La cucina di Abdul e il decreto Cutro

Un metro e sessantotto. Prima di andare all’Ikea a scegliere la sua cucina Abdul ha misurato la lunghezza della parete che ospiterà il top di finto legno impermeabile, i fornelli, il lavandino. Ha rilevato le distanze tra le prese elettriche e lo scarico dell’acqua. C’è poco spazio nell’angusto cucinotto che insieme all’ampia sala-camera da letto compone il bilocale che il giovane ghanese emigrato in Italia è riuscito a prendere in affitto. Eppure l’idea di avere una casa per sé con una cucina componibile è un miraggio, il compimento di un miracolo. Un prodigio costato circa duemila euro, la metà dei quali arrivati come sostegno all’uscita dal programma di accoglienza Sai per migranti richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, ma per Abdul è un ottimo investimento.
“Quando andrò via da questa casa – dice mentre viaggia verso il negozio di mobili con l’operatore della cooperativa che gestisce l’accoglienza – potrò portare con me la cucina oppure la impacchetto e la mando in Ghana. Farei felice la mia famiglia, avere una cucina come le case italiane è segno di benessere.”
Nel secondo decennio degli anni Duemila, il paese subsahariano veniva considerato tra le economie mondiali emergenti facendo registrare una crescita dell’8,3% nel 2012 e del 7,7% nel 2013, grazie soprattutto allo sfruttamento di materie prime come petrolio, oro e cacao, di cui è ricco. Come spesso accade quando un paese del Sud globale in crescita economica si affaccia alla tavola dei grandi del mondo, il riverbero sociale interno è la nascita e il consolidamento di una classe media ben disposta all’aumento dei consumi. In parallelo, una crescita altrettanto robusta dell’inflazione e il dilagare della corruzione che hanno favorito l’intensificarsi delle fratture sociali. Il Ghana non si è sottratto a questo schema. Dal 2017, quando sono saliti al governo Akufo-Addo e il suo partito Npp (New patriottic party), la situazione è peggiorata, anche a causa dell’impatto del covid19 e della guerra russo-ucraina sull’economia. Akufo-Addo è stato rieletto nel 2020; per ora il suo mandato verrà ricordato per la nomina di 110 ministri nel primo governo e per la folle perseveranza con cui persegue l’obiettivo di costruire una faraonica cattedrale cristiana da 5000 posti (i ghanesi sono al 70% cristiani) dal costo miliardario, insostenibile per un’economia nazionale ormai in crisi.
Ciò nonostante, la capitale Accra si presenta come un città giovane e vivace, il luogo della “possibilità” per chi abbia inventiva e un’istruzione adeguata. La classe media, appunto, quella che secondo Abdul farebbe follie per una cucina Ikea e per riuscire a pavimentare con piastrelle italiane la propria casa. A quanto pare i ghanesi in patria e quelli della diaspora europea sono accomunati dalla stessa rappresentazione dell’idea di successo e molto spesso la sua realizzazione ha la stessa fonte: i risparmi dei migranti che diventano rimesse per le famiglie in Africa.
Il cammino di Abdul è cominciato nel 2016, se vogliamo considerare come punto di partenza il suo approdo a Lampedusa. Per collocare nel tempo la sua partenza da casa bisogna andare indietro di un anno circa, quando è stato costretto da faide familiari a lasciare il suo paese e intraprendere un viaggio, del tutto improvvisato, verso un ignoto chiamato Europa. Il racconto del viaggio è il lato oscuro della biografia di ogni migrante arrivato dall’Africa subsahariana in Italia negli ultimi dodici anni, da quando la drastica riduzione del numero di ingressi consentiti dal decreto flussi (dal 2011 non ha mai superato le 60.000 unità) ha reso possibile l’approdo solo in condizioni di emergenza e con conseguente richiesta di asilo politico. L’attraversamento del deserto del Niger, la cattura da parte dei trafficanti libici, la detenzione e i lavori forzati in Libia, il viaggio sui barconi sovraffollati sono le esperienze traumatiche che segnano il corpo e la psiche della totalità dei migranti che chiedono protezione internazionale una volta sbarcati sulle coste italiane. Questa è la condizione in cui si presentano non al traguardo, ma al nastro di partenza della drammatica corsa a ostacoli al termine della quale i più forti o più fortunati conquisteranno opportunità di vita.
