Christopher Lasch e La società dello spettacolo di Guy Debord (lavori entrambi molto celebri, e molto fraintesi). La mia impressione è che il nostro inconscio politico almeno dagli anni settanta si muova, e sogni senza più fare sogni, dentro questo liquido amniotico vischioso. La perversa saldatura tra “cultura del narcisimso” e “società dello spettacolo” anticipa la non-società-digitale e il disciplinamento della vita quotidiana del presente in modo inquietante.
Il Lasch della “cultura del narcisismo” viene citato e letto per lo più in forma moralistica, accusatoria. La cultura non è un’accusa all’individualismo, all’Io, al vanitoso specchiarsi dell’individuo, né tantomeno è in questione l’innamorarsi di sé, il volersi bene. A metà anni Settanta, quando il sogno di emancipazione e liberazione ribelle di soli dieci anni prima stava appannandosi, Lasch mette da parte ogni geremiade per ripensare chi siamo, chi stavamo diventando “in situazione”. Dal suo punto di vista la fine delle grandi visioni politiche, delle Utopie, la “disgregazione del movimento operaio e del progetto rivoluzionario ad esso collegato” è andata di pari passo – o è stata anticipata sul filo di lana – da un più estremo “cambiamento negli individui”. Si è aperta una stagione diversa, del tutto inedita. È il tempo del ‘narcisismo’, cioè dell’Io minimo, il basso orizzonte che segna la colonizzazione del soggetto, l’esaurimento di ogni schema profondo di “autonomia”. “Quello che abbiamo di fronte non è tanto un individualismo vecchio stampo… quell’individualismo sembra cedere il passo a un ripiegamento in sé stessi” (Lasch). L’esito è uno stallo paralizzante: l’io trionfa e insieme dilegua mentre il mondo esterno, ridotto a puro flusso di merci e consumi, assume “un carattere allucinatorio, fantasmatico, irreale”.
L’impasse non è soltanto politica o sociale. Un’ampia alterazione ha investito il terreno stesso dell’antropologia, il tipo di persone che siamo oppure non siamo, le virtù e le qualità che un individuo può ancora avere o costruirsi. Ai ‘narcisi’ postmoderni Lasch non rimproverava chissà quale ipertrofia dell’ego, piuttosto il contrario, perché il nodo per lui non era tanto l’individualismo ma proprio l’insussistenza ridicola di questi “Io” garruli e autocompiaciuti, drammaticamente senza personalità, e senza carattere. Una nazione e una cultura di “minimal selff”, di borghesi davvero piccoli-piccoli, e di vittimisti. “Il movimento di autocoscienza”, la centralità new age della cura del sé, il culto del privato, il disimpegno hanno generato un mostro freddo: Lasch usa il termine narcisismo per definire “un’invasione sociale del sé”.
Io minimi, consumatori narcisi, anime perse. Debord fornisce lo scenario dentro cui ripensare un’ombra di vita comune per questa soggettività (post)moderna, senza soggetto. In estrema sintesi la Società dello spettacolo va letta come un’immensa variazione sul grande marxiamo dell’alienazione. A partire da questo concetto chiave: la mutazione del reale in simulacri, immagini e… Spettacolo.
Se Lasch evocava il “carattere allucinatorio, fantasmatico e irreale” del mondo esterno, Debord semplifica ancora, radicalizza: “tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione-… lo spettacolo non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo del mondo reale”.
Lo Spettacolo dunque come fase più estrema del capitalismo maturo, dell’Opulenza, un esito dinamico segnato dal trionfo della forma Consumo sulla produzione e dal magico ricatto della (falsa, illusoria) sovranità infinita del consumatore.
Non era il grido di un moralista, o di un esteta. Debord – che forse anche un moralista era, certo, un esteta – nella Società va in cerca di un concetto-totalità capace di spiegare lo sviluppo del “corso del mondo”, lo stato di evoluzione dei rapporti del modo di produzione capitalistico (l’aveva fatto con un’intuizione geniale anche Galbraith qualche anno prima parlando di ‘società opulenta’). Lo Spettacolo dunque come fase più estrema del capitalismo maturo, dell’Opulenza, un esito dinamico segnato dal trionfo della forma Consumo sulla produzione e dal magico ricatto della (falsa, illusoria) sovranità infinita del consumatore. Chi ha letto il concetto di spettacolo in modo “spettacolare” ha mancato il bersaglio, semplicemente. Debord parla ancora di Storia Universale, di Economia, di Modo di Produzione, di Lotta di classe, di Alienazione: “il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare dell’isolamento. L’isolamento fonda la tecnica, e il professo tecnico isola di romando. Dall’automobile alla televisione tutti i bene selezionati dal sistema spettacolare sono anche le sue armi per il consolidamento costante delle condizioni d’isolamento delle folli solitarie”. Il risultato finale è raggelante: nella fase “dell’occupazione totale della vita sociale ogni realtà individuale è divenuta sociale, direttamente dipendente dalla potenza sociale, modellata da questa. Se le è permesso di apparire è soltanto in ciò che essa non è ”.
