La classe degli asini
La scuola
Il mio rapporto con la scuola non è stato felice, anzi lo definirei addirittura traumatico se penso ai primi anni, dall’asilo alla quinta elementare, che ho fatto a Palermo al Mario Rapisardi. Li ricordo con un sentimento sgradevole, di paura. Tutta la mia esperienza scolastica è stata segnata da una situazione familiare tutt’altro che facile, che ha avuto ripercussioni più che negative sul rendimento e sulle relazioni con gli altri. Se penso alla scuola penso a un posto di fatica, associo sentimenti di iperemotività, e così via.
Ricordo in particolare alcuni insegnanti, uno si chiamava Gonzales: all’epoca usava che gli insegnanti menassero, e alcuni maestri del Rapisardi erano mitici in questo senso, bacchettate vecchia maniera. Alcuni nomi incutevano proprio il terrore. Gonzales non era in testa a questa hit parade però qualche ceffone lo mollava… poveraccio, era sordo, era stato in guerra e non molti anni fa è morto suicida ultraottantenne perché credo che avesse una brutta malattia, solitudine o qualcosa del genere. Però tutto sommato era uno di quelli che si dicono “vecchi galantuomini”, se uno rivede quel periodo col senno di poi.
La scuola era un po’ classista: aveva due turni – allora c’erano i turni. Il turno di mattina era quello delle persone “perbene”, della buona borghesia; poi c’era il turno pomeridiano che era quello del proletariato, delle persone meno abbienti, perché la scuola prendeva un ampio bacino, gli abitanti della zona residenziale e alto-borghese (via XX settembre, la zona che andava oltre villa Trabia) ma anche i bambini di Boscogrande (e cioè di via Marconi, via Basile).
Io abitavo la parte bassa di via Cavallari, in prossimità di via Marconi, quindi tutti i miei compagni, quelli con i quali giocavo, di pomeriggio non c’erano: ricordo questi pomeriggi di solitudine disperata perché mia madre mi aveva messo nel turno di mattina e questo mi aveva reso particolarmente infelice. Quando io ero a scuola loro giocavano: alcuni lavoravano, c’era chi faceva il garzone, però sentivo racconti fantastici, avventure che accadevano quando non c’ero… invece quando io c’ero ricordo pomeriggi invernali di grande solitudine, di grande noia, di grande afflizione. La scuola elementare è andata così, anche caratterizzata da un complesso di classe: erano tutti borghesi e io non venivo da una famiglia borghese; peraltro era una famiglia molto problematica, che aveva delle situazioni drammatiche all’interno, ti sentivi diverso come bambino. In seguito avrei scoperto che non era così, che in tutte le famiglie cova l’infelicità, ma allora per me la famiglia era quella dei primi Carosello (oggi si direbbe del Mulino Bianco), la famiglia ideale. E quindi è stato faticoso perché ho dovuto costruirmi dei meccanismi di autodifesa… è stato difficile. Essendo figlio illegittimo, peraltro, portavo il cognome di mia madre, Lorìa.
Quando arrivai nel 1969 alla Scuola Media Statale Dante Alighieri (nello stesso plesso dell’Alberico Gentili) avevano da poco aperto il sottopassaggio di Villa Trabia: prima la strada finiva in via Villafranca con un muro, e invece ora era aperta e questo accendeva la mia fantasia. Era un’altra città: ti spingevi oltre, quel sottopassaggio era solitario e ogni volta tiravi il fiato perché non sapevi cosa avresti trovato lì sotto, era un’avventura… poi a destra e a sinistra c’era questa grande zona di verde, allora inaccessibile (non era ancora un giardino pubblico) quindi piena di misteri, ogni tanto vedevi le mucche, strani animali… sembrava veramente che all’interno della città ti ritrovassi improvvisamente in campagna. Ogni volta arrivare a scuola significava questo passaggio dove trovavi di tutto: soprattutto cose sessuali – poi sarebbero arrivate le siringhe, allora trovavi soprattutto sesso nascosto. E questo eccitava ancor di più la fantasia.
