La crisi ambientale, la scienza e i nativi climatici
di Telmo Pievani
incontro con Mimmo Perrotta
Telmo Pievani, evoluzionista e filosofo della scienza, docente all’Università di Padova, è oggi uno dei migliori divulgatori e comunicatori della scienza in Italia. Lo abbiamo incontrato per parlare del suo libro La Terra dopo di noi (Contrasto 2019, con le fotografie di Frans Lanting) e, più in generale, della crisi ecologica in atto e di cosa ci aspetta nel prossimo futuro.
Come valuti gli esiti della Cop25, la Conferenza sul cambiamento climatico organizzata dall’Onu in dicembre a Madrid?
È andata molto male, perché si sono rinnovati i veti incrociati e quegli equilibri geopolitici che stanno rallentando le iniziative per contrastare il climate change e in generale la crisi ambientale. È importante ricordare che è fallita per responsabilità precise, per colpa di alcuni paesi: gli Stati Uniti, l’Australia, l’Arabia Saudita, il Giappone e il Brasile. Sarà necessario ricordare queste responsabilità quando il processo di crisi ambientale accelererà. Nelle ultime settimane molti esperti di riscaldamento climatico e rappresentanti dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) hanno anticipato che i rapporti che verranno pubblicati nel 2020 saranno peggiorativi, perché adesso si stanno cominciando a vedere le interazioni moltiplicative tra i vari processi. La fusione dei ghiacci, gli incendi in Amazzonia e in Siberia, ad esempio, sono fenomeni che interagiscono negativamente con altri e accelereranno il processo. Molti esponenti dell’Ipcc sostengono che i due gradi di riscaldamento climatico entro la metà del secolo ormai siano inevitabili, anche se dovessimo comportarci nel modo più virtuoso possibile fin da subito, il che comunque non succederà. Due gradi è una media complessiva: sulle terre emerse ci sarà un riscaldamento maggiore. Due gradi per intenderci vuol dire la fusione quasi completa della calotta artica. I biologi marini stanno per dichiarare che il Mediterraneo è diventato un mare neotropicale; il riscaldamento del Mediterraneo porta a un’estinzione di specie molto forte, al successo di poche specie invasive, e all’intensificazione di fenomeni meteorologici estremi, perché un mare così caldo diventa un serbatoio di energia e quindi Vaia, per esempio, la tempesta che a fine ottobre 2018 ha abbattuto molte foreste del Nord-est è legata anche al riscaldamento globale. Insomma, bisogna ormai entrare nell’ottica che i nostri figli vivranno in un mondo diverso dal nostro.
Che nesso c’è tra il tuo interesse di ricerca per l’evoluzione e la questione del clima?
La definizione di Antropocene è stata per tanto tempo soltanto fisica e geofisica. Si parla di Antropocene come del momento in cui l’uomo diventa un agente geologico capace di modificare il paesaggio, deviare i fiumi, eccetera. Io ho contribuito all’idea che oltre a tutto ciò nell’Antropocene bisogna considerare anche i fattori biologici e dare uno sguardo evolutivo al processo in corso. Il climate change è un pezzo di una storia più grande di distruzione dell’ambiente, quindi sarebbe più corretto parlare di crisi ambientale. L’estinzione della biodiversità è un’altra emergenza di cui pochi parlano. E che ci farà molto male. Fino a qualche tempo fa i dati riguardavano i vertebrati, le grosse specie carismatiche, quindi “salviamo l’elefante, la tigre, la giraffa”. Adesso si è capito che questa estinzione della biodiversità è pervasiva, riguarda tutti gli esseri viventi, anche quelli che pensavamo fossero molto più resistenti, tipo gli invertebrati, in particolare gli insetti. Gli ecosistemi terrestri si stanno impoverendo tantissimo. Per la prima volta nell’evoluzione una sola specie con la sua attività ha fatto fuori un terzo di tutte le altre, non si era mai verificata un’ecatombe del genere. E questo è pura follia. Circa il 70% delle colture che ci permettono di mangiare dipendono direttamente o indirettamente dagli insetti impollinatori, che secondo gli ultimi dati sono in riduzione mediamente del 35%. La biodiversità va difesa comunque perché non abbiamo alcun diritto di estinguere la storia evolutiva di nessun altro essere vivente, ma al di là di questo comunque ci stiamo facendo del male da soli.
