Infortunistica
Esistono gli “infortuni sul lavoro”, o meglio l’infortunio sul lavoro con la sua singolarità, e qualcuno, pur dichiarando di non essere cinico, dice che gli infortuni ci sono sempre stati e continueranno a esserci; dagli infortuni trae origine un “fenomeno infortunistico”.
Esistono gli “infortuni sul lavoro”, o meglio l’infortunio sul lavoro con la sua singolarità, e qualcuno, pur dichiarando di non essere cinico, dice che gli infortuni ci sono sempre stati e continueranno a esserci; dagli infortuni trae origine un “fenomeno infortunistico”. Quasi sempre infortuni e fenomeno infortunistico entrano nell’orbita dell’assicuratore, dello specialista della materia, del moralista, del sociologo e del sindacato; gli “infortunati”, o meglio l’infortunato in carne e ossa, nel caso sopravviva all’evento, entrando in una sorta di clandestinità, deve fare i conti, da solo o sostenuto dalla sua famiglia, tutelato spesso da un “patronato” sindacale, con il danno alla salute, gli esiti del suo infortunio, la rabbia, la dignità e con il proprio futuro.
Ogni infortunio sul lavoro è giustamente da considerare come superfluo, inconcepibile, considerando sia che chi lo subisce occupa un posto di lavoro e produce in cambio di un salario necessario per sostentare se stesso e i suoi, sia perché da sempre prevalgono indirizzi naturali e positivi sufficienti per contrastare gli eventi lesivi violenti pur possibili a causa e in occasione del lavoro. Si legge nel Deuteronomio (22,8): “Quando edificherai una casa nuova, farai un parapetto intorno al tuo tetto, per non metter sangue sulla tua casa, nel caso che qualcuno avesse a cascare di lassù”. Già ai tempi in cui la Bibbia è stata concepita sono in vigore misure preventive e riferimenti precisi su chi è competente per la loro messa in opera e quindi su responsabilità civili e penali.
Raramente nel determinarsi di un infortunio entra in gioco una sola causa materiale; più spesso si sommano più fattori determinanti, alcuni “immateriali” legati anche alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore, altri organizzativi, fatti valere da condizioni, azioni od omissioni imposte da altri, dai padroni o dai caporali di turno o dalle istituzioni e dai loro rappresentanti. Meglio di tante relazioni ufficiali o di una delle rare sentenze giudiziarie, due brani letterari (V. Pratolini, Metello. Una storia italiana, Firenze, Vallecchi 1955, pp. 107-108; pp. 399-400), sono capaci di rendere conto delle complessità dei problemi che si possono rilevare e far valere in occasione di un infortunio sul lavoro, ma principalmente dell’istinto e della voglia di autotutela che il lavoratore interessato è capace di esprimere a meno che non sia sopraffatto da ostacoli o errori irrimediabili di altri.
