Internalizzare i servizi per cambiarli!
Siamo una rete di persone che lavorano nei servizi sociali ed educativi e che fanno ricerca e formazione sul welfare nelle università e in altri contesti. Dal 2021 attraverso ricerche, formazione e appoggio alle mobilitazioni, proviamo a costruire uno spazio di scambio e riflessione sulla crisi del welfare pubblico e del lavoro sociale e sui modi in cui affrontarla nel modo più consapevole e attivo possibile, per potere un giorno, insieme ad altr*, arrivare a risolverla.
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“Facciamo attenzione: qui non siamo dicendo che il pubblico che c’è è una gran figata: nessuno vuol dire che il pubblico che c’è va bene: perchè è frammentato, privato di risorse. Noi siamo qui per pensare ad un altro welfare e ad un altro pubblico. La questione qui è dire “ci sono dei diritti che sono di tutti: ma il disabile lombardo o dell’Emilia Romagna, che in una maniera o nell’altro un’assistenza la trova, vale di più di un disabile in Sicilia o in Puglia? Cioè ma i diritti sono uguali dappertutto! Ci vuole il pubblico perché il pubblico deve garantire i diritti di base dappertutto e non contrapporre diritti degli utenti e diritti di chi lavora”
Laura Castellani, ex operatrice sociale e delegata sindacale, intervento al laboratorio seminariale “Che cos’è Welfare Pubblico?”, Università di Padova, 1-2 Ottobre 2022
È finito settembre, mese di riprese. Il ritmo lento dei giorni estivi ha lasciato spazio a quello più sostenuto del rientro. Studenti e studentesse sono tornate in classe. Enti e cooperative sociali hanno ripreso le loro attività a pieno ritmo. Precari e precarie della scuola attendono di ricevere una chiamata per conoscere la forma che i loro incarichi prenderanno quest’anno. Insomma, è arrivato il momento anche per il nostro laboratorio di riprendere le fila. Nei mesi scorsi abbiamo pubblicato una serie di approfondimenti sul tema dell’internalizzazione dei servizi, che è una delle proposte più calde e dibattute tra chi si occupa di lavoro sociale. In questo intervento vogliamo affrontare alcune critiche a questa proposta emerse negli scambi con le persone che abbiamo incontrato negli ultimi anni e le riflessioni che queste conversazioni ci hanno ispirato.
Partiamo dal ricordare di che cosa parliamo quando diciamo “internalizzazione dei servizi”. L’internalizzazione è un’alternativa alle politiche di esternalizzazione con cui gli enti pubblici delegano la fornitura dei servizi a soggetti privati o del terzo settore che sono scelti, tipicamente, in base alla loro capacità di garantire risultati riducendo al minimo i costi. L’internalizzazione rifiuta questa logica di competizione al ribasso e propone invece di sostituire bandi, forniture e appalti con un sistema di incarichi e assunzioni nel quale lavoratrici e lavoratori dei servizi siano considerati dipendenti pubblici e quindi ottengano pari tutele, garanzie e risorse. Nata dalle proteste di educatori ed educatrici che lavorano nelle scuole ma ricevono stipendi ancora più bassi di quelli degli insegnanti precari, la proposta dell’internalizzazione è diventata una campagna più ampia, contro i tagli e le politiche privatizzazione, e a favore di un welfare che sia capace di tenere insieme la qualità dei servizi con la tutela delle condizioni di lavoro di chi, nei servizi, ci lavora.
Di fatto, quindi, la prospettiva di una internalizzazione restituisce alle istituzioni pubbliche un ruolo e una responsabilità sostanziali sia nel finanziare sia nel tutelare i servizi, in questi caso quelli sociali. Come queste interpretino questo ruolo, tuttavia, è una questione aperta e non priva di tensioni.
Alcune di queste tensioni le abbiamo intraviste. Ad esempio, l’idea di una internalizzazione può essere adottata dalle istituzioni ma, svuotata delle sue richieste di cambiamento più radicali. In questo caso si trasforma in una proposta vaga, da offrire come una sorta di contentino riservato solo ad alcune delle molte figure professionali che compongono questo settore, come nel caso della proposta di legge della senatrice Bucalo. C’è anche il rischio che sia chi lavora a pagare le conseguenze dell’internalizzazione. Questo sembra proprio essere il caso del processo di internalizzazione prospettato dall’Asl di Napoli centro. Qui, la decisione dell’Asl di riprendere una parte dei servizi di salute mentale che erano stati precedentemente affidati a un consorzio locale di cooperative ha portato queste a decidere di lasciare a casa i lavoratori. Noi pensiamo che l’internalizzazione non debba essere semplicemente un cambio di datore di lavoro bensì un processo che riconosce le competenze che il personale ha sviluppato sul campo per con il duplice obiettivo di tutelare le condizioni di lavoro e garantire la continuità dei servizi.