Leggendo La Terra dopo di noi, così come altri libri sul tema del riscaldamento globale di origine antropica pubblicati ormai da anni, o guardando la mostra Anthropocene, una domanda emerge con forza. Da un lato, la gran parte degli scienziati concorda sul fatto che entro pochissimi anni ci sarà un disastro, se non si inverte la rotta delle emissioni di Co2 (e, in parte, il disastro c’è già). Dall’altro lato, però, la nostra vita quotidiana non cambia a partire da questa consapevolezza e, ancora peggio, non cambiano le politiche. Le emissioni aumentano anziché diminuire. Com’è possibile questa contraddizione?
Questa è la domanda delle domande. Da un lato, ci stiamo accorgendo che questi temi, lo dico anche da filosofo, sono difficili da far percepire, a causa delle caratteristiche del processo, che è molto vasto e tutto sommato lento, con effetti non lineari, difficili da spiegare. Ad esempio, nel 2019 in Italia abbiamo avuto un maggio particolarmente freddo e piovoso e abbiamo detto “è il riscaldamento climatico”. Ma è contro-intuitivo che un riscaldamento possa produrre il freddo; per spiegarlo devi ricostruire tutta la struttura delle correnti oceaniche e atmosferiche boreali. Penso sia vero quello che ha scritto Jonathan Safran Foer nel libro Possiamo salvare il mondo, prima di cena: siamo sommersi dai numeri, dai dati, dalle evidenze, gli scienziati ce lo stanno dicendo da trent’anni, ma non ci crediamo per davvero. Dall’altro lato ci sono ostacoli strutturali, legati al fatto che dovremo prendere delle decisioni costose, dovremo fare dei sacrifici. C’è in discussione l’intero nostro modello di sviluppo e di consumo, il modello di una crescita illimitata, che porta all’esaurimento delle risorse. Questa è una transizione obiettivamente molto difficile, è ovvio che ci aspettavamo e ci aspettiamo grandi resistenze. Però nell’ultimo anno sono stato invitato a parlare di questi temi da grandi aziende, ad esempio del comparto chimico o del packaging, e sono rimasto sorpreso perché c’è una grande consapevolezza sul problema globale. Io racconto ad esempio i dati sulla plastica, che sono mostruosi: si calcola che intorno al 2050 ci sarà più plastica che pesce nei mari, se continuiamo con la pesca intensiva e indiscriminata soprattutto nelle acque internazionali e a immettere plastica come stiamo facendo adesso. I produttori di plastica rispondono: noi siamo consapevoli di questo, decidiamo insieme una strategia di uscita e di transizione, una strada che per noi sia percorribile e che non cambi ogni sei mesi al mutare delle maggioranze politiche. Certo, le azioni concrete sono un’altra cosa, però c’è una crescente sensibilità.
Un terzo punto che credo renda difficile prendere delle decisioni concrete a livello internazionale è il tema della giustizia climatica. L’aumento di benessere degli ultimi decenni è andato di pari passo con un aumento delle disuguaglianze che è diventato insostenibile; il riscaldamento climatico è un pesante fattore di aggravamento di queste disuguaglianze. Una volta è stato ospite qui a Padova l’ex ministro dell’energia e della ricerca di Obama; nella sua conferenza ci ha detto: sì, Trump nei tweet scrive che il riscaldamento climatico è una costosa balla, ma nei documenti ufficiali del Pentagono, tra i maggiori pericoli per la sicurezza nazionale statunitense, al secondo posto figura una cosa che si chiama climate change. Se vai a vedere la declaratoria, è perfetta, dice: il climate change destabilizzerà i paesi, creerà grandi flussi di migranti ambientali verso le città e poi attraverso i confini nazionali, peggiorerà i conflitti per le risorse, aumenterà le disuguaglianze globali, e tutto ciò diventerà direttamente o indirettamente una minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Quindi, retorica a parte, sanno benissimo quello che sta per succedere. Molti scienziati dicono: “scientificamente abbiamo detto tutto; tecnologicamente le soluzioni ci sono, a questo punto è un problema culturale, politico e sociologico”.