Dopo Lampedusa, Abdul è arrivato a Bologna. Ha conosciuto l’accoglienza all’interno di un Cas (Centro di accoglienza straordinario), le strutture emergenziali sorte come funghi a volte grazie alla riconversione, spesso inadeguata, di alberghi, scuole o altro genere di grandi edifici. Nei casi più virtuosi, come quello bolognese, gli enti gestori hanno prediletto strutture piccole se non accoglienze diffuse in appartamenti, sulla falsariga del modello ex Sprar (poi Siproimi, oggi Sai). Ed è proprio in un appartamento del programma Sai (Sistema accoglienza e integrazione) che Abdul ha vissuto fino all’uscita dal progetto.
Il percorso di Abdul si può definire esemplare. A meno di un anno dall’ingresso in accoglienza ha preso il diploma di terza media al Cpia (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti), ha frequentato un corso di italiano per stranieri organizzato da una delle tante associazioni interculturali bolognesi e si è impegnato in corsi di formazione professionale. Abdul ha acquisito competenze come elettricista specializzato nell’impianto di pannelli solari, ha preso l’attestato Haccp, quello che consente di lavorare nella ristorazione, ha imparato a lavorare sui cantieri delle ristrutturazioni che hanno rivestito di cappotti termici buona parte degli edifici italiani, grazie a uno dei tanti corsi opportunamente organizzati da vari enti di formazione.
Il curriculum vitae del giovane ghanese si è arricchito di esperienze formative fino all’entrata in vigore del Decreto Sicurezza voluto dall’allora ministro degli Interni Matteo Salvini. In quel momento Abdul aveva già sostenuto l’audizione presso la Commissione territoriale (articolazione locale della Commissione nazionale, emissione del ministero degli Interni preposta alla valutazione delle motivazioni di richiesta di asilo politico) dalla quale aveva ricevuto responso negativo. A questo diniego aveva fatto ricorso ed era in attesa dell’udienza davanti a un giudice di un tribunale ordinario. A tutti gli effetti rientrava nella categoria dei richiedenti asilo. Una delle novità introdotte dal decreto salviniano è stata la limitazione dell’accoglienza in Sai (la legge ha cambiato anche il nome del programma passando da Sprar a Siproimi, oggi Sai) ai soli titolari di protezione, cioè ai migranti ai quali la Commissione o, dopo il ricorso, un giudice ha riconosciuto una protezione internazionale o l’asilo politico.
Per avere un’idea della platea di persone coinvolte da queste modifiche bisogna considerare che alla fine del 2017 in Italia erano ospitati in strutture di accoglienza 183.681 tra richiedenti asilo e rifugiati e nell’anno successiva sono state 60.000 le richieste di asilo respinte. Secondo il Decreto Sicurezza i richiedenti asilo non ancora ascoltati in commissione o ricorrenti avrebbero dovuto lasciare l’accoglienza Sprar, o Siproimi, per i Cas nei quali li attendeva un’erogazione di servizi fortemente ridotta e orientata esclusivamente alla sicurezza e alla tutela sanitaria. In particolare venivano tagliati i fondi per la cosiddetta “integrazione”, voce nella quale rientrano sia la formazione professionale sia ogni altra forma di attività sociale, dallo sport alle manifestazioni culturali o ai viaggi. Questo passaggio ai Cas (in molti caso un ritorno) nella realtà si è concretizzato raramente a causa dell’assenza di un numero di strutture sufficienti. In molti casi, quindi, i migranti accolti in appartamenti o strutture Sprar sono restati nella stessa sede, ma con livelli di accoglienza differenti: per semplificare una realtà decisamente contorta bisogna pensare a una casa in cui convivono richiedenti asilo e titolari di protezioni, ma i primi hanno diritto a benefici minori dei secondi. Per semplificare ulteriormente, Abdul, richiedente, non può frequentare lo stesso corso da pizzaiolo del suo connazionale che vanta un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, pur vivendo sotto lo stesso tetto.
Nell’estate del 2019, Salvini inciampa sui “pieni poteri” al Papeete e il primo governo Conte cade. La nuova ministra dell’Interno Luciana Lamorgese annuncia di voler mettere mano alla legge sull’immigrazione, lo fa reintroducendo di fatto la “protezione umanitaria” sotto la dicitura di “casi speciali”. E non è poca cosa dato che quel tipo di permesso di soggiorno consente a un grande numero di richiedenti di regolarizzarsi. Resta invariata però la norma sui fondi per l’integrazione. La differenza tra accolti permane tuttora.