(…) Trascorsero così due ore, saranno state le dieci, le dieci e un quarto, Metello affondava la cazzuola nella calcina, quando sentì un urlo, che durò un baleno e fu sepolto dal tonfo di un corpo andato a schiacciarsi sulla massicciata. Quinto Pallesi era precipitato dall’impalcatura. Qualche minuto dopo, l’avevano sollevato e portato sotto la tettoja, disteso su una porta, lo sorreggevano alla nuca; il sangue gli colava di sotto l’attaccatura dei capelli e gli si spandeva sul viso, non riparavano a tamponarlo. Il suo sguardo era sempre vivo, balenante, più che di dolore di collera sembrava; respirava a fatica, gli riunirono le gambe e dette un grido; ansimava, diceva: “Mi è venuta a mancare la ringhiera. Non ho fatto in tempo a riprendermi”. Adesso era Metello che stando in ginocchio, gli teneva la testa e gli tamponava il sangue. Dall’altro lato c’era l’Ingegnere. “No, non ce l’ho con lei” ansimava Quinto. “Non ce l’ho con nessuno. Il legno si era infraciato, o la giuntura ha ceduto. Ero io che ci dovevo badare. La pelle è la mia”. Digrignò i denti per il dolore, volse la testa e incontrò lo sguardo di Metello, sembrò abbozzargli un sorriso: “Hai visto?” gli disse. “Non ci siamo mai conosciuti bene, come mai?”. Ansimava, e le sue parole eran già diverse: “Se non avesse piovuto! Sono anche scivolato. Con l’asciutto mi sarei agganciato”. Si agitava: “Portatemi all’Ospedale, fate presto”. “Sono andati a chiamare la Misericordia, stai calmo” gli ripeteva l’Ingegnere che aveva la faccia color fango e pareva gli si inumidissero gli occhi. “Andate anche a casa mia, subito. Subito. Fateli venire tutti all’Ospedale. Anche i ragazzi, mi raccomando. Armanda, Ersilia e anche il bambino, fate venire anche Carlo. Tutti e tre, la mamma e i due ragazzi… Armanda, Ersilia, Carlo… Armanda, Ersilia… Merde les généraux…”. Ora già delirava (…).
(…) Dietro Badolati veniva il piccolo Renzoni, già al suo terzo viaggio, col cofano sulle spalle e la fronte madida di sudore. L’Ingegnere proseguì sul ponte: si era fermato accanto a Metello, e insieme a lui e al nipote considerava, sui lucidi, la ripresa dei lavori. “Lippi, o Lippi, datemi una mano” disse Renzoni. Piccolo, come lo chiamavano, e piccolo di statura, una notte a metà perduta, e su e giù di corsa tutta la mattina, la stanchezza gli tagliava ora le gambe: si appoggiò al palo maestro che aveva alle spalle, e vi si sostenne aderendovi col cofano pieno di calcina. “Vieni” disse Lippi. E monotono nella sua ironia. “Questa sarebbe la nuova generazione”, esclamò. “Che ci vai a fare di leva? Appena arrivi ti passano all’infermeria”. “Magari, magari mi rimandassero subito a casa. Mi sposerei prima”. “Bella prospettiva” disse il decano. “Porgimi il cofano, su”. Renzoni piccolo emergeva sul ‘ponte’ di tutto il busto, fidandosi al terzo e al quarto piolo della scala, le spalle appoggiate al cofano e questo a contrasto col palo maestro che sovrastava il ‘ponte’ dove si sarebbe coperta la costruzione. “Sta fermo, te lo tolgo io” aggiunse Lippi. Si chinò, ma i reni non lo assistettero; trascinato dal peso del cofano che aveva agguantato con le due mani, cadde in ginocchio e in avanti, tentò di riprendersi aggrappandosi a Renzoni che a sua volta si puntellò al palo maestro e gli porse la mano. Ma il palo cedette, una delle giunture non ancora ribattuta si aperse, il palo oscillò e il piccolo Renzoni cadde all’indietro, nel vuoto. Il decano, d’istinto cercò di venirgli in aiuto, lo sfiorò appena e portato dallo slancio, precipitò con lui. Un urlo solo e si schiacciarono sullo sterrato. Il decano spirò all’istante, e il piccolo Renzoni, senza avere ripreso conoscenza, mentre lo trasportavano all’Ospedale (…).
L’insegnamento, se ben interpretato, è fornito con chiarezza anche su di un fronte letterario: è il lavoratore direttamente interessato che deve avere e mantenere il “potere” di gestire tutti gli strumenti materiali e culturali per proteggere se stesso. Certo ciò si può e si deve realizzare in un processo articolato in cui altri sono messi nelle condizioni di esplicare un ruolo tecnico vero e non solo burocratico, di facciata, come quasi sempre oggi succede applicando le misure antiinfortunistiche previste dalle leggi di derivazione europea. È inevitabile inoltre che le risorse anche economiche per la prevenzione degli infortuni siano bene evidenziate e utilizzate secondo criteri che ne valutino l’efficienza.