Del libro di Safran Foer non mi piace il messaggio del titolo: Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Diffido della retorica che ci dice che tutto dipende dai nostri comportamenti individuali. I consumi e le scelte individuali sono importanti, ma si devono trasformare in domanda politica. Altrimenti sembra tutto facile e, moralisticamente, si dà la colpa ai singoli.
Concordo. A questa retorica io farei due critiche. Una riguarda lo slogan “Save the planet”. Certo, è bellissimo, ma rischia di essere persino presuntuoso, perché “salvare il pianeta” in alcune accezioni implica l’idea che noi davvero possiamo controllare il sistema. Non è così. Noi non possiamo ingegnerizzare questo pianeta. È un sistema complesso, che reagisce in modo imprevedibile, spesso molto violento. Nel mio libro cerco di difendere una tesi diversa, quella dell’umiltà evoluzionistica, cioè partire dall’idea che siamo piccoli, fragili, che siamo qui da niente, che la vita sulla Terra esiste da tre miliardi e mezzo di anni, che i batteri e i virus sono molto più capaci di noi di sopravvivere a tutti i cambiamenti ecologici. Se dobbiamo salvare qualcosa innanzitutto è il futuro dei nostri figli e delle generazioni future e in fondo oggi difendere gli interessi della natura significa fare una grande opera umanistica e di difesa degli interessi umani.
La seconda critica riguarda il fatto che l’accento sui comportamenti individuali può diventare un alibi deresponsabilizzante per la politica. Riusciamo a quantificare quant’è l’incidenza del cambiamento delle abitudini individuali o di piccoli gruppi rispetto a una svolta nelle normative internazionali? Secondo molti studiosi un cambiamento di comportamenti individuali pesa per un terzo, le decisioni geopolitiche internazionali per due terzi. Prendiamo dei casi del passato, per esempio il buco nell’ozono, una storia esemplare: abbiamo risolto il problema quando abbiamo fatto il protocollo di Montreal, abbiamo deciso che i clorofluorocarburi andavano sostituiti e abbiamo creato un percorso di transizione. Adesso il buco nell’ozono è risolto per tre quarti. Questa è una storia a lieto fine, che ti fa capire che se vogliamo farlo e ci mettiamo intorno a un tavolo si può incidere positivamente, però ti dice anche che è stata una decisione top-down, una decisione geopolitica, con cui ci si è assunti una responsabilità globale. L’unica cosa che aggiungerei è che se a un certo punto si allarga un consenso che diventa politicamente significativo, anche un politico cinico che pensa alle prossime elezioni, be’, deve pensarci cinque volte prima di prendere una decisione contro l’ambiente, perché perde un sacco di consenso. A quel punto forse qualcosa potrebbe cambiare, dal basso. Questa è la speranza che uno può nutrire.
Nel tuo libro sembri riporre molta fiducia nella capacità, da un lato, della scienza e della tecnologia e, dall’altro, del pensiero umanistico, di trovare le soluzioni adeguate e la consapevolezza per invertire la rotta. Ma non sono proprio la scienza e l’umanesimo ad averci portato verso il disastro? La scienza e la tecnologia ci hanno consentito di devastare il pianeta pur di vivere meglio, mentre il fatto di aver messo al centro del nostro pensare e del nostro agire l’“uomo” ci ha fatto dimenticare quello che c’è intorno all’uomo.