Ricordo che arrivai subito in ritardo, sbagliando classe, e quando aprii la porta vidi delle ragazze. Credo fosse una delle poche scuole palermitane inferiori che cominciava ad avere classi sperimentali miste (eravamo la sola classe mista in tutta la scuola). Ti puoi immaginare: vedo queste ragazze quasi adolescenti, io arrivo in ritardo e ho tutti gli occhi puntati su di me… e stavolta non mi chiamavo più Lorìa ma Maresco, perché nel frattempo mio padre era ritornato (l’avevo conosciuto tardi, a 5 anni), i miei si erano sposati e avevano regolarizzato il loro rapporto, e quindi mentre alle elementari era rimasto il vecchio cognome dalla scuola media presi quello di Maresco. E vuoi che io sia fortunato? Giustamente trovi in classe quei due o tre che erano con te alle elementari, e questo cambio di cognome scatenò tutta la cattiveria di cui gli undicenni possono essere capaci. Fu un inizio difficile ma quei tre anni furono poi l’inizio della scoperta della pubertà, dei primi turbamenti, e ricordo che diventai persino bravo a scuola – soprattutto in storia – e divenni un po’ il pupillo…
Il problema era quello della didattica, dell’insegnamento, del sapere: allora non esistevano tutte queste teorie, trovavi il maestro Gonzales oppure a scuola media la professoressa di francese che era molto snob, un’aristocratica che a un certo punto aveva diviso la classe per gruppi di quattro: il primo gruppo era composto da quelli che avevano un voto dall’1 al 3, il secondo andava dal 4 al 6 e così via, e io naturalmente facevo sempre parte del primo o al massimo del secondo gruppo.
Nella mia classe poi, vedi che cosa strana, c’era una certa Maria Falcone – che non aveva alcuna parentela con il giudice – ma anche Domenico Ganci, il famoso killer che poi diventerà il killer di Giovanni Falcone, 50 omicidi sulle spalle… era mio compagno di banco, in prima e seconda media, uno dei grandi nomi della mafia degli anni ottanta. Mio compagno di banco. Guarda tu che strano, Falcone e Ganci in una stessa classe, in una sorta di profezia.
La famiglia
Il rapporto con il liceo (il terzo liceo scientifico di via Malaspina) poi fu terrificante, e ricordo quel periodo in maniera molto tormentata, perché mio padre nel frattempo era di nuovo andato via – stavolta definitivamente, nel 1974. Mio padre sparì del tutto, lasciandoci soli (allora si chiamava abbandono del tetto coniugale), si sarebbe potuto pensare a un caso di lupara bianca, in realtà era andato via con una sua vecchia amante. Ho conosciuto mio padre solo per un periodo di dieci anni, dal 1964 al 1974, quindi per me cominciò un periodo molto difficile, molto duro, veramente brutto, che coincideva con quella che allora chiamavano l’età dello sviluppo. E il rapporto con la scuola fu veramente conflittuale, soprattutto con i miei compagni: andare a scuola per me era una grande sofferenza, cominciai a marinarla sempre più spesso, poi feci un paio d’anni privatamente… fu molto tormentato.
Mio padre andò via quando avevo sedici anni: devo spiegare brevemente la mia situazione familiare in quel periodo. Avevo conosciuto mio padre a 5 anni, perché prima era stato addirittura in prigione; veniva da una famiglia piccolo-borghese, di commercianti di automobili; i suoi nonni e suo zio erano costruttori, furono tra i primi a edificare la zona di corso Olivuzza. Aveva la testa alle donne e al gioco, soprattutto quello della roulette, era viziato, aveva due sorelle più grandi e si mangiò l’eredità, la cedette per un pugno di lenticchie, era un avventuriero… aveva sempre in testa Montecarlo, Sanremo, io sono cresciuto con i sistemini della roulette che si trovavano nei pacchetti di sigarette, ovunque. Ogni volta che penso a mio padre penso a Sordi o a Tognazzi, a uno di quei personaggi pre-boom delle prime commedie all’italiana.
Lui aveva contemporaneamente un’altra famiglia, precedente a quella con mia madre; poi sedusse mia madre, nascondendo di avere già due figli, finì in prigione (credo per una questione di automobili), poi nacqui io e subito dopo un altro fratello dalla prima moglie, la quale poi morì di crepacuore. Mia madre era vedova di guerra, aveva sposato giovanissima un uomo che era morto nei bombardamenti del 1943; nel 1940 era nato mio fratello (che è morto nel 1996), il mio fratello più grande con cui sono cresciuto e che purtroppo in seguito ebbe problemi psichici, una grande intelligenza segnata da una forma di schizofrenia che per quanto non gravissima ebbe ripercussioni drammatiche sulla famiglia.
