Invecchia bene Ammaniti?
Prendete un po’ di pulp, mescolatelo a un accenno porno, a una buona dose di violenza e di abbondante ironia grottesca, non dimenticate infine di aggiungere il tema adolescenziale (l’ingrediente segreto) e avrete i racconti di Niccolò Ammaniti, il più popolare scrittore giovanilista da vent’anni a questa parte. L’eterno scrittore giovane per giovani si avvicina ai suoi cinquant’anni (è nato a Roma nel 1966) ed è tempo per lui di bilanci, con una nuova raccolta di racconti, Il momento è delicato (Mondadori 2012), un’antologia dei suoi racconti migliori, a ritroso, usciti su giornali, riviste e varie antologie, dal primissimo del 1993 a un inedito finale, passando per un paio scritti a quattro mani con l’amico sceneggiatore Antonio Manzini.
Il racconto è un genere che Ammaniti ama e nel quale si trova in estremo agio, come racconta in un paio di aneddoti nell’introduzione, che spiegano anche il titolo della raccolta: se, infatti, il romanzo è “una storia d’amore” (ossessiva e dolorosa per lo scrittore che lo scrive), il racconto è invece “la passione di una notte” che si può affrontare con più leggerezza e godimento, il campo di prova dove mettere all’opera le proprie abilità migliori. Proprio dalla forma breve – racconto lungo o romanzo breve è lo stesso – lo scrittore romano ha tratto le prove migliori, come Io non ho paura e Io e te, che gli sono valsi una popolarità pari quasi a quella di Baricco, un altro scrittore nazional-popolare amato dai giovani. Lo scrittore torinese, che ha appena pubblicato Una certa idea di mondo (Gruppo editoriale l’Espresso), le sue cinquanta recensioni ai relativi cinquanta migliori libri del decennio pubblicate ogni settimana su “La Repubblica”, non è qui citato a caso. Non perché compete con Ammaniti per numero di copie vendute e best-seller, ma perché come lui è uno scrittore degli anni novanta, della fuga e dell’evasione dal secondo boom del Novecento italiano, il boom dell’Italietta berlusconiana.
I novanta sono stati forse il decennio più ricco e benestante per il nostro paese dopo gli anni sessanta: in continuità con i futili e consumistici ottanta, hanno visto la nascita della televisione privata, l’ascesa delle piccole e medie imprese, e quindi delle province ricche, l’immigrazione e con essa il sorgere della xenofobia e del razzismo, la crescita delle mafie, nonché l’inizio del ventennio berlusconiano con i suoi trionfi politici e cultural-televisivi. Mentre l’Italia mutava un’altra volta, in un modo forse ancora più provinciale, gretto e definitivo, i giovani esordienti cercavano vie di uscita e di distrazione, oppure affrontavano con cinismo gioioso un presente sempre più magmatico e violento. Se, infatti, Baricco proponeva un’evasione poetica e postmoderna all’acqua di rose, iperletteraria, con i primi Castelli di rabbia e Oceano mare (rispettivamente 1991 e 1993 entrambi Rizzoli), il fenomento Ammaniti esplodeva con il romanzo Branchie (Ediesse 1994 poi Einaudi 1997) e i racconti di Fango (Mondadori 1996), sdoganando definitivamente nel nostro paese la fiction di matrice pulp. Ammaniti e Baricco hanno interpretato, dunque, due forme diverse di uno stesso, volontario, distacco dalla realtà.
In Branchie, romanzo che Ammaniti ha scritto da studente di chimica, in implicita protesta, al posto della tesi di laurea, e che circolò all’inizio in forma pressoché underground, l’eroe Marco Donati, esperto nell’allestimento di acquari, scappa dalla Roma dei Parioli e del Centro per un’avventura in un’India post-fantascientifica. In Fango i due estremi sono l’apocalisse immaginata dalle villette di un comprensorio sulla Cassia, nel racconto L’ultimo Capodanno, e il realismo crudo di un giovane arrivista della malavita romana nel racconto che dava titolo al libro, col sottotitolo Vivere e morire al Prenestino. Il fascino per la “fine del mondo” e l’accumulo di elementi grotteschi, oltre alla violenza pulp, sono due caratteristiche care alla narrativa ammanitiana, presente anche nel più recente Che la festa cominci (Einaudi 2009), il racconto di una festa catastrofica ambientata a Villa Ada, uno dei parchi pubblici di Roma, trasfigurata da un futuro dispotico e con al centro la lotta per il controllo dei salotti letterari tra uno scrittore giovanilista non più giovane e un esordiente emergente (enorme esorcizzazione autoironica di Ammaniti per l’ascesa di Paolo Giordano).