Insomma, lungi dall’essere un sentiero privo di ostacoli, l’internalizzazione solleva una serie di punti di domanda che vale la pena affrontare. Alcuni di questi nodi riguardano questioni concrete, come ad esempio i modi diversi in cui la proposta dovrebbe essere tradotta nei vari ambiti del welfare esternalizzato o come garantire che questo processo avvenga in modo da tutelare lavoratori e lavoratrici. Altri punti di domanda, invece, sono più profondi e portano a ragionare sui modelli di welfare, sulla loro capacità di rispondere davvero ai bisogni sociali.
La proposta di una internalizzazione infatti non è semplicemente quella di riconsegnare (o consegnare ex novo, in alcuni casi) i servizi alla gestione pubblica, così per come la conosciamo ora. Al contrario, vuole essere un’idea ambiziosa che spinge a ripensare profondamente il sistema di welfare. Nello scorso articolo eravamo arrivati proprio a questo punto. L’internalizzazione è il punto di arrivo di una battaglia necessaria per migliorare le condizioni di lavoro di operatori e operatrici ma è anche il punto di partenza, altrettanto urgente, per nuove e vecchie battaglie sulla qualità dei servizi, la loro funzione pubblica e il senso di questo lavoro. Il welfare con cui oggi abbiamo a che fare è fatto spesso di servizi standardizzati, rigidi e limitati. Bandi, partnership e co-progettazioni hanno trasformato il terzo settore in un gestore sottopagato il cui ruolo è quello di eseguire prestazioni con cui tamponare situazioni di bisogno. In questo contesto di crisi permanente, quello di cui abbiamo bisogno, davvero, è un cambiamento e una reinvenzione emancipativa del settore pubblico. L’internalizzazione è una prospettiva che ha il potenziale di aprire spazi per questo cambiamento.
Prima di discutere di come l’internalizzazione dei servizi potrebbe favorire processi di cambiamento e innovazione, vogliamo citare due delle critiche che abbiamo incontrato più frequentemente nelle conversazioni con le persone che oggi lavorano nel sociale. Entrambe queste critiche esprimono una certa disaffezione nei confronti del pubblico e la paura che la scelta di internalizzare i servizi si traduca inevitabilmente in prestazioni rigide, incapaci di rispondere con flessibilità alla complessità dei bisogni sociali – insomma, come ci veniva detto, “senz’anima”. È importante affrontare queste critiche. Serve a riconoscere preoccupazioni diffuse, ma anche a evitare che i timori che le animano fermino l’immaginazione politica di cui, invece, abbiamo bisogno.
Il sociale è nato ribelle. La prima critica ha radici nel timore di perdere la propria indipendenza e di essere fagocitati da un sistema pubblico burocratico e lontano dagli utenti, quando non esplicitamente oppressivo. In effetti, la storia del lavoro sociale nel nostro paese è legata alle esperienze di organizzazioni che nascono autonome, dal basso. Nel corso degli anni 70, professionisti politicizzati, leader carismatici, volontari, militanti, collettivi femministi e gruppi di parrocchiani illuminati diedero vita a una serie di esperienze di servizio che si caratterizzavano come alternative al pubblico. Ad un modello pubblico centralizzato, spesso carente, la nascente cooperazione sociale contrappose servizi decentrati, innovativi, animati da valori di giustizia sociale e solidarietà. Questo spirito antagonista continua a motivare tante persone che scelgono di lavorare nel sociale. “Abbiamo visto chi ha vinto le elezioni” – diceva intervenendo al nostro laboratorio seminariale Greta Rossi, operatrice, riferendosi al successo elettorale di FdI – “vogliamo dare i servizi in mano a questa gente qui?”. Queste preoccupazioni sono condivisibili e, sebbene si tratti di una generalizzazione, è vero che il sociale rimane un ambito di sinistra, dove chi lavora cerca di portare avanti pratiche antirazziste e di ricomposizione. Apprezzare questo ruolo, tuttavia, non può tradursi in una visione romanticizzata del terzo settore o in una sua difesa incondizionata. Ci sentiamo davvero di definire il sociale di oggi come antagonista? In primo luogo, bisogna ricordare che le politiche di esternalizzazione limitano molto la possibilità delle organizzazioni di giocare un ruolo alternativo. Inoltre, la fascinazione per l’imprenditorialità sociale ha trasformato molte organizzazioni in semplici fornitori in un mercato di servizi. Così queste, alla lunga, diventano complici dei processi di privatizzazione dei servizi, piuttosto che agenti con un ruolo di stimolo, critica e innovazione. In secondo luogo, il nodo del lavoro resta irrisolto, perché i valori che le organizzazioni professano nei loro statuti non si applicano poi alle condizioni di lavoro. Stipendi bassi, lavoro oltre l’orario, precariato e ricatto motivazionale sono la norma anche tra enti che si percepiscono più illuminati.