Mio padre arriva nel 1963: ha da subito conflitti con mio fratello, che non amava quest’uomo che non era suo padre e che percepiva aver ingannato in qualche modo mia madre (cioè sua madre), quindi io vivevo in famiglia questi odî, cose molto violente.
Nel 1974 mio padre sparisce definitivamente (non ne avrò notizie fino al 1995, quando apprenderò per caso dal fratello di qualche mese più piccolo di me che era morto, a Roma – era il periodo in cui io mi apprestavo a girare Lo zio di Brooklyn). Quindi mentre frequento il liceo mio padre, che c’era da poco, a un certo punto va via, e io vivo questi tormenti. Peraltro si erano manifestati in me i primi sintomi di quella nevrosi che mi fu diagnosticata da piccolo, una nevrosi ossessiva (adesso si chiama DOC, disturbo ossessivo compulsivo), e mia madre non era in grado di gestire tutti questi problemi. Era una donna di grande intelligenza ma non aveva cultura, sapeva appena leggere e scrivere perché a sua volta era stata abbandonata da sua madre, vedova giovanissima (una sorta di nemesi) che aveva seguito il suo secondo marito a Milano, quindi lei era rimasta con una nonna che, per quanto agiata, non curò particolarmente la sua educazione. Mia madre aveva una grande esperienza della vita, da lei ho appreso molto, aveva soprattutto una grande capacità affabulatoria, una grande capacità di raccontare storie… Mio fratello nel 1973 si sposerà e porterà il suo dramma nella sua nuova situazione familiare (era un uomo di grande generosità, di grande umanità e sensibilità, però aveva questi momenti che gli hanno rovinato la vita, e purtroppo involontariamente questa tragedia si è abbattuta sugli altri), e quindi per me il liceo rappresentò questo tormento. Anche perché nel frattempo io ero rimasto solo, e leggevo molto, quindi trovai conforto nella lettura, cosa verso cui mi aveva avviato mio padre, che era un po’ infarinato di tutta una serie di cose: cinema, musica…
La figlia di Pizzuto
Avevo una professoressa che era figlia – credo anche lei illegittima – dello scrittore Antonio Pizzuto, si chiamava Paladino (non so se è ancora viva: fino a qualche anno fa ho letto un’intervista nella quale con un certo orgoglio parlava delle cose che avevo fatto, quindi si ricordava di me). La conobbi mentre insegnava in un istituto privato, fu il periodo in cui provai a recuperare perché per un anno non andai completamente a scuola, avevo un motorino e andavo in giro per la città, marinavo la scuola perché mi metteva a disagio frequentarla. Ricordo che suo padre era ancora vivo, e che in quel periodo arrivò la notizia della morte di Pasolini, quindi siamo nel 1975. Per me fu importante perché stabilimmo un rapporto di simpatia e soprattutto il rapporto che dovrebbe esserci, per così dire, tra il maestro e l’allievo: io avevo una passione per la letteratura, per i libri, per i romanzi, e lei ovviamente aveva la preparazione giusta. Diventammo “amici” al punto tale che la andavo a trovare a casa, lei abitava nella zona della Zisa, e mi parlava del padre, di altro… è stata anche una sorta di psicologa, era come andare dallo psicoterapeuta, io mi rendo conto che ero difficile e devo essere stato anche abbastanza insopportabile a quell’età, però era un momento di sfogo, un modo per cercare di affrontare quel periodo terribile.
Lei mi segnalava i libri, io le parlavo di quello che leggevo, Dostoevskij ecc., e quindi fu un periodo – dal punto di vista formativo, della curiosità – importante. Cominciai a leggere di tutto, in maniera disordinata, impulsiva, andavo per istinto, per casualità, era tutto il contrario di quello che era la scuola: sistema, disciplina, metodo, io ero in un’altra direzione, quindi la frequentazione della scuola diventava sempre più difficile per via di questa personalità anarchica, disordinata, insofferente che poi mi ha caratterizzato fino ad avere conseguenze sempre più pesanti nella vita, perché se fai una famiglia devi avere delle regole. Questa libertà a cui anelavo per certi versi ha pagato, per altri versi mi ha reso le cose più problematiche. Lei era una di quelle persone a cui poterti rivolgere se avevi dubbi: non c’era internet, dovevi per forza cercare un interlocutore, e lei fu tra i pochissimi.