Altrove, Debord parla molto giustamente di sonno e veglia: “lo spettacolo è il cattivo sogno della società incatenata, che non esprime in definita se non il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno”. È un passaggio politico essenziale. Debord non si pensava come un sociologo, un astratto filosofo , un’analista. Era – voleva essere – il capo di una nuova Internazionale (quella situazionista, naturalmente), il teorico e l’artefice di una rivoluzione, di una svolta. Scrivere, denunciare, parlare: tecniche, sono esercizi di “tecnica del risveglio” avrebbe detto Walter Benjamin, tentativi di svegliare la borghesia assopita dal dormiveglia. Nell’era del capitalismo opulento-spettacolare la novità riguarda riguardava il terreno di scontro, la linea del fronte. Se la colonizzazione spettacolare della vita quotidiana è giunta al culmine la rivoluzione dei situazionisti riguardava la vita quotidiana, in ogni aspetto. “l’organizzazione rivoluzionaria non può essere che la critica unitaria della società, cioè una critica che non scende a patti con nessuna forma di potere separato, una critica globalmente pronunciata contro tutti gli aspetti della vita sociale alienata”. Il metodo situazionista è superare la lotta di classe, le antiche forme di organizzazione politica in una guerriglia sul fronte interminabile della vita quotidiana. Il suo obbiettivo era “distruggere definitivamente la società dello spettacolo”.
Ma in ogni guerra si vince, oppure si perde. Se Debord e i situazionisti avevano avuto ragione era nell’intuizione della posta in gioco. “La vita quotidiana non criticata significa oggi il perdurare delle forme attuali della cultura e della politica… il prossimo tentativo di contestazione del capitalismo sarà inventare e proporre un altro impiego della vita quotidiana e poggerà su nuova pratiche, su nuovi tipi di rapporti umani, progetti di un altro stile di vita, fatto di stile”. Ma se è in questione l’anima dell’uomo, se la ‘radice è l’uomo’, e se è la vita che conta, se il vero nodo sono i rapporti umani, in fin dei conti (chiave di volta peraltro dei Manoscritti di Marx, un testo immenso), la novità è che questo terreno di scontro, e per la prima volta tutto sommato, è molto chiaro anche al Nemico assoluto, al Capitale-Spettacolo-Opulento. In ogni guerra si perde o si vince e questa l’ha vinta il Capitale, semplicemente. Ma d’altra parte, chi poteva combatterla e magari anche vincerla, quella battaglia? Debord lo sapeva, l’aveva detto: “per distruggere definitivamente la società dello spettacolo occorrono degli uomini che mettano in azione una forza pratica”. Quel che non riusciva a cogliere era precisamente il tema su cui avrebbe lavorato Lasch qualche anno dopo. Debord faceva ancora affidamento alla temperie ribelle degli anni Sessanta. Ma i suoi ‘soggetti’ rivoluzionari, gli uomini capaci di volgere la Teoria in Prassi, agire e fare, si sarebbero persi e smarriti alla grande strada facendo. Il 68 preludeva alla recuperation, al rientro nei ranghi; la rivoluzione sta per trasformarsi nel Grande Rifiuto alla Marcuse, nei viaggi in India. Il ribelle diventava un Narciso, e la rivoluzione si mutava in New Age, totale riflusso.
L’altra novità, sta in un delirio caleidoscopio di illusioni e speranze, di falsa coscienza. L’elemento forse più sconvolgente di questa resa dei conti senza scampo, sta nel fatto banale che il Capitale Spettacolo vince come Spettacolo Perfetto, creando autoinganno. Il consumatore-narciso-spettacolare non si vede sconfitto, ma trionfante; la sua disfatta viene vissuta con gioia, come un successo. La natura spettacolare sta qui, in questo gioco di specchi estremo, allucinante. La massima oppressione viene goduta con soddisfazione, gioia consumista, appagamento (basterebbe penare quanto ci possano sembrare oggi patetici gli oggetti-consumo evocati da Debord negli anni Sessanta messi a confronti con la Merce-Magia del digitale basterebbe paragonare la 600 fiat, la topolino con le fila infinite in occasione dell’uscita dell’ultimo Iphone, e qui più che un Debord ci vorrebbe, magari…Roland Barthes).
La profezia azzeccata di Debord era – in sostanza – anche un progetto fallito di rivoluzione. Se reinvenzione della vita quotidiana era pensata come un possibile proseguimento della rivoluzione, potremmo dire che oggi ha vinto (e sembrerebbe per sempre) la Reazione. Solo che ha vinto proprio su quel terreno, ed è una sciagura. Oggi centralità della vita quotidiana nell’ordine del discorso del potere è assolutamente l’espressione di una Reazione (spettacolare) che pretende finalmente di disciplinare ogni aspetto e interstizio e pulsione e passione dell’esistenza normale, quotidiana. Il Potere-Spettacolo oggi virtualmente governa (è una questione, qui torna utile Foucault, esattamente di ‘governamentalita’, di tutela ‘pastorale’ dell’esistenza pubblica e privata) ogni aspetto della vita quotidiana proprio avvalendosi dei suoi prodotti di punta – il digitale – che sono assieme Merci e strumenti di relazione sociale (che oggi si esprime al suo meglio come ‘distanza’) e di controllo. Con l’aggiunta essenziale, che l’oppressione stessa ci appare irreale, fantasmatica tanto che persino l’enormità attuale di un confino di massa planetario la possiamo subire senza neppure crederci, patirla, perché al fondo ci sembra uno show, un grande…. Spettacolo. Per questo sentir parlare di Nuova Normalità fa rabbrividire. L’era del Grande Collaudo pandemico coincide con l’ultima, definitiva presa del potere del Capitale-Spettacolo che finalmente, sbandierando il pericolo (reale) del virus può coronare il vecchio sogno di liquidare i fragili cardini illuministici del moderno: Eguaglianza e Fratellanza sono già sotto attacco da troppo tempo; oggi in nome della salute (pubblica) e della sicurezza il Capitale può finalmente gettare via anche la maschera vigliacca del liberismo e dire addio una volta per tutte anche alla Libertà. È il trionfo del Mega-Spettacolo-Narciso.