Istituzioni pubbliche e tecnoburocraiza: dentro o fuori?

Nel suo intervento al celebre convegno sulla “Dialettica della liberazione”, sconcertando probabilmente molti dei giovani arrabbiati, hipster e radicali che nel 1967 si erano dati appuntamento a Londra nella speranza che lui, Laing, Cooper, Marcuse, Bateson, Ginsberg e altri guru del movimento controculturale indicassero la via per la “rivoluzione”, Paul Goodman concluse il suo intervento con un inaspettato elogio delle professioni. Fare bene il proprio mestiere – di insegnante, ingegnere, assistente sociale, psicologo, medico, operatore o funzionario pubblico, artigiano o imprenditore – questa la tesi del filosofo americano, porta inevitabilmente a scontrarsi con squilibri, conflitti, oppressioni che sono sempre, anche, di matrice politica: “… quando la società funziona male, e oggi tutte le società più importanti funzionano male, essere un ‘professionista autentico’, o tentare di esserlo, è un fatto in sé stesso rivoluzionario. Esso induce immediatamente in conflitto un’istituzione, e poiché esse sono strettamente collegate l’una all’altra, il conflitto di una si tramuta in contraddizione generale”.
Mi chiedo spesso – “Gli asini” hanno anche questa importante funzione di promemoria – quali siano gli spazi per liberare i conflitti politici, sociali e culturali che incontro nel mio lavoro (ma anche come impedire che travalichino i loro confini fino a impedirmi di fare bene il mio mestiere, professionalizzando per così dire la mia militanza). Da una decina d’anni insegno italiano in una scuola per stranieri di un piccolo comune disperso nella campagna emiliana. 16mila abitanti per una popolazione straniera corrispondente al 10% del totale. Un centinaio di studenti ogni anno, tre corsi per adulti, uno per ragazzini neoarrivati, uno propedeutico all’esame teorico di scuola guida. Se prendessi Gentile e Freinet come rappresentanti di due estremi opposti tra un metodo di insegnamento libresco, frontale e autoritario da una parte e un metodo attivo, libertario e sperimentale dall’altro, la scuola in cui lavoro si collocherebbe sì e no a metà. Forse solo sul piano dell’antiautoritarismo sconfinerebbe palesemente nella metà buona: la presenza di studenti di tutte le età, dall’infanzia alla terza età, l’assenza di voti, test, certificazioni, ma soprattutto l’assenza di obbligo nella frequenza non dà ragione ai miei studenti di provocare o rompere le scatole durante le lezioni e di conseguenza a me e ai miei colleghi di dover ricorrere a metodi autoritari.
In tempi e spazi che mi impongo siano diversi da quelli della scuola, insieme a pochi amici e colleghi, provo a offrire qualche risposta agli squilibri, ai conflitti, alle piccole e grandi oppressioni che gli studenti portano a scuola. Quello che mi muove non è principalmente l’indignazione o il senso di scandalo per le ingiustizie di matrice indubbiamente razzista che spesso subiscono, ma la mia facile suggestionabilità di fronte all’irrazionalità delle procedure istituzionali e delle pratiche di intervento sociale in cui si trovano inseriti. Per la precisione la cosa che in questo periodo mi manda più spesso fuori dai gangheri sono i giri a vuoto, da un ufficio all’altro (sindacati, servizi sociali, centri stranieri, patronati, centri per l’impiego) che vedo fare ad alcuni miei studenti per ottenere qualsiasi forma di aiuto. Giri che evidentemente si verificano in misura inversamente proporzionale agli strumenti di reale integrazione e di autentico sostegno che i servizi, pubblici o del privato sociale, sono in grado di mettere in campo per loro.