Il primo tentativo è anche il primo romanzo vero e proprio in cui l’autore mette in campo tutte le sue abilità tecniche (l’accumulo, il parallelo, i flashback), e accenna i suoi temi prediletti come la solidarietà tra adolescenti e la descrizione di una provincia iperrealista e grottesca. Ti prendo e ti porto via è un romanzone poco riuscito che tende al melodramma con caratteri adulti troppo a soggetto e un contorno ambientale costruito ad hoc, come la provincia depressa della bassa Maremma tra Toscana e Lazio. Nel libro l’aspetto più riuscito è proprio l’amicizia tra due giovanissimi, Pietro e Gloria, compagni delle scuole medie, il primo d’origine proletaria e problematica e la seconda d’origine borghese, i quali a partire dalle loro differenze, manifestano curiosità e affetto l’uno per l’altra. Nel finale tragico e prevedibile, il personaggio di Pietro confessa proprio all’amica che ha scelto la strada del delitto – il romanzo ha infatti un andamento da noir – come unica possibilità per scappare dal paesino e da un futuro segnato.
Ma Ti prendo e ti porto via è solo una prova generale per l’opera successiva, quella che lo consacra e che non avrà eguali in seguito: con Io non ho paura (Einaudi 2001) Ammaniti raggiunge la concisione e la perfezione nel racconto di una solidarietà adolescenziale al tempo e nei luoghi, senza tempo e in qualunque luogo del Sud Italia, della mafia. Il libro è riuscito anche perché è la sintesi orrorifica, nella forma e nel contenuto, del male da parte di un bambino, senza moralismi e pietismi, con un respiro quasi biblico che rimanda ad Abramo e Isacco della Genesi. Al centro del racconto vi è Michele Amitrano, un bambino di 9 anni che scopre, in un’estate afosa, in una masseria abbandonata al centro di un campo di grano, un buco nel terreno. Lì è imprigionato Filippo, un suo coetaneo, figlio di una famiglia ricca del nord, sequestrato con la collusione della famiglia di Michele e di altri abitanti del paese in cui vive, al fine di ottenere un riscatto. Dall’identificazione con il rapito, con cui instaura un rapporto di amicizia, nasce in Michele un senso di profonda ingiustizia che lo spingono quasi a sacrificarsi al posto dell’amico, verso un epilogo tragico. Sebbene sia un thriller riuscito, che incrocia sapientemente la solidarietà tra giovanissimi in un contesto mafioso, Io non ho paura ha ottenuto un consenso generale spropositato: trattamento cinematografico da parte di Gabriele Salvatores, tradotto in tutte le lingue, ma, soprattutto, presente in quasi i tutti programmi delle scuole medie inferiori e superiori come, spesso, unica lettura aggiuntiva ai libri di testo, perché palliativo – politicamente corretto – della retorica antimafia alla moda. Inoltre il titolo del libro è diventato rapidamente uno slogan del professionismo antimafia. Insomma da pregevole romanzo breve sull’adolescenza che scopre il male degli adulti, Io non ho paura si è trasformato, suo malgrado, in strumento di educazione civica superficiale.
