In ricordo di Penderecki

Con la morte di Krzysztof Penderecki scompare una generazione di compositori di avanguardia, nati tra le due guerre (con lui, tra gli altri, György Ligeti, Pierre Boulez, Hans Werner Henze, Karlheinz Stockhausen, Edison Denisov, Henri Pousseur, Mauricio Kagel) che hanno contribuito a estendere il “concetto” di musica, attraverso il ricorso a creazioni e sperimentazioni strumentali, elettorniche, elettroacustiche, acusmatiche, aperte e aleatorie. Musica non fatta soltanto di altezze e ritmi, ma anche di entità sonore, che possono diventare, oltre il principio ordinatore della tonalità, il fondamento pressoché esclusivo di nuove forme di espressione musicale. Forme di espressione spesso ostiche, talvolta fredde, perché tese verso il futuro, ma anche affascinanti, quando capaci di liberare realmente il suono oltre la tradizione.
Nato a Debica, in Polonia, nel 1933, Penderecki si impose all’attenzione nazionale e internazionale alla fine degli anni Cinquanta; frutto più popolare della prima fase compositiva fu la celebre Trenodia per le vittime di Hiroshima. Scritta nel 1961, la Trenodia nacque dall’incontro immaginario tra l’organico più tipico della musica di tradizione classica, l’orchestra d’archi, e alcune concezioni avanguardistiche della tecnica compositiva del secondo dopoguerra. La filiazione che il brano prese dal tragico evento di Hiroshima contribuì, oltre che a una fama rara per una composizione d’avanguardia, al distacco di Penderecki dalla stessa avanguardia, quella più radicale, in parte già udibile nella carica emotiva che i 52 archi offrono all’ascoltatore. L’utilizzo cinematografico che ne venne fatto in I figli degli uomini (2006) di Alfonso Cuarón e nella serie Twin Peaks (2017) di David Lynch ha contribuito ad accrescerne la fama. Trenodia non è l’unico brano di Penderecki ad aver trovato spazio in pellicole cinematografiche; la sua capacità di tradurre il dramma e la tensione in note musicali spinse registi come Wojciech Has (Il Manoscritto trovato a Saragozza, 1964), Alain Resnais (Je t’aime, Je t’aime, 1968), ancora Lynch (Wild at Heart, 1990, e Inland Empire, 2006) e Martin Scorsese (Shutter Island, 2010) a utilizzare sue composizioni per accompagnare le loro immagini. Ad adoperare al meglio le intuizioni del musicista furono forse William Friedkin nell’Esorcista (1973) – quando Padre Merrin incontra la scultura raffigurante il demone Pazuzu, mentre il frenetico susseguirsi degli archi da Polymorphia (1961), in concomitanza con il ringhiare dei cani, diventa l’emblema di una energia ultraterrena pronta a manifestarsi in tutta la sua devastazione – e Stanley Kubrick in Shining (1980) – facendo risuonare Ewangelia dall’opera Utrenja (1971) alla vista dei fantasmi e per l’uccisione del cuoco Dick Halloran, o quando Jack Torrance prova a raggiungere a colpi d’ascia la moglie rinchiusa nel bagno, sull’impeto ancora di Polymorphia.
Penderecki non è stato solo l’autore di un fortunato pezzo di avanguardia, Trenodia, o di brani resi famosi dal cinema, ma un artista capace di vivere in oltre un secolo d’attività fasi diverse e distanti tra loro, alla ricerca di un linguaggio costantemente capace di evolversi. Dopo l’ascesa creativa all’insegna dell’avanguardia, a partire dagli anni Settanta, con l’inizio della docenza nell’ateneo americano di Yale, la musica di Penderecki iniziò a prendere altre strade, in un complesso tentativo di far coesistere le esigenze della sperimentazione con la memoria del linguaggio tardo-romantico e della lezione di grandi compositori sovietici, ŠostakoviČ su tutti. Come ebbe a scrivere, “agli occhi di noi giovani la musica di Nono, Boulez, Stockhausen e Cage aveva i caratteri di una liberazione, ed era così perfettamente incardinata nei dettami del realismo socialista, che a quei tempi era il canone ufficiale nel nostro paese; tuttavia compresi presto che questa avanguardia era più distruttiva che costruttiva”.
