La disfatta della prevenzione. Alcune testimonianze

Mano a mano che la situazione sanitaria si uniforma, almeno sul piano delle procedure in emergenza, gli operatori, attraverso l’incessante scambio di informazioni pratiche, imparano come trattare i pazienti con sindrome Covid-19 nelle diverse condizioni di gravità. Il problema è anche come contenere il contagio, oltre che fornire assistenza vitale per un quinto di loro. Sta emergendo la disfatta delle strutture di cura e di protezione sanitaria a partire dalla mancata prevenzione e dalla sottovalutazione del pericolo del coronavirus di cui siamo responsabili in tanti. La débâcle è visibile già nell’informazione mal gestita e confusa su scala internazionale. In Italia se ne occupa la Protezione civile con i dirigenti del Sistema sanitario nazionale e dell’Istituto superiore di sanità, che hanno commentato a lungo i dati di contagi, ospedalizzazioni, mortalità e guarigioni senza spiegarne le incongruenze e senza soffermarsi sul loro valore relativo a seconda delle modalità di conteggio.
A livello regionale va peggio. Non sono le competenze mediche ciò che ha portato l’avvocato Giulio Gallera, fondatore di Forza Italia ed esperto di diritto societario, al vertice della sanità (welfare) in Lombardia o il pluri-indagato e pluri-dirigente ingegner Domenico Pallaria, alla presidenza della protezione civile in Calabria – dimissionario, dopo aver ammesso in un’intervista televisiva (Report: il paziente zero, 30 marzo 2020) di non essersi mai occupato di attrezzature sanitarie e di non sapere cosa fossero i ventilatori polmonari.
I numeri di una pandemia di tale portata sono complessi ma c’è il timore che l’incompletezza informativa sia funzionale alla volontà di uscirne comunque al più presto. I responsabili della comunicazione parlavano di un modello italiano mentre la stampa internazionale definiva il nostro quadro gravemente preoccupante (“The Lancet”, 13 marzo), devastante (Radio France Inter-Rfi, 16 marzo), tragico (“The New York Times”, 21 marzo). Il virus era già fra noi a gennaio. Il ritardo nella sua identificazione è stato fatale. Le perdite di vite sono già oltre ogni capacità di raffigurazione non numerica: sopra 25mila, saranno forse 40mila o più. Un bilancio si farà su base statistica confrontando i dati di mortalità dei referti epidemiologici comunali (Rec) e dei registri nominativi sulle cause di morte (Rencam) redatti su scala provinciale o regionale. Da aprile ci sono i primi confronti: “L’eco di Bergamo” ha contato i decessi in provincia nelle prime tre settimane di marzo 2020: 5.400 persone. 4.500 in più rispetto allo stesso periodo del 2019, più del doppio rispetto ai 2.060 ufficialmente ricondotti alla pandemia negli ospedali bergamaschi. Molti erano anziani deceduti in casa o nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) mai sottoposti a tampone. Secondo l’anagrafe di Palazzo Broletto a Brescia, i decessi sono triplicati. Una nota Istat (1 aprile) afferma che nei primi 21 giorni di marzo 2020 in 1.084 comuni del Nord i decessi sono raddoppiati rispetto alla media 2015-2019.
Nelle case di cura per anziani (Rsa) si sono avute situazioni drammatiche per carenza di precauzioni aggravate dall’estrema fragilità dei ricoverati; le procure di Milano, Novara e Trieste hanno aperto indagini per “epidemia e omicidio colposi” in diverse strutture dopo la denuncia di episodi di censura e di grave sottovalutazione dei rischi. Il decreto Cura Italia del 17 marzo 2020 ha concesso gli arresti domiciliari ai condannati che devono scontare ancora fino a 18 mesi di pena, ma non ci sono dati sulla situazione nelle carceri nonostante le proteste delle guardie e degli operatori e le rivolte di inizio marzo costate la vita di tredici reclusi di cui si è persa traccia e nonostante i decessi già accertati di alcuni detenuti e almeno un medico e un agente penitenziario. Neppure è nota nei dettagli la situazione certamente difficile nei centri di reclusione dei migranti mentre riprendono i tentativi di traversata del Mediterraneo, nonostante la chiusura dei porti dichiarati da Libia, Italia e Malta insicuri a causa della pandemia per l’attracco di navi delle Ong colme di naufraghi.