Ho letto La grande cecità di Amitav Ghosh e conosco l’argomento, però non mi convince. L’impresa scientifica e tecnologica è da sempre un’impresa ambivalente. Non è né la colpevole numero uno né la panacea a tutti i mali. Naturalmente, la ricerca scientifica e tecnologica non è neutrale, lo sappiamo, è mossa da scelte umane oltre che da interessi politici ed economici. Però, se tu osservi cosa è successo dal Settecento in avanti – da quando è iniziato l’Antropocene – la stessa scienza ha portato a progressi enormi (riduzione della mortalità infantile, della povertà, e così via) ma anche a squilibri intollerabili. Questo dà una grande responsabilità a coloro che devono indirizzare l’impresa scientifico-tecnologica. Dall’altra parte, io contesto quelli che si affidano esclusivamente alle soluzioni tecnologiche “di emergenza”, tipo bombardare le nuvole, mettere gli specchi sulla superficie del pianeta, perché sono chiaramente un alibi rispetto al fatto che dobbiamo cambiare i modelli di sviluppo e consumo e fare delle scelte di tipo politico. Quindi: non demonizzerei l’impresa tecno-scientifica dicendo che è la causa del riscaldamento climatico, perché sono le scelte che noi abbiamo fatto la causa vera, e dall’altro lato non la vedrei neppure come una salvifica via di uscita dal problema. Concordo invece con Amitav Ghosh sul fatto che viviamo una crisi di immaginazione: le nostre capacità di racconto non riescono a stare al passo con i cambiamenti. Però resto radicalmente umanista, cioè secondo me la scienza va indirizzata per il benessere umano. E comunque l’impresa scientifica è imprevedibile. Nessuno può sapere cosa saranno la scienza e la tecnologia nel 2050.
Amitav Ghosh sembra credere più nella religione che nella scienza…
Volendo essere ostinatamente ottimisti, immaginiamoci la scena: grandi capi religiosi assieme a grandi scienziati, che si rivolgono all’umanità e dicono “ragazzi, abbiamo un problema, adesso vi mettete intorno a un tavolo e vi assumete le vostre responsabilità”; secondo me se si crea un’alleanza tra la comunità scientifica e Papa Francesco o chi per lui, io, da laico non credente, sarei più che favorevole e mi siederei subito a quel tavolo per parlare di ambiente e di futuro.
Un altro modo di guardare al riscaldamento globale di origine antropica è quello di chi ha opposto al termine “Antropocene” quello di “Capitalocene”. La “colpa” non è dell’agire umano in sé, si dice, ma del fatto che il sistema capitalistico abbia anteposto il profitto a qualsiasi altra considerazione; un centinaio di grandi multinazionali sono la causa della gran parte del riscaldamento globale. Non dobbiamo pensare a come evitare la scomparsa del genere umano, ma a come andare verso la fine del capitalismo. Come ti poni rispetto questo dibattito?
Sono abbastanza d’accordo. La descrizione marxiana del capitalismo era già quella di un sistema che deve crescere sempre di più, deve consumare sempre di più e, un bel giorno, fagociterà tutte le risorse disponibili. Tuttavia, il modo con cui gli esseri umani irrompono negli ecosistemi, li sfruttano senza lungimiranza e li impoveriscono è una storia purtroppo molto più antica del capitalismo. Quando arrivano in Australia e nelle Americhe, già i primi gruppi di cacciatori umani consumano l’ambiente, riducono la biodiversità. Quindi temo che vi sia qualcosa di molto più profondo nel comportamento dell’Homo sapiens che lo rende insostenibile rispetto all’ambiente. È la nostra curiosità, la nostra invasività, il fatto che da un certo momento in poi, da 40mila anni fa non abbiamo più avuto vincoli ecologici, cosa che ci differenzia da tutti gli altri esseri viventi, perché noi grazie alla cultura e alla tecnologia possiamo vivere dove vogliamo, nessun animale è capace di fare questo. Prima del capitalismo non vivevamo nell’età dell’oro. Però se vogliamo limitarci a quello che succede dalla macchina a vapore in poi, quelli che dicono che il capitalismo è il vicolo cieco che ci ha portato al climate change e non ce ne farà uscire hanno qualche elemento di ragione. Io litigo spesso con gli economisti di impostazione liberista, che sottovalutano l’impatto ambientale dell’attuale modello di sviluppo e costruirebbero sempre nuove infrastrutture per far girare le merci più velocemente. Perpetuano lo stesso paradigma che ha creato il problema.
Questo porta al tema di come cambiare il nostro tenore di vita e, collegato a questo, al tema delle disuguaglianze. Riusciremmo oggi a fare a meno del tonno al supermercato, anche se questo causa l’estinzione dei tonni nei mari? E come facciamo a chiedere ai paesi poveri del mondo di non arrivare a un tenore di vita paragonabile a quello dei paesi ricchi?
