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La corsa dei topi. Un romanzo a bivi

Illustrazione di Elisa Francioli
1 Dicembre 2020
Nicola Villa

Quando Paul Goodman scrisse nel 1960 La gioventù assurda, l’inchiesta che rivoluzionò di fatto la sociologia sui “giovani”,  usò la corsa dei topi come metafora per descrivere l’impossibilità di questi di uscire dai percorsi precostituiti del sistema. Goodman intendeva non solo descrivere la falsa competizione a cui sono sottoposti i giovani in un sistema premiale, sia quello dell’istruzione e del lavoro (il topo che corre su una ruota fissa), ma anche richiamare l’immagine di un tracciato obbligato dal quale è impossibile uscire (il labirinto a cui sono costretti i topi da laboratorio).

È questa l’immagine che si ha fissa nella testa, girando in tondo e a vuoto, nel libro di Carlo Mazza Galanti dal titolo Cosa pensavi di fare? Romanzo a bivi per umanisti sul lastrico (Il Saggiatore). Un libro curioso dalla forma sperimentale che richiama un prodotto editoriale che negli anni Novanta ebbe un grande successo come il libro-game, un romanzo cioè a bivi. Il libro, diviso in tre parti – che sono la formazione, il privato e la sfera pubblica – riprende infatti gli esperimenti narrativi dell’avanguardia francese (prima fra tutti l’OuLiPo di Queneau) e le ipotesi sul caso come motore di racconto (il lancio di dadi e quello delle monete di I-Ching, per esempio): il risultato è un romanzo a incastri casuali sulla vita di un trenta-quarantenne italiano, maschio, alle prese con la sua formazione e il lavoro, l’amore e la politica.

Come in un gioco da tavola – come quello dell’oca o delle scale e dei serpenti nel quale i passi avanti sembrano dei passi falsi ed è facile tornare spesso al punto di partenza – il lettore è posto davanti a scelte sempre ambivalenti: procedere su una certa strada o tornare indietro? Seguire il retaggio famigliare o diventare critico? Qualsiasi opzione si scelga, del resto, è all’interno di un labirinto predeterminato: il remunerativo dottorato all’estero o la gavetta umiliante nello sterile ambiente accademico italiano, la scelta di rimanere single o avere figli, l’impegno politico o il riflusso sono tutte scelte che si equivalgono. Il lettore è sempre posto di fronte alla possibilità di vedere “cosa sarebbe successo se…”, al tornare indietro per vedere se esista un’alternativa, se si possa uscire da questo labirinto predeterminato di traiettorie di vita. Il gioco ludico dell’ipertesto si rivela presto illusorio: non c’è libero arbitrio, non esiste il caso anche se si lancia in aria una moneta, perché alla fine i finali sono tutti deludenti e tragicomici.

Il romanzo di Mazza Galanti, oltre a essere una riflessione su una biografia potenziale in seconda persona, è anche una parodia di quello che viene definito cognitariato, cioè il precariato cognitivo. Cosa intendevi fare si può leggere come una riflessione generazionale se questi ultimi trent’anni (c’è anche la “pagina nera della Diaz al G8 di Genova”), ma il distacco ironico permette di sorridere in modo amaro delle varie possibilità esistenziali che propone il romanzo. Non si scade mai nel moralismo, ma al contrario il racconto è un campionario delle nevrosi, dei tic culturali e dei luoghi comuni a cui è condannata l’estesa classe media laureata e intellettualizzata, nei quali non è difficile riconoscersi e riconoscere i propri simili.

Il libro di Mazza Galanti ricorda diversi esempi recenti di narrativa e saggistica che hanno provato ad analizzare le generazioni perdute post-ideologiche (quelle che nel linguaggio di internet sono la generazione X o i millennial), spesso attraverso le lenti della rivendicazione del precariato, altre volta con l’adattamento di teorie socio-economiche novecentesche remixate per il presente. Questo romanzo ricorda il saggio Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura (Minimum fax 2017), un saggio che ha provocato discussioni e dibattiti, che ha giocato molto sull’ambiguità tra studio brillante e prodotto di intrattenimento. Al contrario l’intento di Mazza Galanti non è tanto illudere il lettore con false risposte sagaci, ma svelare, attraverso l’ironia, come sia la ricerca delle domande ad essere già dettata.     

Questo forse è il pregio maggiore di Cosa intendevi fare: un documento, quasi una registrazione dei riflessi generazionali di cui non si può fare a meno di sorridere. Eppure l’aspetto interessante e intelligente del romanzo è che si sorride sempre con un riflesso di amarezza e a volte di angoscia su quanto le possibilità di vita di questo sistema siano chiuse, sulla complicità che ognuno ha con queste possibilità e su quanto sia illusoria la pretesa di individualità, su quanto insomma la corsa di topi sia ancora una gara chiusa e impossibile da aprire.   

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