I libri
Fortunatamente mio padre era un uomo istruito, a lui devo molto la passione per la musica e in modo particolare per il jazz. Mio padre era uno stravagante, un uomo che non aveva metodo, disciplina, senso della famiglia, ed era sostanzialmente – ci ho pensato molto tempo dopo – un debole, un uomo superficiale, forse con un suo dramma interiore che io ovviamente a quell’età non ho percepito. Malgrado la situazione tragica che viveva in famiglia era uno che se ne strafregava, e dev’essere stato un lettore anche lui molto disordinato ma onnivoro, curioso, quindi mi passò molte passioni. Era difficile alla mia età avere una passione per la musica, e soprattutto per la musica della sua giovinezza: lo swing, Barzizza, Gorni Kramer. Scoprii il jazz alla fine degli anni sessanta ascoltando Armstrong per la prima volta a Sanremo nel 1968. Facevo con mio padre lunghe passeggiate, il cinema è stata una grande scoperta avvenuta con lui, discutevamo di cinema, di musica e di libri… perché lui aveva dei libri. La prima volta che incontrai il nome di Pasolini fu con mio padre: a casa avevamo Una vita violenta, dell’edizione Garzanti, e ricordo tutti gli Oscar Mondadori di Maigret che allora cominciavano ad uscire: ricordo Fleming e 007, ma anche i Buddenbrook o il Doctor Faustus di Thomas Mann, c’era questa piccola libreria a casa, e quando lui andò via ereditai questi libri che poi invece ho orgogliosamente moltiplicato.
Ho cominciato presto a comprare libri, e quando mi sono separato ho lasciato la mia biblioteca a mio figlio Federico, che spero un giorno non venderà. Biblioteca che ho accresciuto forse con po’ più di criterio, ma sempre con un grande disordine. Si partiva dai romanzi, che ho cominciato a moltiplicare soprattutto in quegli anni e poi negli anni successivi… ricordo che c’era un tale, mitico rappresentante dell’Einaudi a Palermo, un personaggio straordinario che sembrava uscito dal circolo Pickwick di Dickens, era un appassionato di Natalino Otto, di Achille Togliani e si stupiva che io li conoscessi… mi invitava a casa, aveva una moglie malata che stava in un’altra stanza, e mi diceva: pigliati i libri che vuoi. E ricordo che misi insieme tutti questi libri, da Minima moralia di Adorno a Marcuse, ecc; ma anche da ragazzo avevo tutti gli scrittori russi, Dostoevskij, ed è lì che mi sono cominciato a fottere lo stomaco perché stavo tutta la notte seduto a leggere su questa sedia a dondolo, con la filodiffusione (c’era un canale che mandava jazz di notte) e mangiavo tonnellate di dolci, quintali di sandwich (avevo il tostapane), barili di coca cola… e mi ricordo già in quel periodo le prime magnesia bisurata aromatic, archeologia della farmacopea… e queste letture disordinatissime che facevano sì che a scuola non avessi voglia, pensavi di essere troppo avanti, avevi un’urgenza, una drammaticità di vivere, non riuscivi a segnare il passo con gli altri… la Paladino/Pizzuto provò a capire questo ragazzino tormentato, molto difficile, una sorta di cocktail di follia e di impulsività, tremendo.
La musica
Il primo strumento fu la chitarra, poi mi venne la fissazione per il pianoforte: mi comprarono un pianoforte Hoffman da Ricordi e cominciai a prendere lezioni private. Periodicamente cambiavo maestro, fino ad arrivare al principe degli insegnanti di pianoforte, Vincenzo Mannino, un grande didatta, tutti conoscono le scale e gli arpeggi delle edizioni Curci, era lui il Mannino di quei libri. Prendevo lezioni una volta la settimana, dopo pranzo, in via Costantino Nigra.
Mannino era un signore dall’aspetto severo, ma ricordo con piacere quando parlavamo di musica e suonavamo le prime cose a quattro mani; poi però prevaleva quello che per me era una sorta di destino, di caos familiare, interiore, nevrotico, e quindi l’incapacità di riuscire a fare sistema, metodo, tant’è che cominciai a pensare che non ce l’avrei mai fatta, pensavo di essere un inconcludente, non riuscivo a canalizzare le cose che avevo dentro. Sentivo che alcune intuizioni funzionavano, ma cominciavo anche a capire che ci voleva il sistema, il metodo, anche se naturalmente come tutti quelli che leggono molto e cercano nei libri una sorta di consolazione o di guida mi sentivo incoraggiato da quei miti che individuavo in quelli che erano stati autodidatti, disperati, ecc.