Degli studi fatti ad hoc in alcuni territori portano a ipotizzare che i controlli da parte degli organi di vigilanza possono portare a una diminuzione dei tassi di infortunio non nell’immediato ma dopo almeno 3 anni di follow up. Le sanzioni hanno invece un effetto immediato ma che non dura nel tempo, e un impatto minore sulle ditte di grandi dimensioni. Risulterebbe inoltre che i controlli fatti il giorno precedente un infortunio hanno la potenzialità di ridurre solo un terzo degli infortuni, considerando unicamente quelli mortali, in un settore come l’edilizia.
Il fenomeno infortunistico
Il fenomeno infortunistico e quello delle malattie professionali o meglio delle patologie correlabili con le attività lavorative, rappresentato attraverso numeri o indici spesso mutevoli, assurge ciclicamente all’onore delle cronache, forse più in Italia che in altri Paesi, per esprimere, sinceramente da parte di qualcuno, indignazione, insofferenza e anche voglia di cambiamento.
Negli ultimi anni si è affermata inoltre una tendenza che va al di là della semplice denuncia e che studia il fenomeno con attenzione e con metodi adeguati, con l’intento dichiarato di “conoscere per prevenire”, adottando anche un criterio pedagogico tradizionale, quello dello “sbagliando s’impara”, sfruttando in un certo senso l’evento nefasto (o fortunatamente in alcuni casi il “mancato infortunio”), come succede quando da un individuo che muore per incidente si asportano degli organi da trapiantare. Questi argomenti sono oggetto delle iniziative avviate dal Gruppo di lavoro nazionale flussi Informativi Inail – Ispesl – Regioni – Ipsema sull’utilizzo dei sistemi informativi correnti per la programmazione delle attività di prevenzione nei luoghi di lavoro, e alcuni risultati vengono riportati nel ricco “Dossier Ambiente” n.116. Anno XXIX, IV Trimestre 2016 curato da Laura Bodini per l’Associazione ambiente e lavoro e la Società nazionale operatori della prevenzione (Snop).
I dati sugli infortuni che accadono nel nostro Paese, nel bene e nel male, provengono quasi esclusivamente da una unica fonte, sono tenuti principalmente a fini assicurativi dell’Inail; volerli indirizzare ad altri fini (di conoscenza, di prevenzione e di vigilanza/controllo) comporta varie criticità e richiede conseguenti cautele e adattamenti. L’Inail nel tempo ha variato i criteri di raccolta e di analisi dei dati, i quali trascurano in genere gli eventi che comportano meno di tre giorni di assenza dal lavoro, ossia quelli “in franchigia”, e non contemplano circa il 30% della popolazione al lavoro (commercianti titolari, liberi professionisti o partite Iva, una parte di lavoratori agricoli, gli appartenenti alle Forze armate e ai Vigili del fuoco e alla Polizia di Stato, il personale navigante delle compagnie aeree, i detenuti addetti a lavori condotti direttamente dallo Stato, oltre naturalmente ai lavoratori in nero), e quindi per questo e altri motivi fa difetto, oltre che la “sottonotifica”, il denominatore con il quale calcolare gli indici.
Pur dovendo considerare questi limiti originari, è apparso necessario utilizzare questi dati che nella versione più aggiornata sottolineano che la serie storica del numero complessivo degli infortuni denunciati prosegue un andamento decrescente. Sono state registrate poco meno di 637mila denunce di infortuni nel 2015; rispetto al 2014 si ha una diminuzione di circa il 4%; sono circa il 22% in meno rispetto al 2011. Gli infortuni riconosciuti sul lavoro sono poco più di 416mila, di cui il 18% “fuori dell’azienda” (cioè “con mezzo di trasporto” o “in itinere”). Delle 1.246 denunce di infortunio mortale (erano 1.152 nel 2014, 1.395 nel 2011) quelli accertati “sul lavoro” sono 694 (di cui 382, il 55% “fuori dell’azienda”).
