La Covid e l’Africa
Il primo aprile 2020, i ricercatori francesi Camille Locht dell’Inserm e Jean Paul Mira, capo dei servizi di rianimazione dell’ospedale Cichin di Parigi, hanno pubblicamente dichiarato che per arrivare più velocemente a un vaccino contro la Covid-19, si sarebbe potuto pensare a una sperimentazione su fasce della popolazione specialmente esposte al contagio, sul modello di quanto messo in atto in precedenza per trovare un vaccino per l’Aids testandolo sulle prostitute, visto che si trattava di una categoria specialmente esposta, e di testare quindi un ipotetico vaccino in Africa. Qualche giorno dopo, la moglie di Bill Gates parlando alla Cnn ha dichiarato di non riuscire a dormire pensando ai cadaveri che ben presto avrebbero popolato ogni strada del continente. Questo tipo di affermazioni, frutto di pratiche (neo)coloniali e di una visione del mondo secondo cui in certi luoghi è impossibile gestire masse di popolazione considerate “eccedenti” rispetto a un modello di sviluppo eterodiretto, digerito troppo spesso passivamente dai governi post-coloniali, non fanno altro che resuscitare il peggior afropessimismo e lo stereotipo di un’Africa vista come un continente “bambino”, anti-moderno e incapace di gestire le emergenze e la salute dei propri abitanti, visti come un esercito di persone condannate dal nostro immaginario eurocentrico a vivere eternamente ai margini della storia. La storia delle epidemie nel continente ci dice altro, come dimostra Florence Bernaut in un bell’articolo uscito recentemente sul sito del Centre de Histoire di Science Po di Parigi: un’azione ben concertata tra ong, comunità, alcune parti del sistema sanitario e soprattutto l’impegno individuale hanno saputo dare buoni risultati scegliendo di dare fiducia e forza a strategie locali che si sono rivelate a medio e lungo termine vincenti anche perché frutto di una collaborazione che tiene conto anche dei saperi medici locali. La gestione del virus Ebola ne è stata prova.
È però complesso parlare della Covid-19 in Africa, vista l’estensione territoriale del continente, ma viste soprattutto le differenze presenti al suo interno, soprattutto da un punto di vista economico e di “sviluppo”. Vari sono i fattori di cui tenere conto, prima fra tutti ovviamente la sua composita realtà sociale ma anche la profonda diversità culturale di cui esso si compone. I primi casi, come è noto, si sono manifestati in Egitto e Nigeria e in questo momento l’Egitto e il Sudafrica sono, secondo i dati ufficiali, i due paesi con il maggior numero di contagi. In Sudafrica si sono a oggi superati i 200mila casi. Ma, come successo anche in Europa, è molto difficile fare una lettura della diffusione della Covid perché diversi sono i criteri con cui vengono contati i contagi, i decessi e i modi in cui vengono effettuati i tamponi variano sensibilmente da paese a paese. Inoltre, pare evidente che ci sia una larga forbice tra casi ufficiali e situazione reale (un esempio: l’Angola e il Mozambico solo da qualche giorno hanno comunicato i dati ufficiali del contagio ma essi sembrano abbastanza improbabili: meno di 400 casi dichiarati per l’Angola e poco più di 1.000 per il Mozambico). La curva dei contagi sta crescendo costantemente, è un fatto. Attorno al 10 luglio si sono toccati i 500mila casi ufficiali e superati i 12mila decessi, ma si può affermare che siamo, almeno per il momento, molto lontani dalla catastrofe che molti si aspettavano. Sicuramente la giovane età della popolazione, una mobilità soprattutto intercontinentale ridotta, la già citata abitudine ad avere a che fare con malattie infettive gravi e a gestire le epidemie, il clima caldo da molti indicato come un probabile deterrente alla diffusione del virus, possono spiegare, almeno in parte, una crescita dei contagi meno drammatica del previsto. Va detto che, almeno in una prima fase, la vera misura decisiva è stata l’immediata chiusura delle frontiere innanzi tutto per i voli provenienti dall’Europa assieme alla dichiarazione dello stato di emergenza sanitaria in molti paesi. In certi paesi come Senegal, Angola, Ruanda campagne di informazione nei quartieri popolari hanno affiancato pratiche e azioni di vario tipo come la diffusione di canzoni interpretate da artisti molto amati dal pubblico grazie alle quali sono state diffuse norme igieniche di base e pratiche rivolte a scongiurare l’espansione del virus. In Senegal è stata anche registrata una miniserie Le virus in cui si racconta la storia di un migrante proveniente dall’Italia che propaga involontariamente il contagio. Bisogna tener presente la realtà sanitaria del continente: all’inizio della pandemia solo in Senegal e in Sudafrica era possibile fare i test necessari a verificare il contagio. Mediamente esiste un medico ogni 5.000 abitanti in Africa, le strutture ospedaliere sono molto fragili, per non parlare delle strutture di rianimazione che sono una rarità. Ogni azione volta a potenziare l’impegno individuale