Forse ritenevo di essere pure io un genio in embrione, immodestamente. Anche mio padre mi aveva incoraggiato, forse più per motivi psicologici, perché sentiva che avevo questa forma di disagio e mi parlava di Moravia, o mi faceva altri esempi… da ragazzo lessi moltissimi libri di Moravia, mi affascinò il fatto che amava Dostoevskij, che io avevo letto tutto: se dovessi identificare un libro della vita direi sicuramente L’idiota. E ricordo che leggendo tutto quello che ruotava attorno a Dostoevskij, i vari esegeti, critici, storici di Dostoevskij mi imbattei pure in Moravia e scoprii anche che era stato autodidatta: aveva avuto una lunghissima malattia, era gracile, ed era stato costretto a letto per anni. Tutta la sua istruzione era stata da autodidatta, e poi a ventidue anni scrisse Gli indifferenti: Moravia era uno che dimostrava che si poteva fare a meno della vituperata scuola che io odiavo.
A questo proposito ti faccio una citazione un po’ colta, cinefila: ti sembrerà strano, ma uno dei film che vedo periodicamente è un film che si chiama Dieci in amore, una commedia modesta, carina, del 1958, con Clark Gable e Doris Day. Mi è sempre piaciuto perché Clark Gable interpreta il ruolo di un capocronista in un grande giornale americano che viene mandato, suo malgrado, a dare testimonianza di giornalismo presso una scuola, un corso di giornalismo in un’università locale (il film è ambientato a New York) dove insegna Doris Day, che invece è figlia di un grande giornalista premio Pulitzer, convinta sostenitrice della cultura che deve stare dietro al giornalismo ecc. Io mi identificavo in Clark Gable, in quello che dice “la vita è quella che conta”; lui ha il complesso di non avere diplomi, vive questo conflitto che poi si risolve in una specie di compromesso, e a un certo punto (siccome lo cacciano) finge di essere uno che vende vernici e si fa notare per il suo talento nella scrittura, ma in effetti gli piace la professoressa… e lei è convinta che sia un venditore di vernici e gli dice che deve studiare, ecc. Mi piace il conflitto di questo personaggio: dice al suo allievo di fregarsene della scuola, che quello che conta è la vita, e al contempo incarna molto bene questo complesso, che poi avrei riscontrato in molti artisti, di chi non ha fatto scuole (di recitazione, di musica, ecc.): puoi diventare un genio ma ti porti sempre il peso di non aver conseguito un diploma, una laurea regolare.
La cosa bella di quando impari da solo è che puoi fare i tuoi percorsi, e questa, se ce l’hai, è una forma di creatività. In questo senso Daniele Ciprì è un esempio notevole: se Ciprì avesse fatto la scuola sarebbe stato un disastro. Avere imparato, come Clark Gable, dalla bottega del padre e facendo i super8 di matrimonio, nei battesimi ecc. ti dà un tuo percorso che la scuola non ti può dare. È chiaro che devi avere un talento di partenza. La scuola in questo è un disastro.
I maestri
Non ho frequentato i primi anni Settanta dei cabaret politici, del PCI, degli intellettuali come Sciascia o Buttitta (che naturalmente incrociavo), per me erano irraggiungibili. Quarant’anni fa tutto era diverso, certe cose erano più inaccessibili e dovevi vincere una timidezza che per me era quasi invincibile. I miei maestri sono stati presi dalla strada. Erano persone dalle quali prendevo aneddoti, storie: mi incuriosiva l’umanità, la gente, la vita (non è un caso che adori Simenon). Tra i miei maestri ricordo allora un edicolante come Stefano Schillaci, che aveva un’edicola mitica in via principe di Villafranca, che ora non c’è più: erano quelli i veri posti! La scuola d’Atene era in via Villafranca, nell’edicola di don Stefano Schillaci. Negli anni Sessanta quell’edicola rimaneva aperta fino alle 3 del mattino, e si ritrovavano varie persone, giornalisti de L’Ora, altri giornalisti, ma soprattutto si vendevano sottobanco le prime riviste porno (avventure strepitose). Quel luogo per me è fondamentale: non ci sarebbe stato Cinico tv senza quel posto.