È opportuno ricordare che le denunce di malattia professionale, nonostante l’importante riduzione di quelle classiche che hanno imperversato nel “secolo del lavoro”, sono state circa 59mila (quasi mille e 500 in più rispetto al 2014), con un aumento di circa il 24% rispetto al 2011; ne è stata riconosciuta la causa professionale al 34; il 63% delle denunce è per malattie del sistema osteomuscolare (cresciute del 46% rispetto al 2011); i lavoratori deceduti nel 2015 con riconoscimento di malattia professionale sono stati 1.462 (il 27% in meno rispetto al 2011), di cui 470 per silicosi/ asbestosi (l’85% è con età al decesso maggiore di 74 anni); un numero, questo, che in assoluto è superiore a quello dei deceduti per infortuni. Esaminando la suddivisone per dimensione aziendale del complesso degli infortuni riconosciuti (esclusi quelli “in itinere”) accaduti nel 2000-2015 in “Industria e Servizi”, si conferma la prevalenza di eventi nelle imprese entro i dieci addetti, con qualche punta per le imprese fino a cento addetti relativamente al complesso degli infortuni, punta che si nota meno nel caso degli eventi mortali: il 60% di questi si verifica ogni anno nelle microimprese (ossia fino a dieci addetti). Si assiste inoltre a una progressiva tendenza all’aumento del numero di infortuni nelle donne rispetto agli uomini, di entità molto più rilevante negli eventi “in itinere”. Relativamente agli eventi mortali si evidenzia come la distribuzione per comparto, nel periodo 2010-2015, abbia le costruzioni nettamente in testa con un quarto degli eventi, seguite da agricoltura, trasporti e metalmeccanica.
La Figura che segue mostra come nella distribuzione per l’attività economica ci siano anche delle novità; al primo e al terzo posto si confermano costruzioni e trasporti, ma al secondo posto compare il commercio e al quarto l’assistenza sanitaria.
In riferimento agli altri Paesi europei, la posizione dell’Italia non appare peggiore se si considerano gli infortuni totali, mentre è pessima se si considerano gli infortuni mortali.
Gli infortunati
I dati e le statistiche sugli infortuni illustrano gli andamenti temporali degli infortuni e potrebbero permettere di stabilire priorità di attenzione e di intervento. Insieme a questi sistemi descrittivi è sempre esistito quello dell’inchiesta giudiziaria sui singoli casi definiti gravi, tendenti ad accertare dinamiche dell’accadimento e responsabilità di persone fisiche come previsto dalle leggi. È il caso di richiamare il detto che “la colpa (la responsabilità) morì fanciulla”, infatti pochi, contrastati, silenziosi e spesso prescritti, risultano i procedimenti avviati in alcuni tribunali capaci oltretutto di far assumere il ruolo di vittima, per la seconda volta, allo stesso infortunato; solo qualcuno di essi, come quello per la strage torinese della ThyssenKrupp, è stato portato a termine e ha fatto clamore.
Accanto alle “testimonianze” in ambito giudiziario si è affermato più di recente un nuovo modo di comunicare il rischio attraverso la narrazione di casi di infortunio realmente accaduti; l’ipotesi di partenza è che interventi sulla sicurezza basati sulla narrazione possono attirare l’attenzione, stimolare la riflessione, modificare la percezione del rischio e portare al cambiamento di comportamenti consolidati spesso errati tra i tecnici della prevenzione oltre che tra gli stessi lavoratori. Nella mente di chi si è incamminato su questa strada rimane solida l’idea che una “svolta narrativa” in un contesto tecnico scientifico si realizza quando la conoscenza narrativa viene legittimata come una delle diverse e possibili fonti informative e quando viene attivamente perseguita l’integrazione tra la narrazione e l’evidenza tecnico-scientifica.