di contrasto al contagio diventa perciò cruciale. Fino a giugno in un continente dove vive il 17 per cento della popolazione mondiale si sono contati solo il 2,5 per cento dei casi totali di contagio. Come già detto, la decisione di chiudere gli aeroporti adottata da molti paesi ha dato buoni risultati, ma la decisione di passare a una fase 2 molto rapidamente ha purtroppo, come era facile immaginare, fatto crescere sensibilmente i contagi. Ma va detto che se nei paesi occidentali più sviluppati si è deciso quasi dappertutto di promuovere misure che hanno teso a riprendere le attività produttive per scongiurare almeno in parte una crisi economica gravissima, in un continente dove, come in gran parte delle zone meno sviluppate del pianeta, grande parte della popolazione vive nelle precarie periferie urbane, il distanziamento sociale è davvero un privilegio per pochi e per chi sopravvive grazie a un microsistema economico fragile che si consuma nel piccolo commercio di strada, nel lavoro domestico o nel complesso mosaico di scambi di piccoli servizi che reggono l’economia informale gestita il più dalle volte in famiglie monoparentali che cercano di costruire legami di comunità in contesti suburbani precari. Rimanere a casa vuol dire comunque morire. Una foto che ha fatto il giro delle reti sociali ritrae un uomo con una mascherina precaria fatta con una busta di plastica malridotta e l’immagine è presto diventata l’icona della situazione in cui vivono oggi molti africani che cercano di proteggersi dal virus senza avere però la possibilità di sfamare sé stessi e le proprie famiglie. Come se l’immagine dicesse appunto “se non si muore di virus siamo comunque quasi morti di fame”. Decidere di prolungare il lockdown diventa una scelta economicamente poco sostenibile.
Ma la crisi avrà un effetto significativo anche sulla classe media che faticosamente è andata negli ultimi trent’anni guadagnando il suo spazio all’interno di società in cui, nella maggior parte dei casi, è esistita solo una forbice sempre più ampia tra ricchi e poveri. Mi riferisco a piccoli imprenditori (tassisti per esempio, proprietari di piccole sartorie o attività di ristorazione, commercianti in genere) ma anche funzionari statali, insegnanti, che verranno travolti da quella che si prepara a essere secondo molti osservatori la prima recessione economica negli ultimi venticinque anni per il continente. La mancanza degli scambi commerciali con il resto del pianeta, che creava un indotto nelle cui maglie si muoveva anche la vita economica di piccoli investitori e impresari, farà purtroppo il resto.
Lockdown, inoltre, vuol dire un forte controllo della polizia che diventa un’arma complessa nella gestione dell’ordine pubblico se si considera che sono previste a breve consultazioni elettorali in ben 18 paesi dell’Africa. In realtà il virus, esattamente come altrove, sta funzionando come una cartina di tornasole delle fragilità che attraversano il continente. In tempi di emergenza sanitaria l’assenza di investimenti statali per la ricerca scientifica locale si rivela essere un punto molto dolente, visto che la maggior parte dei ricercatori decide di non tornare a lavorare in Africa e se ci ha studiato preferisce fare la propria carriera in paesi dove la ricerca scientifica è maggiormente supportata. La dipendenza dalla Cina per generi che hanno migliorato la vita quotidiana anche delle famiglie con basso potere di acquisto è un altro fattore da tenere in conto. E non ultima rimane la questione dei migranti. La Libia dichiara ufficialmente che sul suo territorio nazionale ci sono poco più di 1.000 casi. Pare difficile che questo dato possa tener conto delle centinaia di persone rinchiuse nei centri di detenzione dove sembrerebbe che il contagio sia purtroppo altissimo. E per il Niger, altro snodo importante per chi cerca di arrivare in Europa, i dati ufficiali sono più o meno gli stessi.
Se il virus ci ha forse riportato in maggiore contatto con la nuda vita e forse anche con una maggiore consapevolezza di una condizione umana comune, ricordandoci come fa Achille Mbembe che “oltre le nazionalità (il virus) ci ricorda quanto ogni corpo umano, per quanto singolare porta su di sé e in sé, nella sua porosità essenziale, i segni dell’universale”, in un momento in cui il cosiddetto centro del mondo si è ritrovato a fare i conti con la sua fragilità e purtroppo anche con la sua impotenza in molti casi, purtroppo l’informazione troppo spesso si è fatta risucchiare dalla narrativa unica dell’eterno cuore di tenebra come lente attraverso cui guardare l’Africa, senza cercare le storie di chi concretamente è in prima linea per limitare il contagio lavorando sulle e con le comunità che quasi a mani nude cercano comunque di resistere. Come se ci fosse bisogno sempre di un mondo altro in cui spostare il pericolo e, in questo caso specifico, le conseguenze della pandemia. Ma l’Africa, eterno altro da “noi” per il momento prova comunque a resistere.