Schillaci era un tipo stranissimo, piccolo, villosissimo, bestemmiava dalla mattina alla sera, ateo dichiarato, e persona generosa. Gli piaceva bere e mangiare e faceva scarpinate fino al Castellaccio di San Martino delle Scale. Lui veniva dal fascismo, aveva dato il suo contributo a scoprire le grotte dell’Addaura, si era costruito un ideale ma alla fine del fascismo si ritrovava senza pensione, senza nulla, quindi aveva fatto l’edicolante. Aveva un suo livello di istruzione, e una passione per lo sport che era confluita nel ciclismo: era presidente dell’Enal Dace, una sorta di dopolavoro, quindi arrivavano da lui tutti i ciclisti – è lì che conosco Tirone, il ciclista di Cinico tv. Facevano le gare, allora la città era completamente diversa, le borgate erano ancora borgate, e scoprii un mondo che per me è rivelatore. Quindi contemporaneamente ai primi libri, alla musica, Pizzuto ecc., io nel 1972-73 comincio a frequentare l’edicola di Schillaci, che frequenterò per un sacco di anni, dove avevo anche la possibilità di leggere libri gratis. Potevo avere le riviste porno senza avere 18 anni, e l’umanità che ci ho incontrato non la puoi vedere più da nessuna parte. Non era solo quel luogo: erano quegli anni. Lui era fascista, ma lì ci andava Rosolino Cottone che consegnava col motorino L’Unità. Uno era fascista e l’altro era comunista: Rosolino Cottone era partito militare nel 1937 come sommergibilista e ritornò nel 1946, ed è l’unico partigiano siciliano (credo medaglia d’oro o cose simili). La borghesia del PCI lo esibiva come un trofeo: lo metteva in mostra, poi lo rimetteva dentro, tutti alle feste dell’unità si ricordano di Cottone. I due erano come Don Camillo e Peppone: avevano idee contrapposte ma si volevano bene, e si ubriacavano assieme. Io ogni tanto andavo con loro, ed era qualcosa di irraggiungibile, perché litigavano, ricordavano, era una lezione… altro che scuola. Cos’erano il fascismo e il comunismo l’ho capito lì. E poi arrivavano Tirone, i ciclisti, i giudici di gara… un’umanità strepitosa. Per me questi sono stati i maestri: uscire con Tirone e Lombardo era una meraviglia, credo di non aver mai visto o sentito nulla di così comico come in quelle escursioni in bicicletta.
I miei maestri sono stati nelle edicole, sono le persone che ho incontrato.
Il cinema
Per me, come credo per molti, il cinema è stato una terapia. Banalmente potrei dire che il cinema ti aiuta a vivere, ti aiuta a farti delle illusioni, se hai una sensibilità di un certo tipo. Era una forma d’arte che arrivava a toccare le emozioni in maniera più immediata della letteratura, e quindi rappresenta per me il primo vero amore. Sapevo che in qualche modo dovevo fare cinema, sentivo di volerlo fare.
Ho capito subito che non avrei potuto fare il musicista, sapevo che la letteratura era una cosa molto difficile e che richiedeva un’applicazione e un talento, un dono e una disciplina che non mi erano molto congeniali. E quindi sentivo il teatro, ma soprattutto il cinema, come qualcosa che mi era vicino, anche perché nell’incertezza tra letteratura, musica ecc. il cinema dava la possibilità dell’ideale wagneriano di arte totale, e ho sempre trovato interessante e divertente il cinema proprio perché mette assieme queste passioni. Però c’era un problema pratico: dove farlo? (Il cinema si poteva fare solo a Roma, in quel periodo, e io non potevo muovermi per ragioni familiari). In realtà ho cominciato prima di quanto si creda, perché nel 1981 ho fatto per una tv locale un primo programma televisivo che si chiamava Gli amici del venerdì,un programma per ragazzi delle scuole copiato da Chissà chi lo sa?.