Ma la letteratura sull’argomento non è ancora abbondante e neppure del tutto soddisfacente; tra i repertori di casi quello più longevo è il sistema Face (Fatality assessment control evaluation), sviluppato a partire dagli anni ottanta dal Niosh americano che raccoglie a oggi 614 storie di infortunio. In Italia sono disponibili sul web circa 4.000 dinamiche infortunistiche relative a infortuni mortali avvenuti tra il 2002 e il 2012 e analizzate dai Servizi di prevenzione delle Asl italiane; più recente è il progetto piemontese “Dall’inchiesta alla storia: costruzione di un repertorio di storie di infortunio” nato con il proposito di rendere pubbliche le storie di infortunio scritte a partire dalle inchieste da parte degli operatori dei Servizi di prevenzione, di sperimentare il metodo della narrazione impiegando un plain language, per far emergere elementi di contesto e soluzioni preventive e di favorire nuove modalità formative basate sulla presentazione di singoli casi e sulla loro discussione. I casi sono stati sottoposti alla verifica di tecnici e anche di Rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza (Rls), le figure di lavoratori “dedicati” previsti dalla vigente normativa. Attualmente nel repertorio, liberamente consultabile (Le storie d’infortunio come strumento di prevenzione, Dors – Centro di documentazione per la promozione della salute, servizio di epidemiologia e Asl TO3 della Regione Piemonte http://www.dors.it/storie_main.php), sono riportate 39 storie di infortunio, un terzo di esse coinvolge lavoratori stranieri, in un terzo delle storie la causa dell’infortunio è lo schiacciamento o il contatto con organi in movimento; più della metà sono infortuni con esito mortale; i comparti più rappresentati sono l’edilizia e la metalmeccanica.
Di seguito viene riportato uno di questi casi (Io sono Cheng, a cura di Giovanni Polliotti e Giorgio Ruffinatto, Servizio Presal della Asl To3) scelto per l’essenzialità oltre che per la chiarezza:
Che cosa è successo
Durante i lavori per la realizzazione di cubetti in pietra, un operaio ha subito una ferita da schiacciamento alla mano destra riportando un’invalidità permanente del 46%.
Chi è stato coinvolto
Cheng è un operaio cinquantenne di origine cinese che vive in Italia da cinque anni. Da quando è emigrato ha sempre lavorato presso un piccolo laboratorio della pietra come addetto al taglio. Conosce pochissime parole di italiano, ma il lavoro che svolge, di tipo manuale e perlopiù individuale, non prevede grossi scambi con colleghi e superiori e non necessita quindi di un vocabolario molto articolato. Inoltre, il rumore assordante e la diversa provenienza dei lavoratori complicano ulteriormente la comunicazione durante le ore di lavoro.
Dove e quando
L’infortunio è avvenuto in provincia di Torino, nell’autunno del 2008, in un piccolo laboratorio di lavorazione della pietra.
Come
La denuncia di infortunio pervenuta allo Spresal riportava una dinamica di accadimento non molto chiara:
“Mentre tranciava una pietra inavvertitamente si feriva alla mano…”
Nel corso di un primo sopralluogo in azienda, il datore di lavoro della ditta aveva riferito:
l’evento era avvenuto in un piazzale dello stabilimento, dove operano gli scalpellini che preparano i blocchi di pietra per il successivo trancio, in un’area priva di macchinari.
Dai primi accertamenti pareva quindi che l’infortunio fosse avvenuto per pura accidentalità: il lavoratore che si era dato una martellata sulle mani…
Non è stato facile mettersi in contatto con Cheng, trasferitosi nel frattempo in un’altra provincia, ma quando si è potuto sentire la versione dell’infortunato e dei suoi colleghi, si è riusciti ricostruire la vera dinamica dell’infortunio.