Gli effetti di questo consenso da parte del pubblico si sono ripercossi sul successivo e ambizioso Come dio comanda (Mondadori 2006), col quale Ammaniti ha vinto sì un premio Strega, ma che è paradossalmente la sua opera meno riuscita. In questo poderoso romanzo, da cui è stato tratto anche un brutto film – e forse il libro era piegato già da esigenze di sceneggiatura salvatoresiane – Ammaniti ha ambito a raccontare il degrado della provincia gretta del Nord-Est attraverso la vicenda del neonazista e violento personaggio di Rino Zena, di suo figlio Cristiano e della banda di balordi amici che li circondano. Oltre a non trovare uno sviluppo convincente della vicenda tra thriller e cronaca violenta (sempre costruita col metodo dell’accumulo fino all’esplosione apocalittica), in Come dio comanda è poco credibile la relazione filiale e non riesce il tentativo di dare vita a una solidarietà tra un adolescente solitario e problematico e un padre che diventa comunque portatore di valori, anche se discutibili. Come dio comanda vorrebbe essere una fotografia del degrado morale e fisico dei losers, il sottoproletariato italiano di questi anni, riscattato, nonostante la violenza urtante dei dettagli, dalla relazione padre e figlio, soprattutto dal figlio come testimone di questa relazione. Ma è proprio la figura paterna che non sta in piedi: contradditoria e poco definita, non è comprensibile nelle sue azioni e motivazioni, quasi che fosse una somma di personaggi e individualità male amalgamate tra loro.
Ammaniti ritorna alle atmosfere di Io non ho paura, rinunciando alla prolissità e al senso di oppressione di Come dio comanda,con Io e te (Einaudi 2010). Al cuore di questo nuovo racconto vi è ancora una volta l’adolescenza e la crescita, affrontata senza pudore e con l’estrema facilità di scrittura a cui è giunto l’autore romano. Se in Io non ho paura il bambino era stato messo a forza di sequestro nel pozzo, in questo è il protagonista Lorenzo Cuni, figlio della “Roma bene”, a scendere volontariamente nel buco, barricandosi nella cantina del suo palazzo per trascorrere la sua settimana bianca all’oscuro dei genitori. La fuga è dalla sua nevrosi e il rifugio è nel proprio universo fatto di etologia da documentari televisivi per le strategie di difesa animale, la Playstation per giocare ai videogiochi, la Coca Cola e i biscotti per nutrirsi e i romanzi di Stephen King per spaventarsi. Un equilibrio perfetto. Ma il piano va in fumo con l’arrivo improvviso della sorellastra artistoide e tossica, la scheletrica Olivia, con la quale il bambino è costretto a stringere un patto di conservazione e aiuto reciproco – ancora la solidarietà tra quasi-simili – a confrontarsi col mondo degli adulti e, infine, a fidarsi di una “sorella maggiore” anche se anomala e malata. I meriti di questo racconto sono proprio nella sua brevità e nella sua efficace immediatezza: Ammaniti riesce a descrivere una nevrosi adolescenziale, a delineare l’incapacità di saper stringere rapporti autentici a scuola, un analfabetismo emotivo, a svelare un nucleo famigliare borghese nella sua fragilità fallimentare e a raccontare la nuova tossicodipendenza dei ventenni. In poche pagine riesce a concentrare tutto questo anche col non-detto, tanto che c’è spazio per un mini-racconto fantascientifico al capezzale di una nonna malata terminale di cancro (unico vero adulto credibile nel libro), un racconto su un robottino programmato per ripulire piscine e che finisce per sterminare per sbaglio il mondo intero come un virus. Io e te è forse il libro più ottimista di Ammaniti, più serio, perché non rappresenta tanto l’attraversamento della linea d’ombra, ma la speranza che questo avvenga.
Il convincente film che ne ha tratto Bertolucci ha chiarito forse ancora di più il senso di questa favola contemporanea. La fuga nella cantina di Io e te ricorda il tema del racconto La porta che Franco Lucentini incluse nella prima edizione di Notizie dagli scavi del 1964, metafora del tentativo di un popolo di sopravvivvere al dopoguerra. La distanza tra i racconti è che all’epoca c’era un popolo, oggi ci troviamo a fare i conti col nulla, ma a partire da questa assenza Ammaniti ha compreso che l’adolescenza è il terreno più vitale e interessante di cui parlare.