Le persone che lavorano nei servizi devono poter continuare a resistere ai processi che trasformano il diritto alla cura in carità o in disciplina. Lo potranno fare però solo con gli strumenti adeguati: avere accesso alle tutele e ai diritti conquistati dai lavoratori pubblici potrebbe essere un primo passo. Sempre dal punto di vista di chi lavora, un altro passo sarebbe ridurre al minimo le ore extra-orario, che oggi finiscono in banca ore o in straordinari non dichiarati: lavorare meno, pagati meglio. Il tempo così liberato potrebbe, oltre che permettere semplicemente di vivere più pienamente la propria vita, liberare energie anche per la militanza e l’impegno civile per una società più giusta. Per quanto riguarda invece il livello delle organizzazioni, meno gli enti di Terzo Settore resteranno impigliati nel ruolo di erogatori al ribasso di servizi in un sistema al collasso come è quello attuale, più potranno forse recuperare l’autonomia necessaria a essere soggetti politici del cambiamento.
Ma tu ce l’hai presente il pubblico? La seconda critica esprime lo scetticismo profondo che alcuni di noi provano nei confronti del pubblico, spesso inteso come sinonimo di una gestione centralizzata statale, e la sfiducia nella possibilità di trasformare questo modello. Pur essendo critici nei confronti delle proprie condizioni di lavoro, molti degli operatori e delle operatrici del privato sociale che abbiamo incontrato in questi anni non si immaginano come lavoratori pubblici. Alcuni fanno notare la rigidità e la solitudine di molti lavoratori pubblici e la contrastano con le pratiche di lavoro più collaborative che caratterizzano, invece, molti enti del terzo settore. Altri dipingono con una certa ironia ex-colleghi che, una volta lasciato il sociale per un posto pubblico, si sono “ingrigiti, inaspriti, trasformati in passacarte senza più spinta né passione”.
Queste osservazioni, anche quando finiscono per ritrarre la realtà in modo caricaturale, derivano di solito da esperienze dirette di collaborazione, incontri d’equipe, tavoli territoriali e commissioni multidisciplinari. Tuttavia, la tendenza a dipingere il pubblico come irrimediabilmente inefficace ci sembra parziale e pure, potenzialmente, pericolosa. Ideologicamente infatti questa prospettiva è molto vicina alle politiche che propongono di smantellare il pubblico e di abbandonare l’investimento diretto da parte dello Stato in servizi di welfare per sostituirlo con politiche che favoriscono gli interessi privati, o affidano “alla comunità” e al volontariato quel dovrebbe essere un diritto. In questo contesto, ipotizzare che gli enti del terzo settore siano più bravi, più veloci, più efficienti, più innovativi, più dedicati agli utenti, ci ricorda molto di più le logiche utilizzate per giustificare lo smantellamento progressivo di servizi essenziali (quali la sanità) che la voglia di recuperare una tradizione di partecipazione democratica e decentramento.
Alcuni dei servizi oggi gestiti dal pubblico hanno dei limiti oggettivi. Questi limiti tuttavia non derivano dalla gestione pubblica in sé, ma sono anche la diretta conseguenza di decenni di tagli, mancanza di investimento, e politiche neoliberali che hanno ridotto intenzionalmente gli spazi sottoposti a controllo democratico e portato a un livellamento verso il basso delle condizioni di lavoro, anche nel settore pubblico. L’inversione di rotta suggerita dalla prospettiva dell’internalizzazione punta invece a livellare verso l’alto ricordando che servizi di qualità hanno bisogno di investimento stabile e tutela.
Costringere il pubblico a trasformarsi!
Il sistema dei servizi deve essere trasformato. Per sostenere questo cambiamento, abbiamo bisogno di condizioni che facilitano l’apertura di spazi di immaginazione, critica e sperimentazione. La prospettiva dell’internalizzazione ci sembra offrire questa opportunità. Internalizzare, infatti, non vuol dire accettare il pubblico così com’è.
Per rispondere alle obiezioni richiamate più sopra, proviamo a rovesciarle: e se il sociale potesse tornare a essere ribelle soltanto uscendo dal sistema delle esternalizzazioni che lo hanno trasformato in gestore di servizi impoveriti? E se pensassimo l’internalizzazione come l’ingresso in massa nel settore pubblico di operatrici e operatori motivati a cambiarlo in senso più democratico e trasformativo?
* Laboratorio Welfare Pubblico. Siamo una rete di persone che lavorano nei servizi sociali ed educativi e che fanno ricerca e formazione sul welfare nelle università e in altri contesti. Dal 2021 attraverso ricerche, formazione e appoggio alle mobilitazioni, proviamo a costruire uno spazio di scambio e riflessione sulla crisi del welfare pubblico e del lavoro sociale e sui modi in cui affrontarla nel modo più consapevole e attivo possibile, per potere un giorno, insieme ad altr*, arrivare a risolverla.
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