In attesa di un calo del contagio, che tarda a venire, il vaglio delle misure da attuare appena possibile per recuperare e ridefinire gli obiettivi di prevenzione non può prescindere dalle esperienze che stanno maturando di operatori sanitari, lavoratori e cittadini (Enzo Ferrara).
Gli operatori sanitari
Quasi l’1% dei decessi per Covid-19 in Italia è costituito da operatori sociosanitari estremamente e anche assurdamente esposti al contagio. Anche moltissimi pazienti si sono contagiati in ospedale.
Paolo Fierro (medico ospedaliero, Napoli): la retorica degli eroi in prima linea nasconde l’evoluzione, o meglio l’involuzione, degli eventi che hanno contribuito alla situazione che ci troviamo di fronte e non valorizza l’elemento di civiltà dell’assistenza sanitaria pubblica ottenuta, come non era scontato, con le lotte negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Si è fatto di tutto per ridurre la percezione della portata di quel traguardo. In questi giorni scontiamo anche i risultati delle politiche di riduzione della sanità pubblica, la riduzione dei posti letto, del personale e quindi delle prestazione e della copertura assistenziale della popolazione. Anche se forse la cosa più grave è stata il venire meno della cultura assistenziale, tutti elementi le cui carenze emergono in questa pandemia. Il personale sanitario è stato aiutato dalla popolazione, dalla comunità cinese, da piccole aziende che hanno prodotto in maniera artigianale mascherine, occhiali, tute, in attesa che la direzione centrale le fornisse, assieme ai tamponi.
Mentre i governatori si vantavano per la riduzione dei posti letto disponibili in terapia intensiva – dai circa 5 per mille degli anni Ottanta ai 2.9 per mille attuali, contro gli 8 per mille della Germania – la Consulta popolare della Città di Napoli, che affianca l’istituzione comunale come osservatorio degli indicatori di salute della popolazione, denunciava l’avanzare della mortalità evitabile, che è un concetto semplice: se la sanità funziona offrendo garanzie di assistenza di qualità il dato di mortalità si allinea alle media nazionali. Se invece il dato statistico della mortalità è maggiore, significa innanzitutto che la sanità non funziona. Questo è successo nelle zone più povere di Napoli e in tutto il Sud Italia.
Non mi stupisce che una percentuale altissima del personale sanitario risulti positiva ai test per il coronavirus. L’impressione che abbiamo in tanti e che non è nemmeno considerata in molte sedi, vista la condizione dell’ambiente, è che questo probabilmente è solo l’inizio. È matematico che avremo a che fare con patologie che non conosciamo e contro le quali dobbiamo prepararci, ma non possiamo solo correre dietro l’emergenza. Gli ospedali da campo non sono una soluzione valida sempre.
Marco Caldiroli (tecnico della sicurezza, Milano): il 17 marzo l’Inail ha emesso una nota in cui precisa che i dipendenti delle strutture sanitarie pubbliche e private che risultano positivi al virus sono sotto la “tutela Inail” in particolare se ciò determina la “quarantena”. Viene infatti riconosciuto che “il contagio (…) si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni”. La Covid-19 è quindi un rischio riconosciuto come malattia professionale o infortunio. Gli operatori sanitari che sono deceduti o che hanno avuto danni a seguito di contagio lo sono per causa lavorativa e il datore di lavoro è tenuto alla denuncia di infortunio.
Non era scontato, anche se è palese che l’ambito sanitario espone gli operatori a rischi biologici e il coronavirus è un agente biologico di categoria 2, su una scala di 4, secondo il d.lgs. 626/94. Va considerato, inoltre, che inadeguatezze organizzative e assenza o inidoneità di dispositivi di protezione individuali nelle strutture sanitarie configurano ipotesi di violazioni alle norme di sicurezza sul lavoro. Finita l’attuale fase emergenziale si dovrà cambiare nettamente registro, ovvero sarà bene che si rispettino le norme sul serio e non solo formalmente.
