LA CITTA’ DEI RICCHI E LA CITTA’ DEI POVERI
Pare che la parola welfare sia l’esito dell’unione di due parole dell’inglese antico, wel e faran. Wel significa “in modo soddisfacente” e faran può significare viaggiare ma anche andare avanti. Qualcuno ha provato a tradurre questa parola con “passarsela bene” e in effetti “lo stato del passarsela bene” suonerebbe come una felice espressione, anche se è ironico notare come proprio i viandanti – i wayfarer coloro che “fanno la strada” e cercano di andare avanti nella propria vita lontano da guerre, disastri ambientali, crisi politiche ed economiche – siano oggi i primi per i quali i servizi di welfare non sono più strumenti di protezione ma piuttosto confini di esclusione, strutture di controllo attraverso il concetto, fortemente ideologico, di “scarsità”, e forme di cronicizzazione del disagio.
Ma da cosa il welfare dovrebbe proteggere? Da una economia della disuguaglianza che può fare a meno della maggioranza della popolazione, dove i ricchi producono (in modo immateriale e speculativo), consumano (senza limiti né sostenibilità) e scambiano (dentro mercati sovvenzionati da risorse pubbliche) la maggior parte delle risorse economiche e ambientali e i poveri (sempre moralmente connotati come oziosi, pigri e approfittatori) sono degli stranieri sociali.
Se il welfare diventa esso stesso mercato e non più un suo contrappeso attraverso politiche pubbliche, sono molto diverse le lenti con le quali dobbiamo analizzarlo ma anche le rivendicazioni che dobbiamo avanzare in questo campo. Le lotte contro le privatizzazioni dei servizi sono ancora un terreno di riconquista di diritti sociali di cittadinanza? Ristatalizzare i servizi garantisce oggi anche la ridistribuzione di risorse per l’interesse pubblico, per il bene comune? Se i partiti politici (che rappresentano le élite), i sindacati (incapaci di un progetto culturale complessivo e ridotti alla difesa di corporazioni), le associazioni del Terzo settore (la cui terzietà si affievolisce quando la loro azione diventa un dispositivo di contrazione del costo del lavoro e un lenitivo sociale) non sperimentano, confliggono, rivendicano la difesa di vecchi diritti e la conquista di nuovi, chi sono i soggetti che interpretano, mediano e parlano per il bene comune?
Il welfare non è più un diritto, va meritato attraverso una ginnastica sia intima che pubblica: lo dimostra un linguaggio centrato sulle competenze, sull’attivazione, sulla “condizionalità”, sul rifiuto dell’assistenza intesa sempre come assistenzialismo, sull’empowerment individuale, sulla cultura della povertà da eradicare attraverso i ricondizionamenti ideologici dei media – la campagna contro i percettori del reddito di cittadinanza è stata brutale sulle tv di stato – ma anche dei mondi dell’istruzione e della formazione (dove ormai frankenstein linguistici come intraprenditorialità sono pane quotidiano dei documenti dell’oggi Ministero dell’istruzione e del Merito e il sapere si è ridotto ad uno strumento per il problem-solving).
Non si può eludere il problema della disuguaglianza girandoci intorno con parole come welfare culturale, impresa sociale, partecipazione: alla sofferenza fisica e mentale generata dai processi di cattura della vita e del collettivo da parte del capitale e dei suoi ritmi e tecnologie non si può rispondere con cure placebo. E le lotte per il salario minimo legale e il reddito di cittadinanza non sono opzioni escludenti fra di loro, come invece vuole la vulgata mediatica: tra lavoro e non lavoro è sul reddito che una grossa fetta della classe dei precari, degli esclusi e dei non garantiti può ricomporsi, anche se fatica a riconoscersi come classe in termini di identità, di progetto politico e di formalizzazione di sé.
Lavoratori autorganizzati in diverse forme e settori del mondo della cura, dell’accoglienza e dell’educazione, capaci di stare dentro/fuori dalle identità di assistiti, assistenti, lavoratori, utenti colgono spazi per alleanze, resistenze, forme di organizzazione sul territorio e su programmi rivendicativi comuni.
E poi c’è il welfare mutualistico, conflittuale, solidale, di comunità spontanee in cui misuriamo la nostra capacità di autorganizzazione, connessione e interdipendenza fra territori ma anche i nostri riconoscimenti ideologici, identità politiche, motivazioni materiali o spirituali. L’esperienza del Rifugio Massi, che chiude questa sezione, ci parla di cura e alleanze fra gli umani.