Se per qualche anno i nodi conflittuali che mi hanno coinvolto di più sono stati quelli interni al sistema dell’accoglienza a rifugiati e richiedenti asilo (fino alle ultime perverse contorsioni giuridiche della cosiddetta sanatoria), nell’ultimo anno e mezzo, quello di pandemia, i buchi che mi è capitato di provare a tappare più spesso riguardano piuttosto le misure ordinarie e straordinarie di sostegno al reddito e alle fragilità sociali: buoni spesa, bonus Inps, reddito di emergenza, fondi per l’affitto e per la mobilità, contributi per l’acquisto dei libri di testo (e gli strumenti telematici necessari ad accedervi: aperture e utilizzo di posizioni Spid, indirizzi di posta elettronica, Isee, fascicoli sanitari e registri scolastici elettronici). Misure che in molti casi non conosce nessuno (se non i Servizi sociali che li usano più o meno consapevolmente come sistema di premi e punizioni) e che prevedono domande complicatissime e decine di allegati, senza servizi appositi che aiutino nella compilazione e senza nessuno a monitorare lo stato di avanzamento delle pratiche. Tutto questo sarebbe solo noioso da raccontare (oltre che “da fare”), non fosse che temo rappresenterà anche [se non ci fosse da temere che rappresenterà] il modello per distribuire le briciole dei fondi europei per la ripresa che i governi riusciranno a rosicchiare a imprese e finanza.
Lo stato di emergenza sanitaria ha determinato un’accelerazione impressionante di quella che potremmo chiamare “tecnoburocrazia”: la tendenza delle nostre istituzioni a spostare sempre più massicciamente sul Web i propri servizi ma anche le relazioni personali di cui i servizi necessiterebbero per poter funzionare dignitosamente. La tecnoburocrazia sta diventando il nuovo volto dei servizi pubblici – scolastici, sociali, sanitari, previdenziali – i quali stanno abbandonando del tutto non dico il lavoro di comunità, che non hanno mai fatto proprio, non dico il lavoro sul campo, che non fanno più da diversi anni, ma adesso perfino l’incontro diretto, in carne e ossa, con le persone. Questo comporta che l’accessibilità ai servizi pubblici, che in ragione di ciò stanno perdendo quel poco di dimensione pubblica che era rimasto loro, si stia assottigliando sempre di più e che per alcune categorie di persone, in particolare coloro che hanno scarse competenze linguistiche e digitali, risulti pressoché preclusa.
Un’immagine che mi pare renda bene il tipo di intervento che ho tentato di portare avanti in quest’ultimo periodo nel tempo libero dal lavoro è quella del vecchio gioco degli incastri, quelle scatole di legno con buchi di diverse forme in cui i bambini devono inserire tasselli colorati di forme corrispondenti e farli così entrare dentro la scatola. Il lavoro di “integrazione” speso in questo anno e mezzo mi sembra sia consistito nel modellare e comprimere i bisogni delle persone che incontravo in modo che rientrassero dentro buchi che via via si facevano sempre più stretti e deformi.
Mi rendo conto che questo agitarsi, mio e di qualche compagna compagno di strada, per provocare piccoli miglioramenti o per sbloccare situazioni di stallo nella vita di alcune delle persone che incontro a scuola, sia di natura poco più che riformistica e che la sua dimensione politica si riduca solamente ad azioni di pressione su assessorati, servizi socio-sanitari, prefetture, scuole, cooperative, consolati, per citare le organizzazioni con cui ho più spesso a che fare, affinché le loro procedure e i loro servizi diventino più ragionevoli.
Foucault diceva che il potere dello stato è fondato sui rapporti di potere già in atto nella società e che se si vuole cambiare il primo bisogna prima cambiare i secondi: tra i sessi, tra gli adulti e i bambini, all’interno della famiglia, negli uffici e nei servizi, tra i malati e i sani, tra i normali e gli anormali. Non so se sul piano politico avesse ragione, né se il nemico che aveva di fronte sia lo stesso che abbiamo di fronte noi, oggi, ma so che è solo a questo livello di esercizio del potere che mi pare di avere qualche risicatissimo margine di azione. Poi certo, che questo agitarsi più o meno scomposto si coaguli con l’agitazione di qualcun altro fino a diventare movimento di opinione se non politico è un’aspirazione che andrebbe perseguita con più persuasione e radicalità. Ma con quali mezzi? Per quali vie?