In Francia il 21 marzo seicento medici hanno costituito il Comitato 19 e tre di loro a nome di tutti hanno denunciato il primo ministro Edouard Philippe e l’ex ministro della Sanità Agnès Buzyn per aver alimentato una “menzogna di Stato” sulla Covid-19 ritardando l’adozione di tutte le misure necessarie per tempo, compresa la raccolta e distribuzione di mascherine e tamponi che i medici avrebbero voluto poter utilizzare prima che la Covid-19 fosse tangibile anche oltralpe. Ricordano anche la frase che un medico dell’ospedale Pitié-Salpêtrière di Parigi aveva rivolto a Emmanuel Macron già la mattina del 27 febbraio scorso durante una sua visita ufficiale: “Signor presidente, lei può contare su di noi, ma l’inverso resta da provare”.
La popolazione
Un autista del pronto soccorso di Bergamo deceduto il 13 marzo è stato il primo caso di “morte sul lavoro” in Italia causata dalla pandemia, riconosciuto dall’Inail grazie al decreto-legge Cura Italia.
Stanislao Loria (medico del lavoro, Napoli): ero in pensione, da una settimana ho ripreso servizio alla Asl Napoli-1 accettando l’invito a rientrare. Mi hanno coinvolto nella organizzazione della Usca (Unità speciale continuità assistenziale) e in particolare sulla effettuazione dei tamponi a domicilio della Covid-19 e dei sospetti contagiati. Mi sono occupato della formazione dei medici incaricati dei tamponi, delle modalità di vestizione e svestizione in sicurezza. Una volta partita la missione ho preferito interessarmi della sorveglianza sanitaria attiva dei soggetti in isolamento domiciliare e dei sintomatici segnalati dai medici di base, per provare, visto che l’effettuazione dei tamponi da parte della Asl è appena iniziata e le richieste sono moltissime, a filtrare, tra i richiedenti il tampone, quelli per cui è necessario l’accertamento. È un lavoro che, naturalmente, facciamo per telefono e già sto notando, dopo solo due giorni, che il solo ricevere una telefonata e la promessa di successive telefonate, oltre a essere di conforto, è curativo e tranquillizzante per tante persone.
Probabilmente questa sorveglianza sanitaria attiva, oltre che una misura importante per provare a gestire l’emergenza epidemica, è l’occasione per ricucire la fiducia delle persone nel Ssn. Ce n’è bisogno e anche di buona informazione. A Napoli il 31 marzo “Il Mattino” ha pubblicato “la mappa del contagio” da coronavirus in città, affermando di fatto che il Vomero, Chiaia e l’Arenella sarebbero il focolaio dell’epidemia. Questo dato non è collegabile con la circolazione effettiva del virus né con la situazione reale del contagio, perché deriva semplicemente dal risultato di tutti i tamponi effettuati dall’inizio della epidemia e non da uno studio campionario su gruppi di popolazione rappresentativi dei quartieri di Napoli. Non solo non può avere il valore che gli si attribuisce ma addirittura indica il contrario e cioè che nei quartieri citati, quelli a più alto livello socio economico secondo il censimento del 2011, l’accesso ai servizi sanitari (uno dei principali indicatori di benessere socio economico) è più agevole e quindi ha favorito l’effettuazione di un maggior numero di tamponi nella fase iniziale dell’epidemia.
Sul Mattino si vuol fare passare la tesi che il supposto maggior contagio in quei quartieri è causato dalla loro alta socialità, all’origine di maggiori occasioni di contagio e si arriva a sostenere anche che la movida è evento rischioso, non considerando che è molto più rischioso il lavorare otto ore in fabbrica in condizioni precarie sia di aerazione che di igiene come lo è il pendolarismo su autobus e metropolitane affollate.
L’alta letalità del coronavirus in Italia induce piuttosto a riflettere sul dato svelato dal Rec che, elaborato dalla Consulta Popolare per la Salute e la Sanità di Napoli, ha dimostrato una mortalità generale maggiore nei quartieri più svantaggiati dal punto di vista socio economico. Proprio quelli che, secondo l’articolo de “Il Mattino” avrebbero una minore circolazione del virus. Purtroppo ci aspettiamo di ritrovare gli effetti del contagio nella mortalità generale della popolazione che, è facile prevederlo, saranno più pesanti nei quartieri socialmente ed economicamente svantaggiati.