Il laboratorio in cui è avvenuto l’infortunio svolge attività di lavorazione della pietra. In particolare la lavorazione parte da blocchi in pietra naturale, da cui vengono prodotte lastre, cordoli, cubetti o quanto richiesto dal cliente. La creazione dei cubetti avviene mediante presse tranciatrici, dette anche “cubettatrici”, macchine dotate di due lame semoventi che spezzano i blocchi di pietra in elementi di più piccole dimensioni.
Cheng, operaio addetto a una pressa cubettatrice, il giorno dell’infortunio, come d’abitudine, stava procedendo alla realizzazione dei cubetti mediante una vecchia tranciatrice, quando ha subito una ferita alla mano destra per schiacciamento fra un blocchetto in pietra e la lama superiore della macchina. L’infortunato è stato portato al Pronto soccorso, quindi trasportato al Cto di Torino, dove è stato sottoposto a ripetuti interventi chirurgici alla mano. In seguito all’infortunio, Cheng ha recuperato solo in parte l’utilizzo della mano.
“Quando mi sono fatto male, i miei colleghi cinesi sono venuti ad aiutarmi. L’altro mio collega arabo ha telefonato al capo. Dopo circa due ore, il mio capo è arrivato e mi ha portato in ospedale a Pinerolo. Adesso non riesco più a muovere la mano e il polso lo muovo poco perché mi fa ancora male”.
Perché
L’infortunio di Cheng è potuto accadere in quanto la macchina tranciatrice al momento dell’infortunio non garantiva un sufficiente grado di sicurezza: la lama superiore, attivata dal comando a pedale, scendeva sul banco di lavoro anche senza il consenso delle fotocellule che intercettano la presenza delle mani dell’operatore (dotate di guanti con catarifrangenti) nell’area di sicurezza.
Il malfunzionamento del sistema di sicurezza, che evita lo schiacciamento delle mani da parte degli elementi mobili della macchina, potrebbe essere stato determinato dai seguenti motivi:
– mancanza o insufficienza di interventi di controllo periodici o straordinari, secondo frequenze stabilite in base alle indicazioni fornite dal fabbricante, necessarie a verificare le buone condizioni di sicurezza della macchina;
– mancata o insufficiente manutenzione sulla macchina tranciatrice volta a garantire nel tempo la permanenza dei requisiti di sicurezza previsti dal costruttore; in azienda non era presente il libretto d’uso e manutenzione della macchina e non vi era alcun registro comprovante gli interventi di controllo e di manutenzione sulle macchine;
– eventuale manomissione del sistema di sicurezza costituito da fotocellule e guanti dotati di banda catarifrangente, che potrebbe determinare la possibilità di operare senza l’utilizzo dei guanti dotati di catarifrangente.
In sintesi, l’azienda ha evidentemente privilegiato la velocità del lavoro a scapito della sicurezza; a tal proposito, Cheng ha riferito che:
“A volte, senza schiacciare il pedale, le lame si muovevano. Quando mi sono fatto male io non ho schiacciato il pedale, ma la lama è scesa…
Avevo i guanti, ma senza il catarifrangente. Sulla mia macchina le fotocellule non funzionavano. Non hanno mai funzionato. Io usavo dei guanti senza catarifrangente… Avevo detto più volte al mio capo che la macchina non funzionava bene: la macchina qualche volta era stata aggiustata, ma le fotocellule non hanno mai funzionato”.
È stato inoltre sentito Lorenzo, un tecnico manutentore intervenuto subito dopo l’infortunio:
“Abbiamo verificato che a volte i coltelli, azionando il comando a pedale, scendevano anche senza posizionare i guanti con catarifrangente al di sotto delle fotocellule”.