La raccolta Il momento è delicato sembra confermare che Ammaniti voglia tenere insieme queste due anime giovaniliste: autore pulp di consumo e autore adolescenziale più riflessivo. Col senno di poi, la gioventù cannibale, quella formata dagli scrittori dell’omonima e pubblicitaria raccolta einaudiana, ha prodotto opere in cui la questione generazionale, il fare i conti coi padri, è più una parodia, la finzione di una finzione. Ma all’inizio la scrittura di Ammaniti sembrava una contestazione alla famiglia e ai suoi valori borghesi, come l’università, i soldi e il successo. Una rottura, a onor del vero, sempre soft, leggera e distaccata, grazie all’ironia e all’autoironia dell’autore. Ne Il momento è delicato Ammaniti ha raccolto anche i quadretti adolescenziali che scrisse per un libro a quattro mani col padre Massimo, noto psicanalista e professore, intitolato Nel nome del figlio. L’adolescenza raccontata da un padre e da un figlio (Mondadori 1996). Questi racconti, in tutto sei, vanno sotto il titolo comune di Rane e girini e compongono un mosaico quasi di esempi-studio di situazioni critiche famigliari e adolescenziali in ambiente borghese: il litigio per la zuppiera di pastasciutta caduta in terra per la vivacità dei figli, la “prima volta”, la prima esperienza sessuale, il desiderio per il motorino negato, la piccola borghesia conformista in vacanza, la fuga alla Tom Sawyer sul regionale per Genova dove imbarcarsi e scappare dai genitori. In questi brevi quadretti c’è già tutta la poetica adolescenziale di Ammaniti: il saper raccontare l’insofferenza dei giovani nei confronti degli adulti, ma sopratutto la solidarietà tra giovani, forse il tema più riuscito e a misura della sua scrittura.
Mentre la letteratura americana vedeva la comparsa dei romanzi di Bret Easton Ellis, come Meno di zero e American Psyco, in cui la devastazione morale e fisica, interiore ed esteriore, dei giovani yuppie borghesi degli anni ottanta raccontava il disorientamento e la perdita di senso della società intera, qui in Italia, più modestamente, facevamo i conti, grazie alle prime prove di Ammaniti, con la perdita di senso della politica, passando per la violenza della cronaca e di una classe media volgare disposta a tutto pur di ottenere ciò che desidera. In questo contesto i racconti di Ammaniti sono delle favole horror splatter, in cui il protagonista trova spesso una morte ridicola e assurda, come in Fa un po’ male, il racconto di una notte in cui uno studente, cinico e spietato, si perde in campi rom pieni di mostri, incrocia nazisti omofobi e, sorpattutto, incontra un killer di transessuali. I primi libri sono, appunto, modesti, ma lasciano intuire una qualità di scrittura molto spontanea/naturale e dal consumo veloce, un talento innato e disinvolto. Se i lettori adulti storcevano il naso, i giovani hanno subito sostenuto lo scrittore come un musicista rock alle prime armi che impara a suonare suonando. Per certi versi, Ammaniti rappresenta una figura nuova nel panorama italiano: è uno dei nuovi scrittori mestieranti, dedito unicamente all’intrattenimento puro dei suoi lettori e senza ambizioni di politica culturale. Si potrebbe dire che se le opere di Stephen King sono l’equivalente letterario del Big Mac con le patatine, come disse in una famosa intervista, quelle del romano Ammaniti sono l’equivalente del panino con la mortadella e dei supplì. La sua è una proposta limitata all’obiettivo di far divertire il lettore, tant’è che nell’ultimo racconto di Il momento, intitolato Apocalisse in forma epistolare, vi si immagina l’ennesima curiosa e ironica “fine del mondo”, in cui tutte le cose che procurano piacere e benessere, dalle più semplici come i dolci al sesso, a quelle addirittura più vitali come respirare l’aria e bere l’acqua, si siano trasformate, nell’ora estrema, in atti dolorosi e torturanti. E quindi l’invito finale all’amica lontana a cui è indirizzata la lettera è supervitalistico e gioioso, valido anche per tutti i suoi lettori rispetto a un presente inutile e deprimente: “Se a voi non è successo, dovete pensare che la vita che vivete è meravigliosa, gustatene ogni secondo, respirate a pieni polmoni, correte, baciatevi, scopate.”