Vittorio Agnoletto (medico, Milano): conduco una rubrica radiofonica sulla salute, “37e2” su Radio Popolare, uno spazio a disposizione dei cittadini sui temi della Sanità. Cerchiamo di rispondere alle loro domande che riceviamo via email o sui social. Vista la situazione come Medicina Democratica abbiamo realizzato un “Osservatorio Coronavirus” per rispondere alle tante richieste ricevute dagli operatori sanitari e per fornire informazioni verificate ai moltissimi cittadini privi di altri punti di riferimento e spesso in balia di fake news. I quesiti riguardano ambiti diversi: le caratteristiche, le modalità di trasmissione e i tempi di sopravvivenza del virus; l’evoluzione e le diverse fasi della malattia, gli asintomatici, le terapie disponibili, i tempi della ricerca; le precauzioni, i comportamenti a rischio; la continua evoluzione della normativa, la possibilità di effettuare il tampone, il rapporto coi numeri verdi dedicati al Coronavirus; la possibilità/impossibilità di fare visite, esami e interventi precedentemente previsti per altre patologie e improvvisamente cancellati.
Fra gli obiettivi vi è la raccolta di segnalazioni di situazioni critiche e/o di mancato rispetto dei diritti sanciti dalle leggi per sollecitare le istituzioni e le autorità competenti a non abdicare al proprio ruolo e alla propria responsabilità nemmeno in un periodo di emergenza quale quello attuale, come l’impossibilità di avere notizie di un parente ricoverato in ospedale o in Rsa, difficoltà nell’eseguire una visita o una terapia già avviata ad esempio una chemioterapia, segnalazione di situazioni lavorative ad alto rischio, che si svolgono in condizioni nelle quali non viene tutelata la sicurezza, segnalazioni di condizioni di solitudine, abbandono, non autosufficienza verificatesi in seguito alle conseguenze dell’emergenza (persone anziane, disabili, minori, detenuti), improvvise condizioni di fragilità/incertezza a seguito di chiusura di uffici, interruzione di pubblici servizi (rinnovo permesso di soggiorno per gli immigrati, benefici Inps e Inail, eccetera).
A questo si aggiunge la necessità di garantire un supporto psicologico alle condizioni di stress dovute alle conseguenze dell’emergenza, come l’incertezza del futuro, improvvise obbligate separazioni familiari dovute a periodi di quarantena o a impossibilità di ricongiungimento, gestione del lutto e della “sindrome del sopravvissuto”.
L’osservatorio non esaurisce la sua attività nella gestione della fase d’emergenza, ma intende anche utilizzare il materiale raccolto e le esperienze attraversate in questi mesi, per contribuire al dibattito che dovrà aprirsi, conclusa la vicenda Coronavirus, sul futuro del Servizio sanitario, sulla sua organizzazione e sulle sue priorità. È fondamentale una ricerca sul campo con la raccolta di dati sia soggettivi (testimonianze personali) che oggettivi (numeri e caratteristiche delle strutture sanitarie, loro evoluzione nel tempo) per comprendere i limiti manifestatisi nel Servizio sanitario lombardo, tra pubblico e privato.
Per citare solo alcune “voci” sotto osservazione: la gestione della “finestra di opportunità” dall’individuazione del virus in Cina alla sua comparsa in Italia; il ruolo dei servizi di prevenzione delle Asl e della gestione delle campagne informative; i Mmg, Medici di Medicina generale, le loro potenzialità, come e se sono state utilizzate; la disponibilità dei posti letto ospedalieri, il ruolo dei Pronto Soccorso, le condizioni dei dipartimenti d’emergenza, il rapporto pubblico-privato nella gestione dell’emergenza.
I lavoratori
Sono a rischio tutti i lavoratori costretti a spostarsi sui mezzi pubblici e fra questi moltissimi sono a rischio anche nei luoghi di lavoro, come gli addetti alle pulizie negli ospedali, i commessi dei centri commerciali e degli uffici postali, gli agenti di polizia, i militari e tanti altri.