Accanto a questi racconti, che hanno dichiaratamente valore tecnico e formativo di sicuro interesse, ce ne sono altri da segnalare che assumono il significato di “memoria”, di rievocazione forte, a effetto, di un fatto terribile che non dovrebbe più ripetersi. L’Ente assicuratore, l’Inail, direttamente o sponsorizzando iniziative di enti di patronato come le Acli o di associazioni come l’Anmil (Associazione nazionale fra mutilati e invalidi del lavoro) ha promosso la pubblicazione e diffuso nella rete molte composizioni, alcune delle quali affidate a giovani scrittori, che hanno al centro vicende legate a infortuni sul lavoro, dando anche la parola ai diretti interessati. Non tutte raggiungono un livello letterariamente soddisfacente, alcune si preoccupano principalmente di toccare le corde dell’emotività e ci riescono più facilmente.
Si offre alla lettura la gran parte di una delle dieci storie “dalla voce di chi le ha vissute” che compare in un volumetto del 2007, stampato a cura della Regione Piemonte, dell’Anmil e dell’Inail.
Mi chiamo Francesco, ho 29 anni e sono anche io una di quelle persone che hanno dovuto fare i conti con la terribile piaga sociale degli incidenti sul lavoro. La mia disavventura ebbe inizio in una fabbrica nella quale lavoravo con un contratto di formazione e lavoro a tempo determinato, in un giorno che poi, mi raccontarono, era venerdì diciassette. Dico mi raccontarono perché sebbene io mi resi conto subito della tragedia accorsami, mi risvegliai qualche giorno dopo dal coma, nella rianimazione di un nosocomio romano dove rimasi per 15 giorni e nel quale persino i medici più ottimisti non pensavano ne potessi uscire vivo. Per dirla breve e a parole ero un vero miracolato.
La dinamica dei fatti fu più o meno la seguente. Alla fine del turno di lavorazione presso la fabbrica nella quale imbottigliavamo bibite, procedevo alla pulizia del macchinario al quale ero addetto, ossia il “depalettizzatore”: una sorta di montacarichi che fa parte della catena di produzione per l’imbottigliamento delle bevande.
Io e un mio collega eravamo all’interno dello stesso nella sua posizione di fermo macchina, ossia la modalità nella quale veniva fermata alla fine di ogni turno di lavorazione, e con tutte le protezioni e sicurezze che il mio caporeparto mi spiegò e che io credevo potessero veramente mettere in sicurezza la macchina.
Per poter accedere e pulire il depalettizzatore – che, sottolineo, è una specie di montacarichi molto grande – il piano dell’elevatore veniva posizionato più o meno a tre metri di altezza, ossia alla massima posizione.
Purtroppo – cosa che io scoprii in sede processuale – dalla macchina erano state tolte delle protezioni di tipo meccanico, solo ed esclusivamente per velocizzarne le fasi di lavorazione. Delle vere e proprie sbarre di metallo che avrebbero impedito al piano del montacarichi di precipitare nel vuoto se si fosse verificata una rottura.
Ora, una vera e propria rottura non si verificò, ma un operaio, per non dover fare dello straordinario si mise a smontare il motore elettrico che azionava il montacarichi per dare una controllata a un rumore che produceva, proprio mentre io e il mio collega eravamo impegnati nella pulizia. Fortunatamente il mio amico se ne accorse e si gettò in terra salvandosi. Io udii solamente un fischio di appena due secondi e il montacarichi mi schiacciò. Ne riportai un infortunio tremendo. Un terribile fracasso facciale nel quale mi si ruppero quasi tutte le parti del cranio, ricostruite mentre ero in coma con un intervento di sei ore. Per sei mesi portai il bloccaggio ai denti (tuttora da rifare) e mangiai solo liquidi da una cannuccia. Entrai in ospedale a gennaio pesando 90 chili. A maggio ne pesavo 63. Nell’incidente mi esplose l’occhio che da allora opero continuamente con una cadenza di tre interventi l’anno, non avendo comunque nessuna speranza di riacquistare la vista ma solo per mantenerlo in vita. Ne riportai un diffuso edema cerebrale e un pesante schiacciamento del polmone. Il braccio mi rimase paralizzato per molti mesi a seguito di una paresi del plesso brachiale e nella gamba mi ritrovai una doppia frattura alla tibia e al perone. Tutto ben ricordato dalle varie cicatrici che mi porto addosso.