Io su questo tema propongo uno sguardo evoluzionistico. Negli studi sull’evoluzione c’è un modello, che si chiama “costruzione di nicchia”, che ho provato ad applicare anche al climate change. Se guardi il processo evolutivo umano sul lungo periodo, noi dobbiamo il nostro successo al fatto che, mentre tutte le altre specie rispondono ai cambiamenti ambientali attraverso meccanismi adattivi, noi in modo performativo e attivo modifichiamo l’ambiente attorno a noi per renderlo più consono alle nostre esigenze. Questo ci regala grandi vantaggi, ma è un gioco rischioso che può trasformarsi in una trappola evolutiva: modifichi l’ambiente in modo da renderlo più congeniale a te, ma lo fai in modo talmente distruttivo, radicale e trasformativo che a un certo punto ti accorgi che tu stesso sei in ritardo rispetto ai cambiamenti che hai introdotto nell’ambiente. Questo secondo me sta succedendo adesso. Un esempio concreto, forse un po’ strano, riguarda il microbiota, cioè la ricchezza di biodiversità che ciascuno di noi ha nel nostro corpo. Noi siamo abitati da migliaia di specie batteriche che ci permettono di digerire, di respirare, ci proteggono la pelle, la bocca e così via. Nei cacciatori-raccoglitori e nelle popolazioni native rimaste oggi, il microbiota ha una ricca biodiversità con migliaia di specie, con certi equilibri. Lo stesso microbiota in chi vive in contesti urbanizzati e industriali è invece un semi-deserto, con quasi un terzo delle specie originarie. Noi oggi sappiamo che dalla salute e dalla diversità del microbiota dipendono una quantità di malattie, che nemmeno ci aspettavamo, dal diabete all’obesità, malattie degenerative, oltre naturalmente a malattie e sindromi metaboliche. Insomma: non si tratta di tornare alla caccia e raccolta, ma di capire che abbiamo modificato l’ambiente in modo troppo veloce e ora abbiamo grossi problemi ad adattarci, cosa che ci crea problemi di salute. Lo stesso vale per l’epidemia di malattie allergiche e auto-immuni nei paesi ricchi. Una svolta importante l’avremo quando tutti capiranno che il climate change è anche un problema di salute umana. Un altro esempio: noi sappiamo che le epidemie di ebola in Africa sono dovute al fatto che l’ebola è portata da alcuni animali come i grossi pipistrelli, che sono aumentati di numero perché le foreste sono state sostituite da piantagioni estensive di palma da olio; i pipistrelli si cibano di questi frutti, si sono moltiplicati, quindi si sono moltiplicate le possibilità di contatto con l’uomo e scoppiano nuovi focolai di ebola. L’epidemia di ebola non è quindi il frutto di una fatalistica cattiveria della natura, noi abbiamo favorito questa insorgenza e ne paghiamo le conseguenze.
Nel libro dici che i “nativi climatici”, come li hai chiamati, cioè le generazioni cresciute con la consapevolezza dei rischi che corriamo, potrebbero essere più pronte rispetto a noi. Cosa ti porta a essere ottimista?
Il tema dei nativi climatici a me interessa per un motivo scientifico, che allarga la prospettiva evolutiva darwiniana. Io cosa passo ai miei figli? Trasmetto i miei geni, la cultura e la lingua, ma anche tutti i cambiamenti ambientali che ho introdotto nella mia generazione. È quella che viene chiamata “ereditarietà ecologica”. Quindi mia figlia, che ha l’età di Greta, vive in un mondo che eredita i cambiamenti ambientali che io ho introdotto, senza che lei ne abbia alcuna responsabilità ovviamente. Questo significa anche che mia figlia cresce in un mondo tecnologico, culturale, ecologico, decisamente diverso dal mio e quindi mi devo aspettare, essendo il cervello umano molto plastico, che possa avere anche modalità di interpretazione di quel mondo diverse dalle mie. Questo è il ragionamento generale. Poi in concreto a me è venuto in mente perché vado spesso nelle scuole a parlare di questi argomenti e già da tre o quattro anni sono rimasto colpito perché, quando parlavo di riscaldamento climatico, quasi sempre saltava su uno studente o una studentessa, giovanissimi, e dicevano: “Guardi professore, tutto vero, ma voi avete creato il problema, noi invece ci siamo nati dentro e quindi noi, che avremo una mentalità diversa, troveremo le soluzioni al problema”. Spero che abbiano ragione, che i nativi climatici, essendo nativi di un mondo diverso dal mio e dal tuo, possano avere un cambio di mentalità che noi adesso nemmeno immaginiamo. Dopo sono arrivati Greta e i Fridays for future: potrebbero prefigurare questa evoluzione generazionale.