Marco Caldiroli: la crisi pandemica ha fatto emergere anche un’altra debolezza: quasi tutte le imprese si sono trovate spiazzate dalla necessità di dotarsi di elementari Dpi: le mascherine per esempio. Senza entrare nel merito sulle diverse tipologie ed efficacia quello che sorprende è la loro assenza in troppe realtà. È chiaro che vanno privilegiati i sistemi di protezione collettiva e tutto quanto fa prevenzione, – aggiunge ancora Caldiroli – i Dpi sono utili esclusivamente per i rischi residui non proteggibili altrimenti. Ma questi rischi, anche in forme limitate o saltuarie, sono presenti in quasi tutte le aziende con attività industriali e artigianali. L’assenza o carenza delle mascherine denota la mancata attuazione di alcuni obblighi di base delle norme di sicurezza e dà conto di quanto poco sia stata efficace l’azione dei lavoratori e delle loro rappresentanze sulla attuazione dei loro diritti.
Sono circolati volantini e appelli sindacali intitolati “prima di tutto la salute” per richiedere interventi di tutela e/o per fermare le produzioni non essenziali, ma anche prima della pandemia, nei luoghi di lavoro, questo principio doveva valere ed essere preteso a gran voce. La richiesta della modifica dei cicli produttivi eliminando per esempio le sostanze cancerogene dovrebbe essere in cima alle priorità, invece è di pochi mesi fa una campagna dei sindacati europei per fissare dei limiti di esposizione a cancerogeni, anziché sulle modalità di fuoriuscita da tali produzioni/impieghi. La strage dovuta alla esposizione all’amianto non è stata una lezione sufficiente.
Una lezione meno prevedibile è quella dell’esposizione ad agenti biologici in situazioni ove questi non sono né prodotti né utilizzati. È chiaro che in una azienda metalmeccanica non si utilizzano batteri o virus che invece possono essere utilizzati in aziende biotecnologiche, farmaceutiche ed essere presenti negli ospedali: non ci si aspetta che l’attività determini questa esposizione. A dire il vero, rimanendo alle aziende metalmeccaniche, qualche rischio esiste, ad esempio il mancato rinnovo dei fluidi lubro-refrigeranti può farli diventare brodo di coltura di batteri ed esporre i lavoratori tramite le nebbie oleose (se non captate idoneamente). Queste situazioni devono essere considerate nei “documenti di valutazione di rischio” e sono agevolmente riducibili. Meno naturale è considerare il rischio biologico esterno. Questo rischio trova posto nei piani di emergenza (che devono avere tutte le attività). Oltre a eventi connessi all’attività (infortuni, incendi, sversamenti di sostanze pericolose eccetera) vanno infatti anche considerati quelli esterni (alluvioni, terremoti, esplosioni dovute all’azienda vicina eccetera). Tra questi ultimi dovrà essere previsto, da ora in poi, anche il rischio pandemico per non farsi cogliere impreparati come oggi.
E l’aumento dei controlli tanto invocato a ogni infortunio mortale dov’è finito? Dove sono finiti i tecnici della prevenzione: in smartworking forzato o nei call center. È quello che succede in Lombardia e in Piemonte, ove è garantito solo l’intervento in caso di infortuni gravi. Chi obietta è preso per mentecatto e untore con tendenze suicide. In Veneto, almeno, è previsto l’utilizzo degli operatori per controlli a campione nelle aziende attive: i lavoratori costretti a operare nelle condizioni attuali hanno bisogno di più vigilanza, non di meno. Il tutto nel rispetto della sicurezza dei tecnici ed elaborando specifici protocolli di intervento utili anche alle aziende. Si è facili profeti affermando che le scelte di allontanamento coatto dei tecnici dall’intervento nelle aziende rinvigorirà le iniziative già in essere per lo smantellamento dei servizi di vigilanza a favore di controlli solo formali. Visto che, nel momento di maggior bisogno, i servizi di controllo sono latitanti allora non sono così indispensabili nella normalità. Ma abbiamo imparato che era la normalità il problema è che occorre una sanità pubblica partecipata per superare l’attuale situazione: la si otterrà solo unendo nuovamente le forze anche per l’affermazione piena del diritto alla salute nei luoghi di lavoro.