Abdul intanto aspetta più di due anni per essere ascoltato da un giudice e ancora un anno per la sentenza, ma la sua perseveranza viene premiata. Nel 2022, sei anni dopo il suo ingresso in Italia, il percorso legale si conclude con un permesso di soggiorno per casi speciali della durata di due anni, convertibile in permesso per lavoro. La chimera di ogni migrante che, arrivato in Italia, ha fatto richiesta di protezione internazionale.
A questo punto ha diritto ancora a sei mesi di accoglienza in Sai (ex Sprar ex Siproimi) durante i quali riacquisterà l’accesso anche alle attività di integrazione. Troppo tardi. Abdul, grazie alla sua intraprendenza, è già “integrato”: parla italiano in modo più che accettabile, vanta qualche attestato di formazione professionale e ha alle spalle un paio d’anni almeno di attività lavorativa in vari campi, seppur saltuaria. Resta lo scoglio della casa, quello più duro insieme agli agognati documenti. Abdul si butta a capofitto nelle pagine di annunci immobiliari dei social network. Telefona e chiede appuntamenti. Nonostante il buon italiano, il suo accento è inequivocabile, non riesce neanche a superare la selezione telefonica. È straniero, alcuni proprietari si inventano scuse fantasiose, altri si trincerano dietro “la richiamo io”, altri ancora dichiarano con coerenza il loro razzismo dicendo che non affittano agli extracomunitari. Il mercato immobiliare bolognese degli affitti è fortemente drogato dall’aumento esponenziale del turismo in città, che ha spinto tanti proprietari a optare per gli affitti brevi (secondo l’osservatorio insideairbnb.com attualmente sono poco meno di 2994 gli interi appartamenti disponibili per i turisti e poco oltre 1000 le stanze singole). Se per studenti e lavoratori fuori sede trovare casa è un’impresa titanica, per un lavoratore migrante è di fatto impossibile.
Abdul non è un miracolato. Grazie a un parente che lo ha preceduto di una decina d’anni nella migrazione e ha messo radici in una città del nord Italia, ha potuto fornire le garanzie economiche necessarie per partecipare a un bando pubblico dell’Azienda servizi alla persona del Comune di Bologna che mette all’asta appartamenti in affitto una o due volte all’anno. I requisiti di accesso sono stringenti. Per partecipare è necessario un contratto di lavoro a tempo indeterminato, requisito che taglia fuori la maggioranza dei lavoratori migranti che, soprattutto in seguito alla pandemia, sono occupati con contratti a chiamata nel settore della logistica. La stessa condizione che vive Abdul costretto quindi a optare per la garanzia alternativa: il deposito bancario di un anno d’affitto. In ogni caso ce l’ha fatta. invitando a mangiare a casa sua i suoi amici. È finito da poco il Ramadan e ha festeggiato l’El Aid. Il suo nuovo forno assemblato nella cucina della multinazionale svedese ha cotto un agnello. Un privilegio non da poco.
Qualche settimana prima, sulle spiagge calabresi si è consumata una delle più gravi tragedie dell’immigrazione in Italia. Le coscienze dei telespettatori italiani sono state turbate dalle immagini del naufragio che ha ucciso oltre 100 persone e segnato la vita degli 80 sopravvissuti. Il governo presieduto da Giorgia Meloni, chiamato in causa per un presunto ritardo nell’intervento di salvataggio, ha risposto con una nuova rivisitazione della legge sull’immigrazione che, ancora una volta, interviene sull’accoglienza dei richiedenti asilo. Con una fastidiosa nota macabra, l’hanno battezzato Decreto Cutro, dal nome della spiaggia diventata cimitero di migranti. Come in uno spietato gioco dell’oca, si tornerà indietro di qualche anno, alla cancellazione della protezione umanitaria e al conseguente calo delle regolarizzazioni di migranti. Arrivare alla casella finale, quella che vede il passaggio da oggetto di assistenza a soggetto attivo titolare di diritti e doveri, sarà molto più complicato. Torneranno ad affollarsi le caselle grigie, quelle dell’illegalità, dove stazionano, per esempio, i braccianti sfruttati nelle campagne da nord a sud del Paese.