Per me era un modo di fare esperienza, di capire il funzionamento delle immagini, delle telecamere, e in quel periodo feci una cosa che oggi si è perduta, con la 16mm di un certo Maurizio Badalamenti, una pubblicità che posso permettermi di definire geniale: doveva essere una marca di detersivi, Happy Line, e l’interprete – vedi la vita com’è strana, mio caro – era Enza Rappa, la grandissima attrice di Scaldati. In seguito la presentai a Roberta Torre, che con lei fece Zia Enza è in partenza. Ricordo che facemmo questa pubblicità, muta: lei faceva la moglie-strega, il marito legge il giornale, lei lo rimprovera perché sporca e butta la cenere a terra, lui si alza, le dà un colpo in testa, la porta in cucina lasciando tracce evidenti di sangue per terra, prende questi prodotti, pulisce e la scritta finale era “Happy Line risolve ogni vostro problema senza lasciare tracce”. Era ovviamente di un cattivo gusto tremendo… fu fatta nel 1981-82, è il mio primo approccio con la pellicola.
Maresco mediatore
Per me avere fatto radio, lo strumento per eccellenza della parola, non significava solo imparare il mestiere, capire che devi avere un ritmo, tagliare ecc., ma rappresentava la necessità di condividere le tue passioni, quello che avevi visto, imparato, che ti era arrivato: un modo per continuare a prolungare un piacere che ti permetteva anche di essere attivo e non solo passivo (in fondo raccontando reinventi, se hai un po’ di fantasia) in attesa di altro, in attesa di potere fare un giorno le tue cose. C’è un altro aspetto: liberarsi dalla soggezione, dal timore reverenziale dell’interpretazione o della cultura che ha un suo rituale. Da ragazzo ero bloccato dai paroloni, gli studi, l’esegetica… Liberarsi dall’idea che è impossibile capire Gadda senza che Contini te lo spieghi. Liberarsi da tutto questo. Per ascoltare Miles Davis non hai necessariamente bisogno di Lewis Porter: anzi, il rischio è che se parti dall’analisi della poliritmia, di quello che succede alla quinta battuta ecc., finisci per non ascoltare. Alla fine impari a trovare un tuo linguaggio delle emozioni, un tuo sistema anche di trasmissione, una libertà conquistata faticosamente, un affrancamento da una visione accademica.
Come molti altri sentivo la necessità di smitizzare il discorso artistico, culturale: il mito della cultura piccolo-borghese mi ha sempre fatto schifo. E in questo senso mi piaceva parlarne e inventarmi un modo diverso di parlarne. Da ragazzo invidiavo quelli che scrivevano di docenti (rarissimi) che ti parlavano di Joseph Roth o di Kafka partendo – che ne so – da un cavatappi. Ti faceva ridere che parlassero delle corse di cavalli e poi arrivassero a Baudelaire, no? Questo era il dono che hanno avuto alcuni, molto in anticipo sui tempi. Banalmente è quello che succede ne L’attimo fuggente, con il professore che incita gli studenti a strappare le pagine del manuale. Se hai questa soggezione dell’arte sei finito. È chiaro che poi ci vuole una mediazione: ma il mediatore te lo scegli tu e comunque non dev’essere un accademico, un istituzionalizzato nel senso polveroso. Mi piaceva parlarne perché mi sentivo libero e quindi era possibile parlarne in un altro modo.
Che cos’è un maestro?
Un tempo avevo un negozio di videocassette, che era tutto tranne che un negozio: oggi potremmo dire, parafrasando A qualcuno piace caldo, che era una copertura. In realtà lì dentro si parlava di tutto, il cliente era quasi un fastidio, l’intervallo di un discorso perso… si riunivano persone stravaganti, perditempo, c’erano litigi, si discuteva di cinema, dell’esistenza di Dio… ma il tema più ricorrente era una prova che sottoponevo ai clienti, chi sopravviveva a questa battuta diventava parte di questo “circolo”. La gente magari veniva per rilassarsi… però diventava una sorta di seduta psicanalitica. Il test era questo: visto che prima o poi dobbiamo morire, e siccome nel frattempo ci saranno le bollette, i debiti, arrivi a casa e la mamma sta male, sta morendo la nonna… sono più le seccature che le cose piacevoli, insomma, e tutto si conclude con la morte. Perché allora, in una sorta di economia esistenzialista, rimandare a domani quello che possiamo fare oggi? E si apriva il dibattito. Quelli che sopravvivevano a questo test, che non si incazzavano ecc., entravano a fare parte di questa specie di scuola.