I buchi che mi sono trovato a tappare in questo anno e mezzo mi portano a pensare che il problema principale in questo momento, se dovessi dirlo con uno slogan, è più istituzionale che politico. Quello che ho notato dal piccolo osservatorio che ho provato a descrivere è un’evidente tendenza delle persone allo sradicamento e delle comunità alla disgregazione dei legami. Nell’immaginario collettivo e nella retorica pubblica, le istituzioni pubbliche – scuola, enti locali, servizi sociali e sanitari, previdenza sociale – rappresentano ancora uno degli argini organizzati più importanti contro questa tendenza allo “sradicamento” delle persone e dei territori, uno degli elementi fondamentali per tentare di compensare squilibri determinati dalla natura, dal mercato, dalla società. Ma dovremmo ormai essere consapevoli del fatto che non lo sono di per sé. Lo diventano solo a condizione che chi le pensa, le organizza, le realizza, ne richiede i servizi pretenda (e contribuisca a costruirne) alcuni requisiti di fondo: lavoro di prossimità; partecipazione della comunità; necessità del conflitto; collaborazione con le minoranze più attive. Senza questi requisiti le istituzioni rappresentano un fattore di conferma se non di accelerazione delle tendenze allo sradicamento in atto nella società e le persone che vi transitano rischiano di uscirne disintegrate più che rafforzate nella loro autonomia.
Fin qui la tesi. L’antitesi me la offre, ancora una volta, Ivan Illich, in un testo che parla di scuola ma le cui conclusioni, radicali e perturbanti, valgono per qualsiasi nostra istituzione, testo che mi adopererò a ripubblicare e discutere presto anche sulle pagine di questa rivista. Mi riferisco a L’impresa educativa attuale vista con gli occhi dell’emarginato, un discorso tenuto nel 1988 a Chicago e successivamente raccolto in La perdita dei sensi (Libreria Editrice Fiorentina). In quell’occasione Illich suggerì di guardare al fenomeno della dispersione scolastica non “dal punto di vista degli accalappiacani, cioè i direttori didattici, le associazioni di genitori e insegnanti o i servizi educativi” ma da quello di coloro che hanno abbandonato la scuola e di provare a immaginarli non solo come falliti o espulsi dal sistema (a seconda che si consideri il problema da destra o da sinistra), ma anche come dei moderni refusenik, renitenti, disertori: “… le maggioranze povere hanno capito prima e più chiaramente degli esperti governativi che gli obiettivi dello sviluppo in termini di salute, educazione, igiene pubblica, trasporti o diritto alla casa sono stati definiti in maniera stupida e non possono diventare dei vantaggi per la maggioranza della gente”.
Io non so se i miei studenti stranieri abbiano capito che per la maggior parte di loro le condizioni attraverso cui ottenere permessi di soggiorno, promozioni scolastiche, sussidi, case popolari rischiano di diventare a lungo andare alienanti. Così come non sono sicuro di riuscire ad accettare il fatto che sbattermi per comprimere i loro bisogni affinché rientrino nel gioco di incastri dei servizi offerti loro dalle nostre istituzioni sia tempo mal speso: ho diritto di stabilire io per loro se la vita sia meglio dentro la scatola o fuori? Io posso al massimo stabilirlo per me.
Certo quelli di loro che alla fine mi sembra stiano psicologicamente meglio, sono quelli che nella scatola provano ad entrarci, ma con un certo distacco, una certa ironia, magari bordeggiando al limite della legalità e senza convogliare tutte le energie e le spinte vitali entro quell’unico orizzonte.
Tra la tesi dell’integrazione a tutti i costi e l’antitesi di un rifiuto più o meno consapevole del prezzo che le istituzioni chiedono in cambio ho imparato a non cercare una sintesi. L’importante, così Foucault, è non utilizzare il pensiero per conferire a una pratica un valore di verità. Meglio continuare a sforzarsi di accalappiare ragazzini stranieri che la scuola tende a espellere o perdere pomeriggi per aprire posizioni Spid semplicemente per il fatto che si è suggestionabili, senza raccontarsi che la scuola è quel baluardo di istruzione, benessere e democrazia che continuiamo a millantare o che il permesso di soggiorno è una via alla piena cittadinanza.
Anzi, penso che fino a quando non impareremo a considerare le istituzioni pubbliche, ma anche le organizzazioni in cui militiamo, come accessorie, marginali, al limite ininfluenti nella vita delle persone è improbabile che riusciremo mai ad apportare loro qualche miglioria.
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