A dare una continuità alla produzione del maestro polacco furono due aspetti in particolare: la costante tensione verso lavori in grande scala, quanto a durata, dimensione formale e organico, e la profonda devozione religiosa. Diversamente da altri compositori di ispirazione cristiana, assieme alla dimensione interiore dell’esperienza religiosa, Penderecki si è particolarmente interessarato alla dimensione esteriore, romana, del cattolicesimo. Nelle sue composizioni quasi tutto è proclamato ad alta voce, con chiarezza di colori, tanto l’angoscia e il terrore quanto la speranza nella luce della fede. La più celebre composizione sacra è la Passio et mors Domini nostri Jesu Christi secundum Lucam, commisionatagli negli anni Sessanta per celebrazione dei settecento anni della cattedrale di Münster. Penderecki interpolò al testo evangelico citazioni dai Salmi, dal Vangelo di Giovanni e dallo Stabat Mater, ricorse a un coro “tellurico” per ottenere il carattere di grande affresco che la composizione richiedeva, e scelse Bach come grande padre spirituale della composizione, non semplicemente omaggiandolo, ma gettando un ponte verso il suo secolo lontano, ricco di angosce e paure. A un episodio della storia religiosa è dedicato anche uno tra i più importanti lavori teatrali di Penderecki, I diavoli di Loudun, per l’Opera di Amburgo (1969), da un racconto di Aldous Huxley: una brutta storia di dogmatismo e di caccia alle streghe, che vede protagonista un prete, forse non un santo, ma accusato ingiustamente durante un esorcismo di malefatte, e successivamente bruciato sul rogo.
Il sentimento spirituale ha caratterizzato l’esperienza umana e compositiva di Penderecki, accomunandolo in ciò ad altri grandi compositori cresciuti musicalmente al di là della cortina di ferro: le vicende di Arvo Pärt e di Alfred Schnittke, in particolare, si ricollegano al suo vissuto in maniera significativa. Con Arvo Pärt, Penderecki ha condiviso, ad esempio, la trasformazione stilistica degli anni Settanta: tuttavia, mentre nel caso del compositore estone fu un lavoro squisitamente avanguardistico, il Credo, a fornire lo spunto di una conversione tanto artistica quanto spirituale, per l’autore della Trenodia la spiritualità era stata una costante di tutta l’esistenza. Le sue posizioni apertamente religiose gli causarono ostilità da parte delle autorità polacche: il sentimento religioso era chiaramente avversato nei paesi del blocco sovietico, pur con varie gradazioni a seconda dei singoli stati; la fama e l’apprezzamento trasversale di cui godette, fin dai primi passi della carriera, costituirono una buona protezione. La svolta progressiva non fu in Penderecki, come spesso accade, frutto di un periodo di silenzio o di ripensamento, ma di un graduale percorso artistico, al punto che la si può avvertire dal gregoriano della Passio fino ai lavori sinfonici degli anni Ottanta, o dal Concerto per violino n. 1, eseguito per la prima volta nel 1977, al secondo, portato alla ribalta da Anne-Sophie Mutter nel 1995. Il fatto che questi lavori degli ultimi decenni, assai più delle prime composizioni sperimentali, abbiano trovato un pubblico maggiormente disponibile all’ascolto è stato liquidato da alcuni come una resa al gusto dei più. In realtà, la memoria di un “passato” musicale non va confusa con una resa, ma interpretata come una non comune capacità di sintesi: pur avendo messo da parte la spinta avanguardistica delle origini, Penderecki ha, infatti, sostenuto fino agli ultimi suoi giorni di aver operato una fusione stilistica in cui accanto all’eredità tardo-romatica aveva affiancato anche molto di quelle idee radicali che lo avevano aiutato ad affermarsi come compositore. E forse è questa capacità di guardare, artisticamente e non, senza rimpianti e risentimenti, ma con sincerità, al proprio passato creativo il suo lascito più importante.