Non credo di avere veri e propri allievi, ma se devo stare al gioco potrei dire che sostanzialmente il mio primo allievo credo sia stato Ciprì. Era più giovane di me di quasi 5 anni, e per me era una specie di doppio: parlando con lui parlavo con me stesso, si creava una sorta di circolo, e ovviamente anche lui mi dava le sue cose. Possedeva nozioni notevoli, e – non so se lui un giorno lo riconoscerà – credo sinceramente di avergli fatto canalizzare quelle cose che lui aveva già dentro di sé. Che cos’è un maestro se non quello che socraticamente ti fa venire fuori quello che hai dentro? Io questo in fondo avrei voluto trovare, forse a volte ho trovato e a volte no. Non è uno che ti dice quello che devi fare, ma uno che ti apre la porta e ti indica la strada senza nemmeno fartene accorgere. Perché a me piace il jazz? Quello che ho imparato ascoltando il jazz è che se arriva un Duke Ellington o un Miles Davis non ti dice come devi suonare, ma ti dà la possibilità, perché intuisce che hai il tuo talento, ti mette nelle condizioni di poterlo mettere in atto. Ho fatto con Daniele quello che Duke Ellington ha fatto con Johnny Hodges, quello che Miles Davis ha fatto con Coltrane e così via.
Ho sempre delle persone con me che mi porto dietro da anni, perché penso che oggi più che mai si debba fare fronte comune. Dico sempre ai ragazzi che devono trovare la loro strada, ma che se mettiamo assieme una sorta di factory, un luogo di produzione che permette di portare avanti un’idea di cinema, questo aiuta. La mia fissazione è sempre stata quella di fare un gruppo, qualcosa che permettesse di non disperdere quello che si fa in un momento ormai irreversibile in cui non potrai più trovare… se non concentri le forze ed eviti di disperdere i talenti e le esperienze chiaramente non hai possibilità.
Il futuro
Avverto una necessità di condivisione nel segno di una residua forma di vitalità. Una sorta di attaccamento alla vita, a volte in maniera persino biologica. Per quanto io ribadisca la mia visione disperata della vita e dell’esistenza, credo che sia questo – insieme a un sentimento di rabbia che non riesce a diventare mai completamente rassegnazione e autodistruttività, con ciò che ne deriverebbe, ovvero il silenzio – che mi spinge a continuare. C’è anche in questo un’ingenuità e una certa contraddizione, in questo accanirmi nell’esaltare le figure che ho provato a raccontare.
Mi rendo conto del fatto che se dovessi indugiare solo razionalmente il risultato sarebbe l’inazione. Se rifletto due secondi al risultato del film su Franco Scaldati con le scuole c’è da urlare e spaccare tutto.
Pensavo ingenuamente che alcuni dei lavori che ho fatto potessero funzionare nelle scuole. Non è successo per mille motivi: Belluscone passava per essere un film politicizzato, mentre con Gli uomini di questa città io non li conosco ero veramente convinto che potessimo ottenere dalle scuole una risposta. Questo non è successo per niente, a parte rare eccezioni, e ho trovato degli insegnanti che hanno dato delle risposte desolanti.
Pensi che qualcuno (un preside, un insegnante) possa interessarsi: e invece nulla. L’altro giorno al Cinema De Seta raccontavo che alcune scuole dovevano venire a vedere il film e alla fine un’insegnante mi ha detto di averci provato, ma che i suoi colleghi le hanno detto che non era il caso di proporre Scaldati ai ragazzi, perché è deprimente. Quando ti ritrovi di fronte a queste situazioni, è difficile trovare la parola speranza… la vedo nera. In questo senso uno prova, sai che la battaglia è persa, ma come gli eroi del settimo cavalleggeri stai lì a sparare e a provare a fare quello che puoi. Anche se sono sempre più consapevole che sia una battaglia persa, tranne per quei cinque o dieci che possono dirti grazie per quello che hanno visto. Forse allora vale la pena per quei pochi. Ma sarei più tentato di darti le risposte che dà Miles Davis quando gli chiedono perché fa musica, e se pensa al futuro, e lui risponde: non me ne fotte un cazzo. Io stesso ti dico che non me ne fotte un cazzo perché vedo il futuro come un incubo, non solo personale, lo vedo come un incubo per l’umanità. Uno fa, se poi qualcuno riprende il bandolo tanto meglio, ma non sono ottimista.