Gli Asini sono interessati anche e soprattutto alle questioni pedagogiche. Come bisognerebbe insegnare l’ambiente – dalle elementari all’Università – nell’epoca della crisi ecologica?
Dobbiamo trovare linguaggi nuovi perché siamo in ritardo. Io lavoro tantissimo per esempio sulla divulgazione e sulla didattica fatte con il teatro, con la musica, con l’interazione coinvolgente. Perché sono modalità più inclusive. Bisogna smetterla di raccontare la scienza soltanto in base ai prodotti finali. Devi raccontare come funziona il metodo scientifico e spiegare che ogni risultato è provvisorio, che la scienza è antidogmatica, è un esercizio di scetticismo sistematico, che nessuno scienziato ha la Verità con la V maiuscola in tasca. Se fai così, la didattica e la comunicazione della scienza è molto più efficace, anche sul riscaldamento climatico. All’università faccio un corso di comunicazione della scienza agli studenti di biologia e scienze della natura. I ragazzi che vogliono fare i ricercatori, gli scienziati o gli insegnanti, devono imparare a comunicare costantemente quello che fanno. È necessario che si liberino dall’approccio paternalista per cui “io sono lo scienziato e adesso spiego le cose a te che non le sai” e dal pensare che l’altro sia un ignorante. Il pensare per autorità contraddice il metodo scientifico, quindi non devi usarlo neanche quando comunichi con chi scienziato non è. Anche il modo di fare comunicazione sul climate change è stato sbagliato. È da trent’anni che diciamo queste cose e nessuno le ascolta: certo, forse sono tutti brutti e cattivi i politici, ma può anche essere che parliamo nel modo sbagliato. Nell’ambito dell’Ipcc c’è un grosso dibattito, autocritico. Molti dicono per esempio: “Piantatela di dire che sta finendo il mondo, piantatela di usare questi toni apocalittici, millenaristici”, ottieni un effetto di assuefazione e non ti crede più nessuno.
Il posto dove preferisco andare in assoluto sono le scuole elementari. Ho fatto progetti ad esempio con la rete delle scuole Montessori, abbiamo rifatto i materiali che spiegavano l’evoluzione. Un’altra collaborazione che mi ha sempre dato moltissimo è con Reggio Children: loro lavorano sul parallelo che c’è tra la creatività dei bambini e quella degli scienziati, giustissimo. E poi da qualche tempo scrivo anche libri per ragazzi, che mi piace tantissimo.
Dal punto di vista politico, cosa sarebbe necessario fare subito?
Investire di più in ricerca e innovazione, cosa che ostinatamente e stupidamente in Italia continuiamo a non fare. La transizione al 100% di fonti rinnovabili è ineludibile e l’Italia su questo non è messa male. Dobbiamo poi smentire l’idea che le scelte ecologiste siano per pochi ricchi, per l’élite. Cominciare solo dalle tasse è impopolare, d’accordo, però valuterei di far pagare, gradualmente, i costi ambientali. O quantomeno comincerei a dirli, per legge. Ovvero, io vado al supermercato, prendo l’ennesima banana Cavendish e l’ennesimo ananas sudamericano, da coltivazioni intensive, una bistecca di maiale o un barattolo di tonno. Li pago niente e sono contento. Un primo passo è dire: bene, dietro questo pagar niente c’è un costo ambientale enorme, un costo di trasporto, un costo sociale che non ti hanno fatto vedere. Questi ananas e queste banane non costano niente soltanto perché non facciamo pagare i costi veri (quelli globali e integrati) dei prodotti. Quei costi dovrebbero diventare una cattiva pubblicità.