Da quel triste giorno iniziai un’odissea fatta di troppe operazioni chirurgiche, lunghe degenze in ospedali, lunghi cicli di fisioterapia, consulenze psicologiche e visite specialistiche. Tutto non ancora terminato, dovendo a breve subire un ulteriore intervento chirurgico. Ne ho perso il conto, forse è il sedicesimo. Mi ritengo in ogni caso un ragazzo fortunato poiché sono qui a raccontarlo, ma di certo la mia vita è cambiata radicalmente, essendomi cambiate prospettive e ritrovandomi da un giorno all’altro, diversamente abile. Non ho cercato lavoro per quasi tre anni proprio perché tra un intervento e l’altro non volevo nemmeno uscire di casa. Ma ora che sento il bisogno di tornare a lavorare, perché il lavoro deve essere un diritto fondamentale dell’individuo, mi accorgo che l’impresa è molto più ardua di come la immaginassi. Le liste del collocamento mirato sono praticamente interminabili e mi ritrovo sempre in graduatorie che poco lasciano da sperare. Allora si rimane in un limbo nel quale si sta sempre più stretti, essendo giorno dopo giorno, sempre più affollato (…).
Considerazioni finali
La frequenza e la gravità degli infortuni sul lavoro, con la loro attuale, ancora sproporzionata, inaccettabile dimensione rappresentano uno degli indicatori con segno negativo delle condizioni dei lavoratori in Italia. Il segno rimane negativo a fronte di sentimenti, in realtà qualche volta strumentali o retorici, diffusi in ogni angolo della società; a fronte anche di risorse umane ed economiche che si richiede di impegnare e che spesso vengono impegnate, ma con risultati obiettivamente poco apprezzabili.
Di indubbio interesse appare il nuovo corso avviato nel Paese che tende a utilizzare i dati del fenomeno infortunistico nel contesto di un serio Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro, utile per programmare degli interventi efficaci anche attraverso una comunicazione non declamatoria. Semmai è da notare una discrepanza, tipica dell’Italia nella fase attuale, tra un impiego, da parte delle aziende, dei privati, di risorse relativamente rilevanti che però risultano poco efficienti, e una scarsità di risorse che grava sempre di più sulle istituzioni, quelle pubbliche, che dovrebbero essere deputate ai controlli nei luoghi di lavoro e a dare impulso innovando la cultura della prevenzione. Una cultura della prevenzione che in Italia, anche per motivi storici, risulta più carente per gli aspetti tecnici, impiantistici e organizzativi, e quindi per l’antinfortunistica, che nel campo sanitario, delle malattie da lavoro, almeno quello clinico diagnostico, uno scarto che tarda a essere superato.
Questo assetto non promette nulla di buono, specie guardando alla rigidità oltre che all’insufficienza del sistema; un sistema, quello preventivo, che appare ampiamente impreparato, oltre che a gestire, a prevedere effetti di cambiamenti decisivi come la “crisi” economica e produttiva, oppure evenienze come una auspicata “ripresa” con tutte le sue conseguenze nei posti di lavoro. Gli infortuni sono comunque solo uno, sicuramente devastante, degli indicatori delle condizioni di lavoro; a questo se ne aggiungono altri non certo più clementi che attengono alla sfera sia fisica che psichica dei lavoratori; tutti gli indicatori e quindi anche gli infortuni sono influenzati da fattori determinanti che interagiscono tra di loro, e tra questi ce ne sono già alcuni peggiori di altri ai quali difficilmente si fa l’abitudine, il frequente cambio di attività e mansioni, la precarizzazione, il non-lavoro, la disoccupazione alternata a lavori instabili, l’incremento, se possibile, del lavoro nero o di quello comunque irregolare.